CENTRO PREVENZIONE SALUTE MENTALE DONNA

 


"Sanità: Quando le Donne Fanno Differenza"

Conferenza Europea - Ancona, 25-26 giugno 1999

 

Introduzione

"Presenza femminile e spostamenti di prospettiva nella sanità"

di Paola Vinay

 

 

Nell'ambito del Progetto Europeo “Scuola di Politica Hannah Arendt: presenza femminile nella sfera pubblica” la "Cooperativa di Ricerche Statistiche e Sociali Prospecta" sta svolgendo uno studio di caso sulla sanità pubblica che è stato co-finanziato dalle Commissioni per le Pari Opportunità tra Uomo e Donna della Regione Marche e  delle Provincie di Ancona, Ascoli Piceno e Macerata.

L’obiettivo generale del Progetto “Hannah Arendt” è di favorire la presenza femminile nella sfera pubblica, documentando, sperimentando e divulgando a livello locale, italiano ed europeo “buone pratiche” di donne volte a dare inizio a nuove forme di autorità femminile e a nuove forme di azione pubblica di donne e uomini nella politica.

L’obiettivo specifico di questo studio di caso è favorire la presenza femminile nei processi decisionali della sanità pubblica nella misura in cui le donne sono portatrici di conoscenze, di un metodo di lavoro e di uno stile di leadership che possono contribuire a una maggiore efficacia delle prestazioni sanitarie. In considerazione di questa maggiore efficacia si giustifica un secondo obiettivo del Progetto: favorire la diffusione di tali metodi di lavoro e di leadership. L'affermazione che le donne in sanità possono portare un contributo innovativo che ne può migliorare l'efficacia si basa sull'analisi della letteratura rilevante e sui  risultati di una importante ricerca Europea condotta dalla "Prospecta" tra il 1995 e il 1997 con la collaborazione del Network europeo “Donne e Processi Decisionali"[1].  Il contributo innovativo e gli spostamenti di prospettiva portati nella sanità dalle donne emergono chiaramente anche dalle "buone pratiche" o "pratiche efficaci" sulla sanità documentate nel corso del progetto europeo: "Scuola di politica Hannah Arendt: presenza femminile nella sfera pubblica"[2].

 

Voglio sottolineare a questo punto che quando auspico una maggior presenza delle donne nei luoghi di decisione della sanità pubblica non faccio riferimento a qualsiasi donna, ma, come indica l'inciso "nella misura in cui" di quelle donne che sanno portare contributi innovativi, sanno produrre spostamenti di prospettiva tali da migliorare la qualità, l'efficacia della sanità pubblica e migliorare il rapporto comunicativo tra le parti; mi riferisco in altre parole a quelle donne che - per usare le parole efficaci di Raffaella Lamberti - nel lavoro, nelle relazioni con l'altra/l'altro nella presa di decisioni, adottano il "metodo delle donne riflessive", sanno lasciarsi contaminare, imparare, sanno fare legame, sanno "prendersi cura insieme".

 

 

1  - Il ruolo delle donne nella sanità: disparità di opportunità e spostamenti di prospettiva.

 

Per l’elevata presenza femminile la sanità costituisce un importante punto di osservazione del ruolo delle donne. Esse costituiscono, infatti, in tutti i paesi europei, i due terzi dell’occupazione di questo settore e sono presenti in tutte le professioni sanitarie. Ciò nonostante, esse sono quasi ovunque sotto- rappresentate ai vertici decisionali.

I dati raccolti nel corso dell'indagine nei 15 paesi dell'Unione Europea hanno mostrato che, la percentuale di donne ai vertici degli organismi di consultazione; dell'amministrazione pubblica della sanità e degli ospedali è  spesso bassa. Per esempio: in un terzo dei paesi dell'Unione non troviamo alcuna donna nella posizione di direttore generale dell'Amministrazione Centrale della sanità. Pochissime sono le donne ai vertici degli organismi mutualistici e delle Casse malattia in tutti i paesi del Centro Europa in cui sono operanti tali organismi. Anche le Associazioni nazionali dei medici sono gestite di solito quasi interamente da uomini tanto che le donne medico hanno sentito il bisogno di costituire una propria associazione professionale internazionale.

Vi sono tuttavia notevoli differenze tra le tre "grandi regioni europee" (Nord, Centro e Sud Europa): la partecipazione delle donne ai livelli decisionali elevati è maggiore nei cinque paesi del Nord Europa (Svezia, Finlandia, Danimarca, Irlanda, Gran Bretagna). Essa si riduce, invece, nei sei paesi dell'Europa Centrale (Olanda, Belgio, Lussemburgo, Francia, Germania, Austria) e nei quattro paesi del Sud Europa (Italia, Spagna Portogallo e Grecia).

 

La presenza delle donne è apparsa scarsa soprattutto in quei gruppi professionali che hanno potere decisionale: spesso la loro quota tra i medici di più alto livello (primari) o tra i vertici gestionali (direttori generali) è molto bassa. Per esempio: in Germania e in Austria la percentuale di donne primario non supera l'8%. Per quanto riguarda l'Italia, nel 1996, su 36 componenti il Consiglio Superiore di Sanità vi era solo una donna; nel comitato scientifico dell'Istituto Superiore di Sanità la percentuale di donne era inferiore al 7%.  Nelle 208 ASL italiane  erano affidate a donne solo il 2,9% delle direzioni generali, il 4,5% delle direzioni amministrative e l’8,4% delle direzioni sanitarie; analoghe le percentuali per le Aziende Ospedaliere (rispettivamente 3,6%, 4%, 11,8%).  La percentuale di donne primario, poi, varia notevolmente da Ospedale a Ospedale, per esempio: presso l'Azienda Ospedaliera "Istituti Clinici di Perfezionamento" di Milano nel 1996 il 20% dei primari erano donne, ma alla stessa data esse costituivano appena lo 0,32% dei primari dell'Azienda Ospedaliera "Cardarelli" di Napoli.

 

Benché le donne siano presenti in tutte le professioni sanitarie, esse sono concentrate in alcune professioni: sono più numerose tra biologi, psicologi, fisioterapisti e costituiscono ovunque la maggioranza degli infermieri e di altre professioni sanitarie non mediche e la quasi totalità delle ostetriche. Per esempio: in Francia le donne costituiscono il 28% dei medici di medicina generale, ma il 75% degli psicologi - psicoanalisti, degli specialisti della riabilitazione e dei dietisti, l'85% degli infermieri professionali e la quasi totalità delle ostetriche e puericultrici. Anche all'interno della professione medica la percentuale di donne varia molto a seconda della specializzazione; esse, infatti, hanno una maggiore presenza in branche quali: medicina generale, pediatria, psichiatria e una presenza ovunque molto ridotta nella chirurgia. Per esempio: in Inghilterra sono donne la metà dei pediatri, ma solo il 7% dei chirurghi; in Irlanda sono donne il 39% degli psichiatri, ma solo il 3% dei chirurghi.

 

In proposito, secondo alcune dirigenti italiane, francesi e svedesi, all'interno delle professioni mediche vi sarebbe una precisa gerarchia di prestigio e potere tra le varie specialità e le donne avrebbero minori opportunità di accedere ad alcune specialità (in primis la chirurgia) a causa della selezione di genere fatta dai professori che sono in maggioranza maschi. In branche come la pediatria, dove lo stesso paziente può essere visitato da più persone, anche le donne avrebbero l'opportunità di fare esperienza, ma nel campo della chirurgia le donne sarebbero escluse. Una conferma di queste affermazioni viene dal fatto che il maggior centro ospedaliero universitario di Stoccolma ha sentito la necessità di avviare un programma di 'mentorship' per garantire pari opportunità alle donne.

 

In sintesi nella sanità le donne sono ancora sotto-rappresentate ai vertici decisionali anche perché le  

professioni in cui sono maggiormente presenti (medici di base, pediatri, psicologi, infermieri, ostetriche etc.), hanno scarso potere decisionale. Va detto in proposito, che il valore dato alle diverse professioni è definito dalla cultura e  dalle relazioni di potere e  la gerarchia vigente tra le professioni, potrebbe essere viziata dalla diversa presenza maschile/femminile e da un rapporto di potere che finora ha favorito gli uomini.[3]  Comunque, il fatto stesso di aver costruito la propria esperienza lavorativa in ambiti e professioni ritenute - a mio avviso a torto - meno importanti costituisce una delle principali condizioni di svantaggio per la carriera delle donne ed è uno dei motivi per cui sono poche quelle che possono partecipare ai concorsi in cui vengono selezionati i massimi livelli dirigenziali delle Aziende Sanitarie e Ospedaliere.

 

Altri ostacoli derivano dal minor accesso alle "reti informali" e a  "personalità influenti" e dalla supposta scarsa "attitudine alla dirigenza". C'è da chiedersi, però, quali criteri denotano la "attitudine alla dirigenza": se, per esempio, si valorizza la capacità di dare ordini che siano poi acriticamente seguiti, o se si valorizza la capacità di cooperare, ascoltare suggerimenti, prendere decisioni condivise. In effetti, vi possono essere delle differenze tra i due generi in questo campo.

 

Un ostacolo importante riguarda la difficoltà di combinare impegno professionale e impegno nell'attività di cura familiare. A questo proposito va detto che ben un terzo delle donne che si trovano ai vertici della sanità in Europa sono "single" o separate (una percentuale quasi tripla di quella registrata per gli uomini). Inoltre, quasi un terzo di esse non ha figli ed un altro 20% ha un solo figlio (le percentuali per gli uomini sono nettamente inferiori in entrambi i casi). Ciò sta a dimostrare che in assenza di adeguati servizi sociali, di una più equa ripartizione fra i sessi dell'attività di cura e in presenza di una organizzazione rigida del lavoro le donne che hanno responsabilità familiari devono affrontare notevoli difficoltà per accedere a ruoli decisionali.

Va detto, tuttavia, che al riguardo vi sono notevoli differenze tra i vari stati dell'Unione  Europea: le donne del Centro e del Sud Europa che hanno raggiunto posizioni di vertice nella sanità sono assai più spesso delle colleghe del Nord Europa 'single' o separate e senza figli: ben il 47% delle dirigenti del Sud non vive in coppia, una percentuale doppia rispetto a quella del Nord; il 39% di esse non ha figli ed il 29% ne ha uno solo, mentre quasi i due terzi delle donne del Nord ha almeno due figli. Da notare, tra l'altro, che gli uomini del Sud che non vivono in coppia sono solo il 9%.

Sembrerebbe, quindi, che nei paesi del Centro e soprattutto del Sud Europa (assai più frequentemente che in quelli del Nord) il fatto di non avere famiglia favorisca la carriera delle donne; in effetti, non di rado esse sono costrette a difficili scelte tra famiglia e carriera o a ridimensionare le loro aspirazioni. Ciò avviene assai meno frequentemente laddove vi sia una adeguata diffusione dei servizi per l'infanzia, una presa in carico anche da parte degli uomini delle attività di cura e una diffusa cultura delle pari opportunità.

 

Questi risultati della nostra ricerca sono per molti aspetti coerenti con quelli di un'indagine condotta negli Stati Uniti sulle possibilità di carriera dirigenziale degli uomini e delle donne nella sanità[4]. Anche da quella ricerca è emerso che, rispetto agli uomini, una quota nettamente superiore di donne sono 'single' e senza figli. Anche da essa è emersa l'importanza per far carriera della conoscenza di "personalità influenti" e delle "reti informali", ma le donne sono apparse avere meno possibilità di interagire con quei superiori che sono importanti a fini di carriera (perché in grado di fornire visibilità, di assegnare progetti importanti, di fornire informazioni sulle prospettive e dare accesso alle reti informali).

 

 

Venendo al titolo della mia relazione, vediamo ora quali spostamenti di prospettiva porta nella sanità la presenza delle donne. Voglio precisare subito - per non dare l'impressione di fare affermazioni prive di fondamento - che quanto dirò deriva dall'analisi di 400 questionari compilati da donne e uomini che detengono posizioni di vertice nelle principali istituzioni sanitarie dei 15 paesi dell'Unione europea; da circa venti interviste in profondità effettuate in Francia, Italia e Svezia; da oltre 40 lunghi colloqui con donne che dirigono servizi sanitari e Associazioni di volontariato nelle Marche, e dall'analisi della letteratura rilevante.

 

E' opinione diffusa che le donne - le "donne riflessive" - portino nella sanità nuove idee e un modo diverso di affrontare i problemi. Su questo tema c’è un largo consenso, in tutti i paesi dell'Unione Europea, fra molte donne e uomini che hanno un ruolo decisionale nella sanità. Mentre gli uomini sembrerebbero più propensi ad intervenire sulle patologie gravi (infarto, chirurgia del cervello etc.) - che nella gerarchia medica hanno più prestigio - le donne sembrano avere un'ottica che punta a risultati a lungo termine privilegiando anche aree considerate di basso prestigio. Esse sono portatrici di cambiamento perché tendono ad avere una visione più globale e pongono all’ordine del giorno della politica sanitaria priorità diverse: la prevenzione, l’informazione e l’integrazione tra sociale e sanitario. Esse prestano maggiore attenzione ai problemi legati alla maternità e all'infanzia, alla prevenzione del cancro al seno e all'utero, alla cura dell'anziano, delle malattie croniche.

Vari studi, del resto, hanno mostrato che esiste una relazione tra la rappresentanza femminile al livello politico amministrativo e l'attenzione a determinate tematiche[5]. Quindi – come affermato nella Decisione del Consiglio Europeo di adottare il 4° Programma di Azione Comunitaria sulle Pari Opportunità tra Donne e Uomini (1996-2000) – "c’è un valore aggiunto nella presenza equilibrata di uomini e donne nel potere decisionale".

 

Raffaella Lamberti nella sua relazione ha richiamato la nostra attenzione sulla necessità di "fare legame". Ciò che ci si è proposti con la Conferenza Europea "Sanità: quando le donne fanno differenza” è stato appunto offrire un'importante occasione per cominciare a "fare legame" e discutere degli spostamenti di prospettiva che le donne, almeno le "donne riflessive", imprimono in questo settore. Essa, infatti, ha per oggetto il contributo innovativo delle donne nel processo decisionale della sanità, nel dare risposta ai bisogni emergenti, dare voce alla persona malata, prestare attenzione alle differenze di genere nella ricerca scientifica e nella cura.

La Conferenza ha un programma molto intenso in quanto è intesa come importante momento di studio, lavoro e confronto fra diverse esperienze di donne - o donne e uomini - che operano nella sanità con modalità innovative e agiscono "pratiche efficaci". Le quattro sessioni in cui sono divisi i lavori della Conferenza affrontano i principali temi emersi dalla documentazione delle "pratiche efficaci" e dalla ricerca europea sulla partecipazione delle donne ai processi decisionali della sanità.

 

 

2 - Collegialità nelle decisioni e valorizzazione dei diversi saperi.

 

In un suo recente articolo Raffaella Lamberti ha scritto:

“... dire democrazia senza leadership evoca ... l’assenza di capi che riassumano in sé le ragioni dei singoli e la direzione del futuro; la centralità della parola, il primato della discussione, la libertà nella scelta dei temi; una gestione non autoritaria dell’autorità e la disponibilità a condividere le competenze e le decisioni”[6]. 

Questa definizione è coerente con il tema della prima sessione della Conferenza: "Decidere insieme: consenso e pari dignità dei saperi" che riguarda il processo decisionale e gli spostamenti di prospettiva in direzione della collegialità, del consenso, della valorizzazione delle diverse professioni e dei differenti saperi di cui molte donne dirigenti sono portatrici.

 

Ricordo in primo luogo che negli anni le donne hanno prodotto una notevole ricchezza di saperi e conoscenze. Per quanto riguarda il loro agire come dirigenti, dalle nostre ricerche emerge che le donne "riflessive" - per usare il termine proposto da Raffaella Lamberti - dirigono senza imporre, ma cercando il consenso anche perché sono convinte che le decisioni prese insieme e condivise sono poi più efficacemente portate avanti. Rispetto a quello degli uomini, il loro stile di leadership sembra essere più spesso orientato alla cooperazione e alla ricerca della collegialità. Quello che è importante per loro è il risultato e non pensano di perdere prestigio se cercano di ottenere l'accordo sulle decisioni da prendere. Le dirigenti assumono spesso un orientamento differente nell'organizzazione dei servizi e valorizzano attività e professioni scarsamente considerate. Nella organizzazione del  lavoro, nella distribuzione dei turni e dei compiti, creano un ambiente di maggior rispetto nei confronti dell’altro.

Le dirigenti incontrate durante il lavoro di documentazione delle “buone pratiche" o "pratiche efficaci” in sanità sono apparse attribuire molta importanza alle relazioni interpersonali, sia con la persona malata che con i colleghi e coloro che lavorano sotto la loro direzione. Sono apparse aperte al dialogo e al confronto, senza timore di chiedere consigli e senza gelosia professionale. Esse, inoltre, tendono a riconoscere autorità anche a professioni oggi scarsamente valorizzate, a rispettare i diversi ruoli, ad avere con i collaboratori rapporti chiari, diretti e informali. Quando nel processo decisionale si verificano dei conflitti, esse si prendono il tempo necessario per mettere a fuoco l’obiettivo principale del servizio, per discutere, per raggiungere la collegialità. Quando poi insorgono dei conflitti tra diverse istituzioni, esse intraprendono un tenace lavoro di mediazione e di costruzione di connessioni, senza perdere di vista l’interesse della collettività[7].

Certamente alcune dirigenti hanno un atteggiamento autoritario, ma ciò si verifica più spesso quando ai vertici le donne sono poche e hanno dovuto sostenere una forte competizione. Quando, invece sono in molte, come in alcuni paesi del Nord Europa, è più probabile che esse assumano un approccio alla dirigenza più democratico e agiscano assumendo il metodo delle donne "riflessive".

 

Un altro spostamento di prospettiva promosso in modo particolare dalle donne - e collegato alla capacità di prendere decisioni condivise - è l'integrazione tra sociale e sanitario; ciò comporta l'intervento di più soggetti istituzionali e non, la costruzione di connessioni tra diverse istituzioni, servizi e associazioni di volontariato per programmare insieme prestazioni sanitarie e sociali volte alla promozione della salute e alla prevenzione della malattia.

Quando hanno occasione di ricoprire ruoli decisionali nella sanità, queste donne  costruiscono reti, coinvolgono le istituzioni se in esse trovano un interlocutore attento: il che vuol dire spesso un’altra donna. In altre parole, esse traggono forza per imporre il cambiamento quando riescono a mettersi in  relazione tra donne che operano sul piano istituzionale e donne che operano nei servizi e nella società civile. Per questo motivo in questa prima sessione di lavoro c'è la presenza di dirigenti dei servizi sanitari e di donne delle istituzioni politiche.

 

Naturalmente vi sono anche uomini che si comportano nella sanità nel modo appena descritto, ma ciò avviene più frequentemente se ai livelli dirigenziali ci sono donne; comunque la convivenza di una pluralità di idee, conoscenze e saperi è una ricchezza da non perdere e permette una visione più completa. Vale la pena di ricordare, in proposito, un dato molto importante emerso dalla nostra ricerca europea. Le donne che ricoprono ruoli decisionali nella sanità, con il loro metodo di lavoro e stile di leadership producono anche un mutamento nel comportamento degli uomini. In quei paesi in cui già da tempo le donne hanno un posto rilevante nel processo decisionale sono mutate le scelte di politica sanitaria, sono state portate all’attenzione di tutti problematiche precedentemente considerate solo dalle donne e ha iniziato a mutare a loro favore anche l’atteggiamento degli uomini i quali, evidentemente, hanno avuto modo di apprezzare l’importanza del contributo innovativo delle donne nella politica sanitaria.

 

 

Le relazioni e gli interventi di questa sessione affrontano in modo più approfondito e con la ricchezza che deriva da lunghi anni di ricerca e dall'esperienza diretta, gli argomenti appena accennati. Con un approccio assai interessante, Giovanna Vicarelli - associata di sociologia presso l'Università di Ancona, studiosa di sociologia della medicina e delle professioni - mette in relazione i processi di professionalizzazione nella sanità con i sistemi sanitari vigenti nei diversi paesi e con la presenza femminile nelle professioni. L'analisi storica dell'affermarsi delle professioni sanitarie è vista attraverso le teorie sociologiche che si sono succedute dagli anni cinquanta ad oggi riflettendo non solo l'evolversi del pensiero sociologico, ma anche il cambiamento nel tempo e nello spazio della realtà sociale su cui esso si fonda. Così si passa dall'analisi dell'egemonia dei medici a discapito degli altri saperi (delle donne) degli anni 50-70, al ridimensionamento del potere medico ad opera del potere amministrativo e, in anni più recenti, alla crescente stratificazione dei medici, nella quale, secondo le teorie femministe, le donne medico occupano la posizione più marginale, alcune assumendo il modello medico dominante, altre alleandosi con le infermiere, le ostetriche e i consumatori.

Osservando che il ruolo delle  professioni muta nel tempo e nello spazio, la Vicarelli ci propone una breve analisi dei tipi di professionalizzazione che si realizzano nei quattro modelli di welfare prevalenti in Europa, soffermandosi sulle differenze tra i paesi scandinavi e quelli sud europei. Nei primi l'intervento pubblico sostituisce il mercato e la famiglia e i medici sono stati cooptati nell'apparato statale; viceversa nei sistemi di welfare particolaristico-clientelari del Sud Europa - caratterizzati dall'intreccio tra medicina pubblica e privata - si realizza "una responsabilizzazione non pubblica, ma familiare dei servizi e degli aiuti alla persona così che il lavoro delle donne è il risultato di un grande impegno parentale e personale".

 

Nell'ultimo paragrafo, la Vicarelli, con riferimento alla medicina di base e all'assistenza materno-infantile, sottolinea le alleanze professionali che si creano tra medici, donne medico e le altre professioni in seguito ai cambiamenti in atto nei diversi contesti nazionali. Si scopre così che in  Finlandia le donne medico si alleano con le infermiere con un progetto professionale condiviso basato su un approccio olistico e preventivo che accresce la propria autorità, ma riduce i margini di autonomia delle ostetriche. In Svezia sono le ostetriche ad assumere una strategia volta a valorizzare la propria autonomia professionale e a riconquistare spazi e interessi nuovi. In Olanda è la stessa politica pubblica ad assegnare alle ostetriche ed ai medici di famiglia un ruolo centrale nella tutela sanitaria delle donne e dei bambini. Quanto all'Italia l'analisi della Vicarelli spazia dalla subordinazione - a partire dalla fine del secolo scorso - del sapere tradizionale femminile a quello medico scientifico; alla sconfitta delle levatrici, una parte delle quali si sarebbe poi dedicata a pratiche illegali (contraccezione, aborto) ed una parte si sarebbe subordinata all'ostetrico; alla politica familiare fascista  volta a condizionare le donne sul piano delle scelte matrimoniali e procreative; alla istituzione dei Consultori Familiari - fortemente voluta dal movimento delle donne -  il cui intervento si prefigura meno medicalizzato e più rivolto alla prevenzione, ma in cui i vari ruoli professionali sono ancora subordinati alla componente medica; fino a descrivere i cambiamenti previsti dal Piano Sanitario Nazionale 1998-2000 con la costituzione del Dipartimento Materno Infantile da cui emerge ancora la forte centralità dell'assistenza medico-ospedaliera ed una possibile ulteriore perdita di valore delle professioni sanitarie non mediche. L'analisi si chiude con una nota positiva, con l'ipotesi, cioè, che l'elevata presenza medica femminile nei distretti, nella medicina di base, nella pediatria, nei reparti di ostetricia, ginecologia, neonatologia e pediatria possa facilitare i processi di integrazione e coordinamento.

 

In sintesi, la relazione mostra che il valore attribuito alle varie professioni è culturalmente determinato e la costruzione di connessioni tra donne che nella sanità hanno ruoli e competenze diverse varia da società e società. Per la sua ampiezza questa relazione si pone non solo come introduzione alla prima sessione, ma costituisce un quadro generale di riferimento per l'intera Conferenza.

 

 

Anche la relazione di Margherita De Gaetano - responsabile dell'Area Materno-Infantile, Donne e Minori della ASL Napoli 1 - parte dalla complessità dei cambiamenti in corso nella sanità italiana per affermare la necessità dell'integrazione, del lavorare "con", del condividere competenze e risorse, ricchezza di saperi e di esperienze. A tal fine prefigura un modello organizzativo socio-sanitario per dare risposta ai bisogni intrecciando e integrando competenze complementari: "più mani tese che lavorano insieme per un progetto comune, più menti tese alla conciliazione, a cercare ciò che unisce, non ciò che divide… Occorre la creazione di modi di pensare, di competenza, di formazione su come la cura della qualità umana della relazione tra operatori di sistema e tra chi cura e chi è curato, agisca sulla finalità, sulla ricerca del senso".

Ricordando la necessità di considerare l'individuo nella sua globalità la De Gaetano sottolinea con forza  l'importanza dell'integrazione tra istituzioni diverse, della circolazione delle informazioni, del lavoro comune, della capacità di usare il sapere offerto dagli altri mantenendo la propria specificità. In questa concezione anche il processo decisionale è improntato alla collegialità pur nella responsabilità individuale: "Non basta l'aumento del patrimonio delle conoscenze, la conoscenza deve…. utilizzare il suo spazio di libertà, affinché avvenga una gestione non autoritaria dell'autorità, affinché si realizzi la disponibilità a condividere competenze e decisioni per raggiungere, in percorsi di progetto, un unico obiettivo…. Occorre solidarietà intesa come la determinazione ferma e costante per il bene comune perché tutti siano responsabili di tutti nella misura in cui conoscono e sono liberi di intervenire".

Nella sua pratica di lavoro la De Gaetano ha notevolmente contribuito alla messa in rete di diverse istituzioni e diversi ruoli professionali al fine di programmare efficaci servizi di prevenzione e dare una pronta risposta ai bisogni emergenti della donna, del bambino violato, dell'adolescente. Il progetto "Bambini maltrattati" di cui brevemente si riferisce in questo testo, costituisce un esempio di un modello organizzativo sistemico che supera le barriere tra gli interventi messi in essere da istituzioni diverse per costruire un progetto integrato centrato sulla globalità del bambino.

 

 

Le due relazioni introduttive hanno quindi affrontato da punti di vista diversi aspetti complementari del tema generale della sessione: l'analisi teorica di Giovanna Vicarelli sulla variabilità nel tempo e nello spazio dei progetti professionali e delle alleanze tra donne per valorizzare la propria professionalità e così facendo promuovere l'integrazione socio-sanitaria, è complementare all'analisi teorico - pratica di una dirigente sanitaria che teorizza e mette in pratica il lavoro in rete, la connessione tra diverse istituzioni e diversi ruoli professionali per un progetto comune condiviso in cui il processo decisionale non può che partire dalla pari dignità dei saperi, dal consenso, dal "decidere insieme".

 

I temi toccati dalle relazioni introduttive sono arricchiti, poi, dagli interventi successivi. Tiziana Bentivoglio - Direttora Generale dell'Azienda Ospedaliera "Lancisi", Isituto Cardioreumatologico ad alta specializzazione di Ancona - offre un contributo al dibattito per quanto attiene all'importanza della collegialità nelle decisioni. La Bentivoglio - l'unica donna nella Regione Marche a ricoprire la carica di Direttore Generale di un'Azienda ospedaliera o sanitaria - ha nominato due donne alla direzione amministrativa e sanitaria dell'Azienda che, quindi, ha oggi una triade dirigenziale tutta al femminile. Tale scelta non è stata fatta a priori per la volontà di nominare delle donne, ma è stata il frutto di una ricerca di persone che permettessero un lavoro collegiale della direzione e una messa a fuoco comune degli obiettivi. Nel suo intervento si legge in proposito: "La realtà Azienda sanitaria dovrebbe vivere di collegialità e di assenza, almeno nell'alta direzione, di volontà confliggenti fra loro…. La realtà oggi esige persone che sappiano vivere una responsabilità individuale e collettiva, sappiano essere più cooperative che non individualiste o competitive, …. sappiano affrontare in modo costruttivo i conflitti interpersonali, vivere una responsabilità decentralizzata dell'autorità, lavorare in gruppi per compiti e scopi, per progetti comuni". 

 

Per quanto riguarda il tema dell'integrazione socio-sanitaria, c'è da dire che spesso il processo di integrazione tra diversi servizi e istituzioni è favorito dalla presenza di donne con ruoli dirigenziali nella sanità e donne che hanno responsabilità nelle istituzioni politiche. Così per esempio nel lavoro di connessione tra diverse istituzioni di cui la De Gaetano è parte attiva, un ruolo importante lo gioca la Assessora alla Dignità del Comune di Napoli Maria Fortuna Incostante che ha promosso una rete di donne con ruoli decisionali nella sanità partenopea, al fine di elaborare proposte, dare indicazioni e avviare progetti comuni con la ASL. Anche ad Ancona il processo di integrazione socio-sanitaria, precedentemente ostacolato da reciproche diffidenze e gelosie da parte delle istituzioni coinvolte, ha conosciuto uno sviluppo notevole con due donne Assessore ai Servizi Sociali - Patrizia David prima, Maria Grazia Camilletti ora - che hanno saputo intrecciare relazioni con le istituzioni sanitarie del territorio anche grazie alla sponda femminile di supporto trovata in alcune dirigenti.

 

Con il suo intervento, Maria Grazia Camilletti, sottolinea come, superate le iniziali diffidenze, sia stato possibile per lei assumere un ruolo di coordinamento e promuovere il "Tavolo di Confronto" tra Comune e le Aziende sanitarie e ospedaliere della città al fine di integrare gli interventi sociali e sanitari; i risultati di questo lavoro di connessione sono testimoniati dai numerosi accordi stipulati tra i soggetti coinvolti. Si è così avuto modo di vedere "le reti femminili formali e informali che si sono palesate e create….  come la ragnatela di risorse femminili si sia allargata e continui ad allargarsi" producendo numerosi progetti in cui - come per il Profilo di salute della città - intervengono diverse professionalità "legate da un'ottica di genere". Ecco, quindi, che anche in questo caso il processo decisionale assume l'aspetto di un percorso condiviso e il consenso "è quello che si ottiene con l'efficacia del risultato, con un progetto costruito pazientemente con il contributo di tanti/e".

 

Un interessante esempio di collaborazione volta a sostenere le scelte di politica sanitaria che rispondano ai bisogni delle donne è data dalla cooperazione tra l'unità sanitaria locale e il Women's Decision Making Network della città di Derby (UK), una rete il cui scopo è di promuovere il coinvolgimento delle donne nella vita politica costruendo legami tra le organizzazioni e i gruppi di donne attivi nella città. Le cinque rappresentanti di questo progetto hanno dato durante la Conferenza un esempio molto bello di democrazia "senza leadership" dividendosi il tempo a disposizione per dare a ciascuna la possibilità di esprimere il proprio punto di vista pur conservando l'unità di intenti. Si tratta di: Julia Lyford, rappresentante del Consiglio comunale di Derby e del Derby Women's Decision Making Network; Kath Childs del Southern Derbyshire Health Autority (istituzione sanitaria locale); Liz Sajdak rappresentante del Community Health e del Primary Care Group, un organismo di recente istituzione; Jas Sanghera rappresentante dell'associazione culturale di supporto alle donne Karma Nirvana; e Romi Jones rappresentante di Fourth Action, una consulta che offre sostegno alle organizzazioni che lavorano su progetti a favore delle donne e degli emarginati.

 

Infine, con il suo intervento Patrizia Caporossi, coordinatrice della Scuola di Donne - Seminari Magistrali "Joice Lussu" di Ancona, ha sottolineato la qualità della presenza femminile nella sanità, come nell'agire politico, in quanto capacità di relazionarsi, costruire connessioni e promuovere un sapere fattivo. Come esempio porta l'esperienza della scuola di politica da lei coordinata che testimonia una progettualità femminile che guarda al mondo, alla qualità della vita, attraverso la lente della differenza sessuale.

 

 

Nel corso del nostro lavoro di documentazione delle "buone pratiche" abbiamo incontrato numerose donne il cui operato è coerente con quanto affermato nei lavori di questa sessione della Conferenza per la loro modalità di direzione collegiale (come nel caso del Distretto Ancona Nord, del Centro Trasfusionale della ASL 9 di Macerata, dell'Ufficio Sviluppo Organizzativo della ASL 4 di Senigallia); perché valorizzano le diverse professionalità (esemplare in merito la pratica del "Centro Epilessia" dell'Azienda Ospedaliera Torrette di Ancona); perché hanno la capacità di costruire collegamenti e coordinare gli interventi (come nel Dipartimento Servizi Territoriali - Sezione Materno Infantile della ASL 7 di Ancona). Importanti contributi vengono anche da  donne che, operando nelle istituzioni, come Maria Grazia Camilletti, svolgono un'azione di coordinamento dei servizi sul territorio per dare risposte ai bisogni dei minori (come il progetto "Estate Ragazzi" dell'Assessorato ai Servizi Sociali della Provincia di Ascoli Piceno), o dei portatori di handicap (come l'assessorato ai servizi sociali della provincia di Macerata e il citato Assessorato alla Dignità del Comune di Napoli).

 

E' chiaro che il tema del coordinamento tra servizi e istituzioni diverse è strettamente legato alle modalità di azione assunte nel processo decisionale, alla capacità di mettersi in relazione e al desiderio di produrre spostamenti, di innovare. Non è raro che ciò avvenga più facilmente se la collaborazione è tra donne e questo è anche un motivo per cui alcune dirigenti - come è capitato alla Bentivoglio - senza una precisa scelta a priori, si trovano a promuovere altre donne. Così si è espressa per esempio una dirigente della ASL 4 di Senigallia da noi intervistata:

"Mi sembra che le donne abbiano più sensibilità verso queste tematiche della qualità, soprattutto dal punto di vista dell'utenza… Io ho bisogno di collaborazione da parte di persone che sono in prima linea … persone che si entusiasmano, che hanno voglia di fare, di cambiare, di innovare … non parto con l'idea che debbano essere donne, ma poi mi trovo che le persone che scelgo sono in maggioranza donne, ho visto che sono più sensibili a questi discorsi… Spesso sponsorizzo donne e sempre perché sono brave, non perché sono di sesso femminile e ne sono contenta".

 

 

3. - Il metodo di lavoro delle donne: un approccio olistico che sa dare ascolto.

 

Il tema della seconda sessione: "La donna porta al centro la voce delle persona malata" fa riferimento a un approccio olistico, volto a curare la persona nel suo insieme, tenendo in conto gli aspetti psicologici e la realtà di vita: in questa sessione si discute della capacità di ascoltare la persona malata, dare voce ai suoi bisogni, prestare attenzione alle differenze di genere e alle differenze culturali. In proposito, nella "Presentazione", al Quaderno di Via Dogana "Due per sapere, due per guarire",  curato dalla comunità scientifica femminile "Ipazia", si legge:

"Noi pensiamo che la relazione terapeutica sia uno snodo essenziale in cui si incontrano la ricerca scientifica e la clinica, e si gioca la possibilità per la medicina di essere veramente una scienza perché entrano in campo due competenze, quella di chi cura e quella di chi chiede di essere curato… (rispetto al) rischio segnalato da quanti lamentano l'eccesso di scientificità della medicina moderna, cogliendo così un limite reale di questa disciplina … noi pensiamo, però, che non si tratti di eccesso, ma di un difetto di scientificità, perché non ci fermiamo all'idea riduttiva di scienza che ha corso in questa discussione, ma vogliamo affermarne una più ampia, che sappia dare accesso alla ricchezza di sapere che ogni caso individuale porta con sé, senza abbandonare il rigore proprio della conoscenza scientifica"[8].

 

In questa citazione ci sono tre aspetti su cui vorrei soffermarmi: il fatto che la relazione terapeutica sia uno snodo fondamentale per l'efficacia della prestazione sanitaria, che, oltre a chi cura, anche chi deve essere curato è un soggetto portatore di conoscenze e che tenere in conto queste conoscenze contribuisce ad ampliare - non a ridurre - la scientificità della medicina. Questa conferenza riguarda gli spostamenti di prospettiva che la donna porta nella sanità nello svolgimento del suo ruolo professionale e nell'azione volontaria. Ma la capacità di innovare, di leggere i bisogni espressi dalla popolazione le viene dalla sua conoscenza profonda della realtà di vita e dalla rilevanza del lavoro per la salute - o "lavoro sanitario autonomo" - da essa svolto in quanto responsabile della salute dell'intero nucleo familiare. Numerose indagini sociologiche hanno sottolineato che buona parte della responsabilità per la propria salute, per la cura di affezioni croniche, per l'assistenza sanitaria di base, viene di fatto demandata al settore non professionale e in particolare all'individuo e alla sua famiglia, in primo luogo alla donna[9].

Secondo un documento della Organizzazione Mondiale della Sanità (O.M.S.):

"l'autocura non è né un fenomeno nuovo, né un fenomeno marginale. Costituisce in tutte le società il principale comportamento sanitario … ciò che vi è di nuovo è il riconoscimento ufficiale, scientifico e professionale del ruolo vitale dell'individuo nella conservazione della salute e nella cura della malattia"[10].

 

Un'indagine condotta in Germania, per esempio, ha mostrato l'entità e la rilevanza quantitativa del lavoro svolto nella famiglia sia nel campo della cura e dell'assistenza, sia nel campo della conservazione della salute[11]. Anche dalle indagini da me condotte nelle Marche[12] è emersa l'entità del lavoro svolto nella famiglia per la cura e la conservazione della salute dei suoi membri e gli svariati ambiti in cui si esplica. Dalla responsabilità primaria per i comportamenti igienico-preventivi, alla scelta della dieta, all'autocura dei primi sintomi di malattia e della maggior parte delle affezioni croniche; dall'assistenza al malato occasionale (in casa o in ospedale), all'assistenza continuativa agli anziani non auto-sufficienti, agli invalidi, ai portatori di handicap. Nello svolgimento di tali compiti la donna, come responsabile della salute di tutto il nucleo familiare, ha acquisito una notevole competenza anche di tipo professionale. Una competenza che andrebbe valorizzata perché, per la sua posizione strategica e la complessità dei compiti che deve assolvere nella famiglia, la donna, anche se non professionista, ha una visione globale dei problemi e nei confronti della malattia un approccio unitario che comprende, oltre agli aspetti fisici, anche quelli psicologici e sociali.

 

Il confronto fra queste indagini ripetute nel tempo e le prime indagini della fine degli anni settanta[13] hanno mostrato, poi, una crescente consapevolezza da parte della popolazione dei rischi che derivano alla salute dalle condizioni ambientali, dal lavoro e dagli stili di vita prevalenti nella nostra cultura e dell'importanza di assumere azioni positive volte alla promozione della salute. Infatti, una quota consistente di cittadini hanno modificato in positivo le proprie abitudini in direzione di un'alimentazione più sana, di una maggiore attività fisica, di un contenuto consumo di caffè e di bevande alcoliche e molti hanno smesso di fumare. E' aumentato, inoltre, il comportamento preventivo in particolare in campo odontoiatrico e in campo ginecologico. E' importante rilevare che tali mutamenti sono stati presi per iniziativa autonoma delle/dei cittadine/i  piuttosto che dietro consiglio medico. Per quanto riguarda il consumo dei farmaci, poi, è emersa la crescente consapevolezza dei rischi insiti nel consumo indiscriminato dei medicinali e un comportamento autolimitatorio, come se la popolazione avesse assunto in proprio la funzione dei "filtro" nei confronti dei farmaci che il Servizio Sanitario attribuisce ai medici di base.

D'altra parte è emersa anche una netta insoddisfazione nei confronti della medicina di base. La superficialità delle visite, l'assenza di schede epidemiologiche e di informazioni sull'ambiente di vita, l'assenza di dialogo tra operatore sanitario e paziente, l'impossibilità per quest'ultimo di contribuire con le proprie conoscenze al processo diagnostico terapeutico e di ricevere dal medico adeguate spiegazioni determina un elevato ricorso ad esami di laboratorio e di radiologia e a visite specialistiche. Viceversa, quando c'è un migliore rapporto comunicativo tra medico e paziente e quest'ultimo ha la possibilità di contribuire attivamente, con il proprio bagaglio di conoscenze, al processo diagnostico terapeutico, si riscontra un minor ricorso alla specialistica e alla diagnostica strumentale e un minor uso dei farmaci. La percezione dell'inefficacia della cura proposta dal medico e la crescente consapevolezza degli effetti collaterali provocati dalla farmacologia chimica inducono spesso al ricorso alla "medicina alternativa" (erboristeria, omeopatia, agopuntura, massaggi schiatzu etc). In sostanza,  sembra che si sia spontaneamente avviato a livello sociale quel processo di riorientamento culturale necessario per promuovere la salute; ma lo scollamento tra bisogni e servizi erogati porta ad un ricorso meramente strumentale ai servizi e a un crescente ricorso all'autogestione della salute.

 

La ricerca sociologica d'altra parte ha da tempo sottolineato le difficoltà di comunicazione che si crea nel rapporto tra medico e paziente nella pratica medica occidentale. Tale difficoltà, oltre che al mancato ascolto del paziente da parte del medico, è dovuta anche all'utilizzo di una terminologia tecnico-scientifica non sempre comprensibile ai non professionisti, all'inadeguatezza delle spiegazioni sulla diagnosi, sull'utilità della terapia prescritta e alla scarsa attenzione alle perplessità del paziente in merito al regime terapeutico e agli eventuali effetti collaterali. Ciò tra l'altro produce una scarsa aderenza da parte dei pazienti alle prescrizioni mediche[14]. D'altronde, benché sia opinione diffusa che siano i pazienti a volere i farmaci, alcune indagini hanno mostrato che quei medici che hanno instaurato la prassi di chiedere ai pazienti se vogliono dei farmaci sono rimasti sorpresi dal numero di risposte negative ricevute[15].

Il cittadino, quindi, viene escluso dal processo diagnostico-terapeutico nonostante ci si aspetti che egli sia in grado di valutare la gravità della propria sintomatologia e di valutare in quali casi sia adeguato far ricorso a prestazioni professionali. Tuttavia, escludendo l'individuo da tale processo gli operatori sanitari si privano degli elementi di conoscenza che trascendo la patologia specifica oggetto della loro attenzione. L'individuo infatti ha una visione unificante della sua salute e può fornire al personale medico informazioni utili per la formulazione della diagnosi appropriata e può contribuire a risolvere il problema dell'incertezza che troppo spesso viene risolta dai medici con il ricorso ad accertamenti diagnostici inutili e a volte dannosi alla salute psichica e fisica del paziente.

 

Per concludere - tornando ai temi della nostra conferenza - se la donna ha un ruolo così rilevante nella promozione della salute dei membri della propria famiglia è facile intuire che essa possa avere un ruolo innovativo importante anche come professionista della sanità. La sua conoscenza concreta dei bisogni e la competenza acquisita nel campo della conservazione della salute e della assistenza sanitaria di base possono fornire la creatività e le capacità necessarie per rispondere ai bisogni emergenti e aumentare l'efficacia della sanità pubblica. Non di rado, infatti, le donne nello svolgimento del loro ruolo professionale o di volontariato portano nella sanità elementi di innovazione nella progettualità e nelle modalità relazionali che contribuiscono all’efficacia della prestazione e a un valido rapporto comunicativo con la persona malata. Le nostre ricerche - come del resto altre - hanno mostrato che, rispetto agli uomini, le donne hanno un modo diverso di affrontare i problemi: esse adottano un metodo di lavoro che predilige il confronto, il lavoro di gruppo, di équipe; sanno dare voce alla persona malata, ai colleghi, alle diverse professionalità. Il risultato è una maggiore efficacia della prestazione sanitaria per la conoscenza più completa della problematica oggetto dell'intervento e per la maggior capacità di comunicazione.  Questo approccio, quindi, costituisce una ricchezza che andrebbe diffusa a tutti i servizi.

Nel nostro lavoro di raccolta di “pratiche efficaci” stiamo incontrando Associazioni, gruppi di donne, o singole dirigenti che si adoperano per dare senso al loro agire, recuperare valori e diffondere conoscenze fin qui marginalizzate. Queste donne, che spesso lavorano senza imporsi alla ribalta, hanno mostrato con i progetti attivati di saper ascoltare la persona malata, prestare attenzione ai bisogni emergenti e allo specifico femminile; danno voce al disagio psichico femminile, curano e danno sostegno al malato di cancro, alla donna operata al seno; promuovono servizi efficaci di prevenzione del disagio adolescenziale, di sostegno alla persona non-autosufficiente; sanno mettere al centro la persona malata, prestare attenzione ai suoi bisogni e difenderne i diritti. Questa seconda sessione della conferenza è volta appunto a sottolineare la capacità di leggere la realtà che la circonda, di dare ascolto, dare voce che la donna porta nel suo agire professionale e nell'azione volontaria; dai vari contributi che portano esempi concreti di tale agire in diversi ambiti emerge un quadro ricco e interessante, anche se parziale rispetto alla varietà delle esperienze conosciute.

 

 

L'importanza della partecipazione e di assumere un approccio olistico per migliorare la salute delle donne viene sottolineata dalla relazione introduttiva della sociologa Kari Bjerke Karlsen, docente della Foundation of Higher Education di Kjeller (Norvegia) e studiosa di temi quali  "Donne e Salute" e “Genere e Salute”. La relazione parte dalle condizioni di vita delle donne, dalla difficoltà che incontrano a combinate ruolo familiare e ruolo professionale, per sottolineare che il sovraccarico di lavoro cui sono sottoposte è un importante fattore di rischio per la loro salute e può indurre una sintomatologia varia e uno stato di malessere cronico. Da qui nascono varie considerazioni. In primo luogo che non ci si può occupare della salute della donna se non si tiene in conto le sue condizioni di vita. In secondo luogo che i disturbi di cui soffrono le donne vengono collocati nella fascia bassa nella gerarchia delle malattie e che la ricerca medica non ha conoscenze di genere in quanto le conoscenze, le regole e la pratica fanno riferimento al genere maschile. La relatrice afferma quindi che è necessario un approccio nuovo che guardi alle differenze di genere per ridurre i rischi per la salute di uomini e donne anche in considerazione del fatto che la salute della donna influenza la salute dei figli, degli altri membri della famiglia e il benessere della comunità nel suo complesso. La Karlsen sottolinea, poi, l'importanza di disporre di statistiche sanitarie disaggregate per sesso e la necessità che il personale sanitario acquisisca le conoscenze necessarie a considerare da un punto di vista olistico e interattivo la salute delle donne. A tal fine suggerisce alcune metodologie atte a migliorare la comunicazione tra medici e pazienti in modo da permettere a questi ultimi di partecipare al processo diagnostico-terapeutico; (interessante notare, in proposito, che lo studio norvegese cui fa riferimento la relatrice sulla capacità di autocura e autovalutazione della salute conferma per certi aspetti le ricerche prima citate). La Karlesen conclude osservando che un'azione efficace e sostenibile per migliorare la salute della donna non può prescindere dalla sua piena partecipazione. Vale la pena di ricordare in proposito che ciò è coerente con il concetto di promozione della salute proposto dall'OMS secondo cui la promozione della salute implica l'assunzione di un'azione positiva nei confronti dei fattori che determinano la salute e una efficace e concreta partecipazione degli individui e della collettività[16].

 

 

Integrando teoria e pratica, la relazione della sociologa Laura Corradi ci offre un esempio concreto di come le donne collettivamente possono assumere azioni incisive nella difesa della propria salute: il movimento delle donne americane contro il cancro. Dopo aver affermato che il cancro è una malattia socialmente prodotta la cui diffusione segue linee di genere, di classe e di etnia, la Corradi ricorda che rispetto alle cause di questa malattia gli scienziati si dividono essenzialmente secondo due paradigmi esplicativi: quello genetico e quello ambientale, su cui già da tempo anche l'OMS ha richiamato l'attenzione. Il movimento americano contro il cancro - riferisce - è costituito in primo luogo da donne diagnosticate, che hanno sopravvissuto la malattia e che hanno rifiutato il ruolo di vittime passive, anche perché, dopo l'esperienza in gruppi di mutuo aiuto, hanno capito che il problema non è individuale, ma collettivo. Fanno parte del movimento anche collettivi di uomini, famiglie e amici di donne morte di cancro e di quelle che ancora lottano contro la malattia. Con l'aiuto di scienziati/attivisti, medici del lavoro, epidemiologi, esperti in prevenzione, scienziati ecologisti etc. queste donne denunciano che le cause ambientali sono spesso trascurate nelle ricerche scientifiche e criticano quanti invece tendono a ricercare le responsabilità nei comportamenti individuali e quindi a colpevolizzare la vittima. Notevoli appaiono i risultati ottenuti dal movimento, non solo in termini di finanziamenti, progetti di prevenzione, programmi di supporto per le donne diagnosticate, ma soprattutto maggiore ascolto da parte delle istituzioni. Esse ora partecipano alle incontri scientifici e gli scienziati sono costretti a tener conto della loro presenza, delle critiche che possono venire alle loro azioni. Come era nell'obiettivo iniziale del movimento il cancro da tragedia individuale è diventato oggi discorso pubblico e politico. Il cancro non è più visto come un castigo individuale, c'è meno paura a parlarne perché è considerato un problema sociale e questo cambiamento nell'opinione pubblica influenza le istituzioni e la stessa ricerca scientifica. Ora il movimento preme per la prevenzione primaria e per la messa al bando dei cancerogeni più conosciuti. Nell'ultima parte della relazione la Corradi riporta un esempio di "buona pratica": un progetto di prevenzione secondaria a favore di immigrate dal Messico indigenti.

 

 

Gli altri interventi di questa sessione riguardano aspetti diversi e complementari del "dare voce": dare ascolto alla donna con disagio psichico, sostegno alla persona malata di cancro, alla donna operata al seno, porre al centro il/la paziente nell'organizzazione dell'emergenza sanitaria, tenere in conto il/la morente e la sua famiglia nel percorso della morte spedalizzata. 

 

I primi due interventi si ricollegano direttamente alla relazione della Karlsen per quanto attiene all'importanza di tenere in conto le condizioni di vita delle donne e di avere nei loro confronti un approccio olistico nel caso specifico della salute mentale.

L'intervento della psicologa Vittoria Sardelli riguarda una particolare metodologia di lavoro per dare ascolto alla donna con disagio mentale messa a punto da un gruppo di operatrici della ASL Napoli 1 coordinato da Elvira Reale. Si tratta di un'esperienza unica nel nostro paese, cioè la costituzione di un "Centro per la Prevenzione  della Salute Mentale della Donna" che - come afferma la Sardelli - si è posto l'obiettivo di valorizzare la donna che chiede aiuto partendo dall'ipotesi che "il disagio nella donna sia originato da una lettura non corretta degli interessi personali e come conseguenza dell'adesione a punti di vista altrui" e dal sovraccarico di lavoro e responsabilità cui è sottoposta senza che tale sovraccarico venga riconosciuto come tale. Per comprendere il significato profondo dei sintomi che accusa la donna ha bisogno di analizzare la propria vita e scoprire la concentrazione di richieste che la sovraccaricano. Il gruppo quindi ha interpretato il disagio mentale come percezione soggettiva piuttosto che come "guasto del soma-mente". Di conseguenza la metodologia di lavoro assunta parte da un ascolto attento a cogliere i nessi tra disagio e condizione di vita della donna tramite una terapia da donna a donna portata avanti da una équipe interamente femminile. A tal fine sono stati messi a punto due strumenti di lavoro: il Protocollo di analisi della vita quotidiana e il Protocollo della percezione della malattia. Ribaltando il rapporto asimmetrico che si realizza di solito tra terapeuta e paziente anche attraverso il ricorso ad un linguaggio tecnico scientifico, questo gruppo di operatrici, usa un linguaggio chiaramente comprensibile e cerca di rendere la donna "protagonista della sua 'guarigione' intesa come ribaltamento di posizione rispetto alla vita e come auto-riconoscimento di forze e potere".

 

La psichiatra Isabella Tomassetti, del Dipartimento di Salute Mentale della ASL 7 di Ancona, espone il "Progetto Donna", una nuova iniziativa volta a dare risposta al disagio psichico femminile con particolare attenzione a quello legato all'abuso e alla violenza. Il suo intervento parte dalla considerazione dell'incidenza rilevante di casi di maltrattamento e abuso nell'esperienza di vita delle donne che fanno ricorso ai servizi di salute mentale per sottolineare l'importanza di attivare un intervento specifico per il disagio psichico femminile in cui si integrino le diverse competenze e professionalità. Così attraverso una rete di donne che operano nei servizi sociali e sanitari e nel volontariato si è attivato un coordinamento tra il Servizio di Salute Mentale, i Servizi Sociali del Comune, il privato sociale, il volontariato e la Commissione Provinciale Pari Opportunità che si è concretizzato in un Protocollo d'Intesa. Il gruppo di lavoro di questo progetto unitario è costituito da sole donne che praticano un lavoro comune e la riflessione collettiva. La relazione tra operatore e utente appare dominata dall'attenzione alla persona nella sua globalità, dall'ascolto nel rispetto della soggettività, come persona "con cui si parla", non "di cui si parla". L'intervento individuale viene integrato dalla pratica di gruppo in cui donne che hanno avuto esperienze simili di violenza si riuniscono in uno spazio fisico comune creato appositamente per dar loro accoglienza, in modo che possano confrontare le loro esperienze e sviluppare "un sentire comune che le riscatta dal senso di unicità della propria sofferenza"; il gruppo progressivamente si rende autonomo trasformandosi in gruppo di auto-mutuo aiuto. Ad oggi sono stati attivati due gruppi: uno di donne che hanno subìto violenza e uno di donne che hanno bisogno di aumentare la propria autostima. Sono state stabilite anche relazioni stabili a livello nazionale e internazionale con donne impegnate in progetti analoghi.

 

 

La tematica relativa al sostegno della persona malata di cancro affrontata nella relazione di Laura Corradi dal punto di vista specifico delle lotte delle donne che hanno avuto la malattia, viene ripreso dai tre interventi successivi da angolature diverse e complementari del dare voce: il diritto a ricevere cure efficaci in un rapporto di reciproco rispetto con il medico curante; l'assistenza al malato terminale; la riappropriazione della propria corporalità da parte di donne operate al seno.

 

Il contributo dell'oncologa Giuseppina Catalano - che ha messo in piedi l'Unità Operativa Oncologia Medica nell'Azienda Ospedaliera di Pesaro - fa riferimento al diritto alla cura e alla salute della persona malata di cancro. Partendo dall'analisi del titolo dato a questa sessione della conferenza la Catalano afferma che la persona malata va posta al centro perché ha dei bisogni cui si deve dare risposta e per far ciò è necessario darle ascolto. La persona malata deve restare un soggetto portatore di diritti e doveri, senza assumere atteggiamenti di delega nei confronti del medico, ma senza che quest'ultimo assuma un atteggiamento paternalistico; il rapporto fra le due persone, che pure si trovano in situazioni così diverse, deve restare un rapporto di parità. E' proprio al rispetto reciproco tra paziente 'consapevole' e operatore che la Catalano lega l'efficacia professionale; ma avverte che in questa direzione ancora molto resta da fare, come pure - data la carenza di adeguate strutture dedicate atte a garantire la migliore cura possibile - resta ancora pressante il problema di riconoscere un effettivo diritto alla guarigione e alla salute anche per il malato di cancro.

 

Ludovica Teodori, presidente dell'Associazione di volontariato Amici dello Istituto Oncologico Marchigiano di Ascoli Piceno, con il suo breve intervento porta un altro esempio di come portare al centro la voce della persona malata: dare risposta ai bisogni e alle sofferenze di malati di cancro in fase avanzata e dei loro familiari permettendo alla persona malata di restare in casa anche nella fase terminale della malattia. L'associazione garantisce gratuitamente l'assistenza domiciliare e l'assistenza di una équipe professionale retribuita. Le volontarie - si tratta quasi esclusivamente da donne - assumono come metodo di lavoro il confronto, il lavoro di gruppo, la ricerca del consenso nelle decisioni.

 

Loredana Morrone, un'altra volontaria dell'Associazione Amici dello IOM di Ascoli Piceno, ha presentato una iniziativa veramente innovativa rivolta a donne operate al seno che ha il pregio di superare l'atteggiamento vittimista per assumere un atteggiamento positivo di riappropriazione del proprio corpo per valorizzarne le potenzialità. Si tratta del "Progetto Pentesileia" che non a caso trae il nome dall'ultima regina delle Amazzoni: un "Laboratorio teatrale della trasformazione" volto a favorire il recupero della corporeità da parte di donne operate al seno, le aiuta a scoprire le potenzialità fisiche espressive e di comunicazione del proprio corpo e a vivere con atteggiamento costruttivo la propria situazione.  

 

Sofia Di Tizio - primario di anestesia e rianimazione ed esperta di emergenza sanitaria - affronta il tema della centralità del/della paziente da un angolo visuale specifico, ma assai importante per la conservazione della vita: la cura e l'assistenza a una persona vittima di un evento acuto (ictus, infarto del miocardio, trauma cranico) che necessita di una perfetta organizzazione e comunicazione tra i vari operatori coinvolti. Per la Di Tizio dare voce alla persona in emergenza significa, fare presto, organizzare bene la sequenza delle azioni da effettuare, attivare un adeguato ed efficace sistema di comunicazione tra i vari operatori e servizi coinvolti, prevenire complicanze e soprattutto "ricordarsi che in emergenza la persona, molto sofferente e spaventata, non ha solo bisogno di subire trattamenti 'tecnici', ma anche di stabilire una relazione umana con i soccorritori". 

 

La persona malata di cancro e quella che si trova ad affrontare un evento acuto come un infarto o un trauma cranico è posta tragicamente ed improvvisamente davanti al rischio di perdere la vita; il pensiero della morte diventa sentito e presente, è quindi importante che questa persona sia posta al centro, abbia voce come persona nella sua interezza e unicità, che si tenga conto del dolore interiore come di quello fisico che esperisce. Il rispetto, la centralità della persona non dovrebbe venir meno neanche nei momenti estremi, nei confronti del morente e della sua famiglia; troppo spesso, invece, la morte in una struttura ospedaliera è un'esperienza fredda, priva di comprensione e di umanità.

L'intervento dell'assistente sociale e sociologa Marisa Carnevali, responsabile dell'Ufficio Relazioni con il Pubblico (URP) dell'Ospedale Regionale Umberto 1°-Torrette di Ancona, riguarda appunto un progetto di umanizzazione del percorso della morte in ospedale. Il suo intervento si apre con una bella riflessione su come oggi assistiamo ad una progressiva medicalizzazione e ospedalizzazione della morte - come della nascita - e lontano dalla propria casa e dai propri cari la morte ha cessato di essere un momento della vita, ma è diventato un evento che fa paura, che "si rimuove dalla coscienza collettiva", fa paura tanto che la si nasconde a chi vi si avvicina, imponendo il silenzio e con esso il conforto del dialogo. Sempre più spesso la paura della morte fa sì che il problema venga delegato all'esterno dell'ambiente di vita, alla struttura sanitaria. E' allora che si impone il problema di recuperare anche in ospedale la centralità della persona, di rendere meno burocratico e più umano il percorso della morte, offrendo al morente un ambiente quanto più possibile simile a una casa, nella convinzione che a chi muore e alla sua famiglia "non servono solo terapie e cure mediche, ma contatto umano; non serve il rapporto freddo ed asettico di chi deve intervenire clinicamente e con razionalità, ma rapporto, parole, comunicazione". Da queste considerazioni è nato il gruppo di lavoro che ha prodotto un decalogo cui ogni operatore deve attenersi. 

 

Infine, l'intervento dell'olandese Annemarie Wagemakers richiama l'attenzione sull'importanza di tenere in conto le differenze di genere e assumere il metodo di lavoro delle donne nella pratica sanitaria. Nel suo intervento essa descrive i risultati di una ricerca in 20 unità sanitarie olandesi da cui emerge che, benché si rilevino differenze di genere nella prevalenza delle malattie, di tali differenze non si tiene conto nell'implementazione dei programmi sanitari. In merito, poi, alla differenza tra uomo e donna nella comunicazione i risultati riferiti confermano quelli da me esposti in precedenza: le donne medico hanno un atteggiamento più aperto dei colleghi nei confronti del/della paziente, sono più propense all'ascolto e danno più informazioni. Rispetto ai tre possibili modelli di relazione tra medico e paziente - quello prescrittivo in cui il paziente ha un ruolo passivo, quello della persuasione e quello dell'interazione paritaria - la Wagemakers osserva che quest'ultimo modello pone l'utente al centro, permette la sua partecipazione, una migliore informazione, presa di coscienza e soprattutto è il modello che risponde meglio alle concezioni della salute della donna. Gli interventi fin qui riportati sembrano mostrare che questo è anche il modello di riferimento della donna nel suo agire professionale.

 

 

I numerosi interventi di questa sessione hanno offerto una visione variegata del "dare voce"; tuttavia, molti altri esempi potrebbero essere portati per arricchire ulteriormente il panorama di coloro che attuano "buone pratiche". Mi riferisco, tra le altre, a iniziative volte alla prevenzione del cancro al seno e al collo dell'utero come la implementazione efficace in alcune realtà territoriali della legge Regionale "Benessere Donna",  o al "Progetto Amazzone" di Palermo, da cui ha preso esempio il "Progetto Pentesileia" descritto dalla Morrone; ad iniziative volte a dar voce agli adolescenti come il "Consultorio teen-agers" di Chiaravalle, o il progetto di formazione per insegnanti e genitori ("Insegnanti efficaci" e "genitori efficaci") di Senigallia; o il percorso di prevenzione del disagio giovanile attuato nell'Azienda Sanitaria Locale 4 di Napoli (Nola, Pomigliano); o ancora alle attività di sostegno alla persona non auto-sufficiente, come l'Assistenza Domiciliare Integrata (ADI) laddove è bene organizzata; al ruolo di alcuni Uffici Relazioni con il Pubblico (URP) nel monitorare la soddisfazione e i bisogni della persona malata. Mi riferisco anche al ruolo importante di molte Associazioni di volontariato che danno sostegno alla persona ospedalizzata, alla persona malata di cancro, alle donne operate al seno (come l'Associazione "Noi Come Prima" o "Attive come Prima"); al Tribunale per i Diritti del Malato, alle Associazioni di volontariato che si prendono cura dei portatori di handicap. In tutte queste iniziative, queste associazioni, le donne hanno un ruolo predominante.

 

 

4 - Energia femminile e de-medicalizzazione del corpo della donna.

 

L'approccio olistico, il saper mettere al centro la persona, dare riconoscimento alle sue conoscenze, capacità e potenzialità, assume un significato particolare con riferimento al corpo femminile e all'evento nascita. La terza sessione "La conoscenza di sé e l'energia femminile" affronta questo tema che da tempo coinvolge il movimento delle donne in molti paesi: l'eccessiva medicalizzazione del corpo della donna e il recupero della fisiologia nel parto. In proposito Barbara Duden, storica delle donne dell'Università di Brema - che avrebbe dovuto tenere una delle relazioni introduttive, ma purtroppo non ha potuto venire - ha analizzato a fondo questo tema in un suo noto libro, riassumendone così il contenuto nell'introduzione:

"In questo libro vorrei analizzare le condizioni in cui, nel corso di una generazione, nuove tecniche e forme di espressione hanno completamente mutato il modo di concepire e di vivere la gravidanza. Nel giro di pochi anni, infatti, il bambino è diventato un feto, la donna incinta un sistema uterino d'approvvigionamento, il nascituro una vita e la 'vita' un valore cattolico-laico, quindi onnicomprensivo. Con stupore e sgomento ho seguito questo ribaltamento della 'gravidanza' nella società."[17]

 

Il tema della nascita  e della ri-appropriazione da parte delle donne del proprio corpo è un tema che fino dagli anni settanta ha coinvolto numerosi gruppi di donne, ma in questi ultimi tempi sembra esserci un rifiorire di questa tematica, con una progressiva crescita sia in termini di consapevolezza diffusa che in termini di proposte anche all’interno delle istituzioni e delle strutture sanitarie pubbliche. Ciò è dovuto anche al fatto che ci si sta rendendo conto che si è andati troppo oltre nella medicalizzazione della nascita, con un ricorso generalizzato a metodiche concepite per situazioni a rischio e inutili o nocive Per quanto riguarda in particolare l'Italia ricordo che vi si registra il tasso di tagli cesarei più elevato d’Europa raggiungendo anche il 35-40%, mentre tale tasso secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) non dovrebbe superare il 10-15%. Da un’indagine, condotta nel 1996 dall’Istituto Superiore di Sanità, è emerso un ricorso eccessivo in Italia ad alcune procedure mediche: per esempio, il 46% delle oltre 9.000 donne intervistate è stata sottoposta a 5 o più ecografie in gravidanza. Per contro è emersa una scarsa conoscenza e ricorso a pratiche non invasive e un livello di soddisfazione piuttosto basso: per esempio, ben il 77% delle intervistate non ha partecipato ad un corso di preparazione al parto, all’89% di esse non è stato chiesto alcun parere sulle procedure per il parto, il 76% non ha avuto la possibilità di scegliere la posizione e molte sono rimaste deluse per la carenza di partecipazione attiva durante l’evento nascita.

 

D’altronde in molti paesi industrializzati dell’occidente prende sempre maggior forza la richiesta di una nascita non violenta e fuori dalle strutture ospedaliere: per esempio in USA la maggior parte delle donne partoriscono ora nelle “Case di maternità” (Birth Centers) e in Olanda una percentuale molto alta di donne partorisce a casa. In Italia persiste in molte realtà una forte medicalizzazione della nascita, ma c'è anche una forte spinta al cambiamento e al recupero della fisiologia anche grazie al movimento delle donne e all'azione culturale svolta da alcune Associazioni come "Il Melograno - centro informazione maternità nascita" di Ancona, Roma, Varese e Verona. Oggi in alcuni ospedali pubblici - anche grazie alla particolare sensibilità di alcune/i ginecologhe/i e ostetriche - si cominciano a rispettare le raccomandazioni dell’OMS sulle “Tecnologie appropriate per la nascita” del 1985, a de-medicalizzare, rispettare i tempi fisiologici e favorire la nascita naturale. (Ricordo gli Ospedali di Verona, Poggibonsi di Siena, Brescia, Genova, Monza - dove opera la ginecologa Anita Regalia  che purtroppo non ha potuto essere presente; ma ricordo anche l'Ospedale di Recanati e l'Azienda Ospedaliera "Salesi" di Ancona con il suo recente progetto di miglioramento "Percorso al Parto"). Inoltre, alcune Regioni hanno prestato ascolto alla voce delle donne deliberando in modo da dar loro la possibilità di scegliere le modalità del parto. La Regione Piemonte, appoggia da tempo l’assistenza domiciliare al parto nelle gravidanze a basso rischio e copre la metà delle spese per il parto a domicilio; dal 1996, poi, anche in considerazione dell’aumento di richieste di parto a domicilio, ha attribuito responsabilità alle ostetriche di selezionare le gestanti che possono partorire a casa. La Regione Marche ha oggi una delle leggi più avanzate in tema di nascita, una legge fortemente voluta e promossa dalle donne.

 

Nella sua relazione introduttiva ai lavori di questa sessione, la sociologa Franca Pizzini, dell’Università di Milano, che da parecchi anni si occupa di parto e medicalizzazione del corpo femminile, affronta tale tema come costruzione sociale, sottolineando le differenze tra Nord e Sud del mondo e pone degli interrogativi riguardo all'uso delle nuove tecnologie nell'era post-moderna. Con il processo di ospedalizzazione della nascita - osserva la relatrice - si è passati "dal mondo femminile delle ostetriche al mondo maschile dei medici …. La medicalizzazione del corpo femminile è la risposta della modernità alla necessità di controllo sociale sull'attività riproduttiva della donna". In epoca moderna in occidente il movimento delle donne ha sviluppato una riflessione sul corpo femminile rivendicandone la fisicità e soggettività; ma ciò rischia di essere messo in discussione in era post-moderna dallo sviluppo delle nuove tecnologie, dalla bioingegneria, dalla ectogenesi. Tuttavia, vi sono forti differenze tra Nord e Sud del mondo, tra paesi ricchi e paesi poveri: all'eccesso di medicalizzazione dei primi - dove si tende a dare risposte mediche anche a domande di tipo sociale e psicologico - fa da contraltare la mancanza di cure e i gravi rischi per la salute delle donne nei paesi del Sud del Mondo. Perciò la Pizzini ritiene importante il ruolo del movimento internazionale di donne che si adopera per il miglioramento delle condizioni di vita delle donne di questi paesi. Per converso, nei paesi ricchi la scienza medica è vicina a realizzare l'ectogenesi totale, la domanda inquietante allora è: "Il corpo femminile è ancora necessario alla riproduzione, oppure stiamo passando ad un'era in cui la maternità fisica non esisterà più nei paesi ricchi, ma solo in quelli poveri?" A questa domanda la relatrice risponde che dipende dalla voce delle donne e dalla loro elaborazione culturale; dai collegamenti internazionali e "soprattutto dalla collaborazione continua e costante tra donne del Nord e donne del Sud". E conclude sottolineando l'importanza di darsi e dare fiducia, anche in considerazione dei recenti mutamenti positivi in direzione del riconoscimento dell'autonomia del/della paziente, del miglioramento del rapporto donna-ostetrica, del riconoscimento della competenza delle donne e del principio guida della connessione, della "etica della cura" sviluppata dal pensiero femminile.

 

Secondo lo scenario proposto da Franca Pizzini il costante intervento medico nella nascita praticato in molti paesi del Nord verrebbe giustificato da parte della classe medica dalla necessità di garantire sicurezza alla donna che avrà un'unica gravidanza. Nella sua relazione Lea den Broeder della Netherlands School of Public Health osserva che non c'è differenza in termini tecnici di sicurezza tra parto naturale in casa e parto in ospedale, anzi in caso di parto normale in ospedale ci sono più rischi di subire interventi medici superflui. L'esempio dell'Olanda è interessante perché prospetta uno scenario particolare e completamente diverso da quello prevalente in molti paesi Europei tra cui l'Italia. Il governo olandese, infatti, sostiene da tempo il parto a domicilio attraverso ostetriche specializzate che seguono la donna con continuità prima, durante e dopo il parto; quindi, alla donna è data una possibilità reale di scegliere se partorire a casa o in ospedale. La relatrice riporta, poi, i risultati di una interessante ricerca sui motivi che determinano in Olanda la scelta del parto in casa o in ospedale da parte delle donne e delle ostetriche. Emerge così che le donne scelgono di partorire a casa per avere un ambiente accogliente, per permettere a tutta la famiglia di partecipare all'evento, per avere il controllo sull'esperienza e autogestirla: queste donne si sentono sicure al loro interno. Invece, le donne che scelgono l'ospedale, pur essendo consapevoli che non c'è differenza in termini di sicurezza reale rispetto al parto a domicilio, hanno tuttavia un bisogno psicologico di rassicurazione, sentono il rischio di avere complicanze: non si sentono sicure al loro interno. Dal canto loro, la maggioranza delle ostetriche, pur rispettando la scelta delle partorienti, preferisce i parti a domicilio perché pensano che le donne siano più a loro agio e loro stesse ne sono più gratificate. Quelle che preferiscono l'ospedale adducono motivi tecnico-organizzativi: ci vuole meno tempo, meno dispendio di energie da parte loro, possono farsi aiutare dal personale infermieristico, e far ricorso ad  apparecchiature mediche. Nelle conclusioni la den Broeder sottolinea l'importanza della qualità dell'assistenza ostetrica, l'importanza di instaurare una buona relazione donna-donna, di prendersi il tempo necessario, aiutare le donne a esprimere i loro bisogni e sperimentare il senso di autonomia. Tutto ciò - osserva - è più facile con il parto a casa, ma anche in ospedale l'approccio olistico e rispettoso delle ostetriche può contribuire a ridurre gli interventi medici e migliorare l'esperienza della nascita.

 

Ben si collega alle due relazioni precedenti la relazione di una ostetrica che da anni si adopera per recuperare la fisiologia nel parto e dare nuova autorevolezza alla sua professione. Verena Schmid - presidente del Centro Studi "Il Marsupio" e direttrice della "Scuola Elementale di Arte Ostetrica" di Firenze - parla della nascita come processo di 'empowerment' e degli strumenti cui può far ricorso la professionalità dell'ostetrica per attivare tale processo. La sua relazione parte dalla considerazione che - contrariamente a quanto riferito dalla den Broeder per l'Olanda - in Italia "la nascita è ancora quasi totalmente in mani maschili" nel senso di "mani guidate da principi e valori maschili, sia di donne che uomini". Passa poi a descrivere come i processi biologici attivino nell'atto procreativo l'energia femminile, così che la gravidanza è un'opportunità per ascoltarsi e imparare a conoscere le proprie risorse. La potenza del partorire - osserva - è "la capacità di abbandonarsi senza inibizioni al flusso dell'energia biologica"  e dell'energia spirituale in modo da essere "canale tra i mondi,  portare la vita da un mondo all'altro". La "Scuola Elementale" si pone l'obbiettivo appunto di promuovere l'esperienza di tale potenza nella nascita, attivando l'energia femminile attraverso un lavoro sul corpo orientato all'ascolto e alla conoscenza di sé e del bambino. La relatrice poi si sofferma su una nuova iniziativa congiunta della Scuola con il Ministero Pari Opportunità: "Scelta informata nel percorso di maternità" con la quale ci si propone di rendere reale la libertà di scelta affermata nelle leggi regionali, promuovere un rapporto simmetrico tra operatore e donna, migliorare la qualità dell'assistenza, demedicalizzare gravidanza e parto e costruire il protagonismo delle donne nella maternità. In questo modo - conclude -: "la relazione terapeutica tra ostetrica e donna si rivoluziona: quello che possiede il sapere non è più l'operatore, ma la donna, attraverso le sue competenze endogene. La donna sa, conosce la sua situazione individuale, l'operatore non sa e deve chiedere, ascoltare. Quindi la relazione si basa sull'ascolto".

 

 

Nelle sue conclusioni Franca Pizzini afferma che lo scenario futuro dipenderà anche molto dalla voce che le donne saranno in grado di far sentire e dall'elaborazione culturale che sapranno esprimere. A tal fine è necessario costruire connessioni, rapporti di collaborazione tra donne presenti nelle diverse realtà, associazioni, istituzioni. Un esempio importante dei risultati che le donne possono conseguire quando, lavorando in rete, fanno sentire forte la loro voce è dato dal "Forum Cittadino delle Donne" di Ancona. Esso ha svolto un'importante azione culturale per restituire autonomia alla donna nella nascita, azione che ha avuto una funzione di stimolo per migliorare la legislazione regionale e per l'istituzione di un "Tavolo di Confronto" tra Comune, Azienda Sanitaria Locale e Azienda Ospedaliera Materno-Infantile "Salesi".

Con il suo intervento la presidente del Forum Gabriella Guidi parte dagli stessi concetti espressi da Verena Schmid quando dice: "… il far nascere è uno specifico che ci appartiene ed è il momento nel quale l'energia femminile si esprime al livello più alto della sua potenzialità: è la continuità della vita che passa attraverso il corpo femminile", un'energia,  avverte che rischia di essere dimenticata. Le donne del Forum, pur appartenendo a gruppi, associazioni, storie ed esperienze assai differenti, sono riuscite a darsi reciprocamente fiducia e ascolto, considerando una risorsa le proprie diversità. Per conseguire l'obiettivo di riportare l'attenzione sulla nascita come momento fondante per ciascuna/o il Forum ha lavorato su più piani. Sul piano culturale ha promosso una serie di dibattiti, incontri, conferenze e ha raccolto l'esperienza di numerose donne, pubblicate poi nel libro "Le donne raccontano il parto". Sul piano legislativo ha promosso una nuova legge regionale volta a costruire le premesse per una concreta possibilità di scelta da parte della donna sul luogo e le modalità del parto. Sul piano istituzionale ha svolto un importante ruolo di connessione tra diversi enti, aziende e livelli istituzionali dotati di potere decisionale in materia di sanità che ha avuto ricadute importanti sulla riqualificazione del personale, sulla gestione unitaria dell'evento nascita e sulla revisione delle pratiche prevalenti in questo campo nelle aziende sanitarie e ospedaliere del territorio.

 

Attraverso l'azione del Forum, quindi, le donne hanno avuto un importante ruolo culturale e di stimolo nei confronti delle istituzioni e delle aziende sanitarie. L'intervento della psicologa Maria Cristina Alessandrelli dell'Azienda Ospedaliera Materno-Infantile "Salesi" di Ancona, costituisce una testimonianza di come l'Azienda da lei rappresentata ha saputo rispondere a tale azione di stimolo avviando il progetto di miglioramento "Percorso al Parto" a cui partecipa tutto il personale ospedaliero preposto alla nascita. Come ha osservato Lea den Broeder anche in ambiente ospedaliero è possibile migliorare l'esperienza della nascita attraverso la valorizzazione del ruolo delle ostetriche. L'obiettivo dell'Azienda Ospedaliera è appunto quello di conciliare l'umanizzazione dell'evento nascita, non perdendo di vista che il parto è un evento naturale e che quindi il ruolo della tecnologia deve essere quello di "sorveglianza del benessere materno-fetale nel rispetto della persona - donna e delle sue esigenze psico-emotive". Superando le iniziali resistenze al mutamento, gli operatori dell'azienda hanno intrapreso questo percorso dapprima studiando e andando a conoscere le esperienze più avanzate del nostro paese; poi elaborando Linee Guida coerenti con la realtà locale e con le indicazioni dell'Organizzazione Mondiale della Sanità. La Alessandrelli sottolinea che anche in ambiente ospedaliero la necessità del cambiamento è stata recepita meglio dalle operatrici donne e che tale processo è stato favorito dalla rete di collegamento tra strutture diverse in cui le donne hanno un ruolo rilevante. E conclude: "Si va avanti nonostante le difficoltà, perché le donne che rappresentano queste varie istituzioni sentono come 'proprie' queste motivazioni e prendono molto sul serio la possibilità di operare realmente un cambiamento".

 

In un certo senso l’intervento di Giovanna Bodrato dell'Associazione Almaterra di Torino si configura come un momento di unione tra questa sessione e quella precedente, in quanto il concetto di dare ascolto in questo caso, pur comprendendo lo specifico dell'evento nascita, assume un'accezione più ampia che riguarda la capacità di dare ascolto alle donne immigrate, ai loro bisogni, alle loro specificità culturali nella loro esperienza di vita, di cui la maternità è un momento importante. La relazione parla degli obiettivi e delle attività principali del Centro Interculturale Alma Mater, un luogo dove donne immigrate e native possono "socializzare, progettare percorsi comuni nell'ambito del lavoro e della vita quotidiana, culturale e sociale, in modo da fare emergere saperi, culture e competenze spesso sottovalutate" . Per realizzare tali obiettivi l'Associazione ha assunto varie iniziative tra cui la Bodrato descrive le più significative per questo contesto: l'Alma Teatro, un laboratorio in cui emergono i diversi modi di usare il corpo, la voce ed i vissuti diversi di donne di varie nazionalità; il bagno turco, l'hammam delle donne, luogo di scambio di saperi femminili e luogo di distensione fisica e psichica che ha anche una funzione terapeutica; e l'attività di accoglienza e mediazione culturale volta a far sì che i servizi socio-sanitari siano in grado di interagire con un'utenza proveniente da altre culture. L'associazione ha promosso corsi di formazione professionale per donne straniere con elevato livello di istruzione con "un impianto formativo attento ai problemi di relazione e comunicazione, che ha assunto la diversità di lingua, di cultura, di esperienze, come elementi di ricchezza da giocare attivamente nella formazione" . Il lavoro delle mediatrici culturali è stato poi valorizzato in tre progetti-azione sulla maternità che prevedevano percorsi formativi per donne immigrate e italiane per far sì che possano dare sostegno ad altre donne durante la gravidanza, il parto e i primi mesi di vita del bambino. Queste donne sono state chiamate 'femmes relais' intendendo donne che sostituiscono la rete familiare femminile di cui le migranti sentono particolarmente la mancanza in momenti come la nascita di un figlio.

 

 

Dalle relazioni e interventi di questa sessione fin qui presentati è emerso chiaramente il forte impatto in questo campo del pensiero femminista ed è proprio il ruolo del movimento femminista nei paesi Europei oggetto degli interventi che seguono. Maria Teresa Ayllon Trujillo, coordinatrice della Federazione delle Organizzazioni Femministe dello Stato Spagnolo, ci parla dell'azione del movimento femminista Spagnolo con riferimento al tema centrale della salute. Il suo intervento parte dalla considerazione che il fatto di assolvere al compito di responsabili della salute famigliare ha reso esperte le donne in questo campo, ma - afferma - nel tempo, chiesa, stato e medici le hanno espropriate di questo potere; ancora oggi il potere medico "esige totale subordinazione del paziente… la rinuncia alle sue conoscenze empiriche". Recependo il pensiero di Simone de Beauvoir e del "Boston Women's Health Collective" , le prime rivendicazioni del movimento femminista spagnolo hanno riguardano l'educazione sessuale, la violenza, il diritto all'autodeterminazione, all'aborto, a un sistema di protezione sanitaria pubblico universale. Su questi temi il movimento si è organizzato in modo capillare per diffondere l'informazione e dare sostegno alle donne, per rivendicare con forza il diritto a decidere del proprio corpo, all'autodeterminazione. Ritenendo che l'imposizione dei modelli maschili e femminili di comportamento costituisca una violazione dello sviluppo autonomo della persona e abbia un effetto negativo sulla salute mentale, il movimento ha promosso corsi volti all'accrescimento dell'autostima. Infine, sulla base del concetto di salute dell'OMS come stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, che richiede la partecipazione e il controllo di ognuno, la relatrice sottolinea la necessità di una partecipazione attiva delle donne, di una piattaforma di lavoro unitario e di una rete europea di solidarietà. La medicina ufficiale - conclude la Trujillo - non è amica delle donne, ma le idee femministe stanno prendendo terreno nella comunità medica anche grazie all'aumento delle donne medico e alle priorità e metodi  diversi che esse hanno introdotto.

 

Vera Lasch riferisce su quanto emerso dal Progetto Europeo "European Health Network" (EWHNET) in merito all'azione del movimento per la salute delle donne con riferimento ai paesi partner. Il suo intervento ben si inserisce alla fine di questa sessione, perché sposta l'attenzione dall'ambito della sessualità - maternità anche ad altri aspetti di una sanità a misura di donna e quindi funge da legame con il tema della sessione successiva e riprende anche il tema affrontato in quella precedente da Laura Corradi. Coerentemente con quanto visto per la Spagna, anche in altri paesi europei il tema della salute ha preso l'avvio dalla rivendicazione dell'autodeterminazione nella sessualità e nella riproduzione e da gruppi di lavoro e progetti specifici su: violenza sessuale, nascita dolce, allattamento al seno, menopausa etc. Si è sviluppato poi, a partire dall'ambito universitario, un secondo importante filone volto a denunciare il fatto che la ricerca scientifica e la pratica medica  non tengono in conto delle differenze tra uomini e donne nella diagnosi e trattamento della malattia e che le analisi e le prospettive di ricerca prendono come base di riferimento solo la biologia maschile e le condizioni di vita dell'uomo. In alcuni paesi (come l'Olanda) la richiesta da parte del movimento di una pratica medica più attenta alla specificità di genere sono state in parte accolte dal sistema sanitario che ne ha saputo trarre vantaggio. Il movimento si è sviluppato in modo abbastanza differenziato nei vari paesi sia per quanto attiene alla varietà di organizzazioni e al modo di lavorare, sia per quanto riguarda l'effettiva capacità di influenzare la politica sanitaria del paese. In ogni caso esso trae forza dall'interdisciplinarietà, dalla capacità di unirsi e ampliare la gamma di questioni sollevate: non solo nascita, menopausa, medicalizzazione, ma anche il benessere della donna, una sanità a misura di donna, la povertà, la salute ambientale, l'attenzione alla specificità di genere nelle varie branche della medicina. La Lasch conclude osservando che le organizzazioni nate dal movimento per la salute della donna costituiscono una voce critica e competente perché partono dalle condizioni di vita delle donne e hanno introdotto nuovi valori, nuove idee e metodi innovativi; è quindi importante conservare questa voce critica, l'autonomia del movimento e la sua capacità di elaborare nuove azioni e di mettersi in rete.

 

 

5 - Ricerca scientifica e differenza di genere.

 

Nella seconda e terza sessione della Conferenza sono stati toccati argomenti oggetto dell'ultima sessione. In particolare, nella relazione introduttiva alla seconda sessione Kari Bjerke Karlsen ha menzionato la sottovalutazione del lavoro globale della donna - la doppia presenza nel lavoro professionale e nel lavoro di cura - come rischio per la sua salute. Nell'intervento conclusivo della terza sessione Vera Lasch ha menzionato la parzialità della clinica e della ricerca scientifica in ambito medico che non tengono in conto le differenze di genere, le condizioni di vita della donna, ma prendono come base di riferimento la biologia e le condizioni di vita dell'uomo. Il tema di grande rilevanza de "L'attenzione alla differenza di genere nella ricerca scientifica e nella cura" viene ora ampiamente discusso da un gruppo di donne con grande esperienza clinica e di ricerca in campo medico. Da più parti viene sottolineato che sovente la ricerca farmacologica non tiene conto della differenza di genere nella sperimentazione; spesso i farmaci vengono testati solo sugli uomini e comunque i dati non vengono letti separatamente per uomini e donne; di conseguenza poi, dato che il corpo femminile è differente, in realtà non si sa quali effetti tali farmaci abbiano sulle donne, anche se l'esperienza clinica mostra che spesso si verificano effetti differenti e il numero degli effetti collaterali varia da uomo a donna. Inoltre, c'è evidenza oggi che si presta minore attenzione alle donne per alcune patologie gravi: per esempio spesso si sottovaluta il rischio di infarto del miocardio nelle donne, si sottovalutano i rischi connessi alla violenza e all'abuso sessuale, i rischi ambientali connessi al diffondersi del cancro, si sottovaluta la rilevanza dello specifico femminile nella salute mentale, nella psichiatria etc. Questi bias e questi limiti della ricerca scientifica sono presenti nella maggior parte dei paesi Europei e se oggi si comincia a prenderli in considerazione è grazie al lavoro di professioniste e ricercatrici che li hanno portati all'attenzione della comunità scientifica sottolineandone i rischi per la salute delle donne.

 

Oggi, il diverso modo di presentarsi nei due sessi delle malattie cardiovascolari è ormai ampiamente dimostrato e la comunità scientifica internazionale di cardiologia comincia a tenerne conto; tuttavia nella maggior parte dei paesi europei manca ancora una adeguata diffusione di tali conoscenze volta a modificare di conseguenza la pratica clinica prevalente. La rete europea di cardiologia - European Heart Network - di cui fanno parte 26 paesi tra cui la Finlandia, avendo rilevato che i fattori di rischio legati alle abitudini di vita personali (fumo, dieta, attività fisica) spiegano meno della metà delle differenze tra le classi sociali nella diffusione di malattie cardiovascolari, analizza ora i rischi legati al lavoro. Si è così visto che le donne sono particolarmente svantaggiate da questo punto di vista a causa del loro doppio ruolo lavorativo e per il fatto di svolgere sovente lavori sedentari, con scarsa soddisfazione e possibilità di carriera. Almeno per quanto riguarda la Finlandia si stima che eliminando tutti i fattori di rischio occupazionali dall'ambiente lavorativo si può prevenire del 22% il rischio cardiovascolare nelle donne[18].

 

In Svezia l'attenzione alle differenze di genere nella ricerca è stata introdotta da donne ricercatrici; prima della loro presenza in ambito scientifico le differenze fra i due sessi erano rese invisibili, l'uomo era considerato la norma, la ricerca spesso veniva svolta sull'uomo e i risultati venivano considerati validi anche per la donna; anche quando si evidenziavano delle differenze di genere non venivano poi approfondite e le linee guida venivano costruite in modo indifferenziato. Questo approccio ha comportato rischi per la salute delle donne alimentati anche dal persistere in ambito medico di pregiudizi di genere per cui, per esempio, nel caso della donna si è attribuita una rilevanza eccessiva alla sfera riproduttiva e agli ormoni, in particolare con riferimento alla malattia mentale; spesso avviane, poi, che uomini e donne siano trattati in modo differente per la stessa malattia. Per quanto riguarda le malattie cardiovascolari si è rilevato che rispetto agli uomini le donne ricevono cure meno adeguate anche in caso di infarto: uno studio svedese ha mostrato in proposito che alle donne vengono somministrati farmaci meno costosi e vengono discriminate anche nella riabilitazione. Più in generale i medici tenderebbero a dare alle donne diagnosi poco chiare e ad attribuire loro diagnosi di tipo mentale, tanto da far supporre che: "E' di genere la stessa definizione di cosa sia un problema medico" [19]. Benché si sappia, poi, che in caso di cancro al seno, l'intervento chirurgico spesso non sia necessario, troppo spesso i medici svedesi, come quelli di altri paesi, presentano ancora l'asportazione del seno come la soluzione più sicura.

 

In proposito, una ricerca condotta in Germania ha mostrato che benché la terapia conservativa sia raccomandata sia nella fase I che nella fase II del cancro al seno, solo un terzo delle donne affette da questa malattia vi ha fatto ricorso; quindi,  come è stato affermato: "Ancora oggi, nel 1998, a decidere se dopo un intervento chirurgico la paziente si sveglia con o senza il seno non è tanto la dimensione, localizzazione e istologia del tumore, quanto la pratica usata nell'ospedale". In Germania ci sono 43.000 nuovi casi di cancro al seno ogni anno, quindi vi sono centinaia di migliaia di donne che vivono la malattia in solitudine, che rimangono invisibili con i loro bisogni, salvo far riferimento ai gruppi di mutuo aiuto. Non si è costituito ancora un movimento contro il cancro al seno come quello descritto da Laura Corradi per gli Stati Uniti e la ricerca continua ad essere polarizzata soprattutto nel campo della chemioterapia e della genetica, ambiti che risvegliano maggiori interessi commerciali[20].

 

Tutti gli argomenti fin qui toccati sono oggetto di discussione di questa sessione alla quale è stato dato uno spazio particolarmente ampio in considerazione della rilevanza dell'argomento in Europa e soprattutto in Italia dove si sono accumulati ritardi notevoli nell'attenzione alle differenze di genere in campo medico e farmacologico e dove si sta aprendo adesso uno spazio specifico in cui la ricerca al femminile può far sentire la sua voce. Di recente, infatti, si è formalmente costituito presso il Ministero Pari Opportunità il gruppo di lavoro "Obbiettivo 2001: una Salute a Misura di Donna" volto a creare un campo di osservazione unificato sulle principali patologie di cui soffrono le donne, a far emergere i pregiudizi che portano alla sopravvalutazione di alcuni fattori di rischio e sottovalutazione di altri per la salute delle donne e a proporre poi linee guida da adottare nei vari campi della medicina per una salute a misura di donna. Questo gruppo di lavoro è coordinato da Elvira Reale, dirigente psicologa di Napoli, che da anni porta all'attenzione del mondo della ricerca e della sanità italiana l'importanza di tenere in conto la differenza di genere. Fanno parte di questo gruppo 11 donne appartenenti a diverse professioni mediche e socio- sanitarie (psicologhe, psichiatre, oncologhe, cardiologhe, gastroenterologhe, epidemiologhe, farmacologhe e sociologhe) che nella loro pratica clinica e nella ricerca hanno contribuito a mettere in luce una specifica problematica di genere.

Il primo compito del gruppo è quello di denunciare le carenze della sanità italiana per quanto riguarda la rilevazione e analisi dei dati medico sanitari distinti per sesso, l'assenza di dati sulla violenza come causa di malattia, la carenza di regole che impongano alla ricerca medica e farmacologica di mantenere distinti i due sessi nella raccolta e analisi dei dati. Come si può leggere nel documento allegato, gli obiettivi del gruppo sono: a) creare un campo di osservazione unificato con un punto di vista integrato sulle principali patologie di cui soffrono le donne  e sulle varie aree della medicina; b) evidenziare i bias della ricerca medica sulle donne e la tendenza a sopravvalutare o sottovalutare alcuni fattori che influiscono sulla salute delle donne; c) proporre linee guida per una salute a misura di donna nei vari campi della medicina.

 

Nei primi incontri del gruppo sono stati analizzati alcuni problemi con riferimento all'Italia, tra cui, in particolare, una sopravvalutazione della funzione riproduttiva della donna e una sottovalutazione delle differenze biologiche globali, nel senso che la biologia dell'uomo viene costantemente presa come punto di riferimento per gli studi clinici con la conseguente omologazione del corpo femminile a quello maschile. Tale omologazione ha conseguenze negative sulla salute delle donne con riferimento alla efficacia degli strumenti diagnostici utilizzati, delle terapie, del dosaggio e effetti collaterali dei farmaci, delle linee guida per il trattamento e la prevenzione. Ancora oggi, poi, nell'analizzare i fattori di rischio, il modello di riferimento per quanto riguarda l'attività lavorativa è quello maschile con esclusione del modello plurale (professionale e familiare) di lavoro delle donne. Un altro problema emerso è la disuguaglianza nel trattamento delle patologie: mentre nello studiare le patologie maschili l'accento viene posto sempre su fattori di rischio ambientali, sociali e lavorativi, nello studio delle patologie delle donne si dimenticano importanti fattori di rischio quali la dimensione globale del lavoro (professionale e familiare o di cura) e stressors ambientali come la violenza e l'abuso sessuale. 

 

Una parte consistente di questo gruppo di lavoro ha partecipato alla nostra Conferenza Europea, anzi è proprio in questa occasione che l'embrione iniziale di questo gruppo di lavoro, non ancora formalmente costituitosi presso il Ministero, ha fatto la sua prima uscita pubblica e si è presentato come tale. La Conferenza è stata anche l'occasione di incontro con altre esperte che successivamente, insieme ad altre, sono state cooptate nel gruppo di lavoro, come Laura Corradi che ha relazionato nella seconda sessione. Il nucleo originario ha partecipato alla discussione di questa quarta sessione portando la loro esperienza nel campo della clinica e della ricerca nei diversi campi della medicina: si tratta di Elvira Reale, Giuseppina Boidi, Nadia Pallotta e Maria Grazia Modena.

 

Benché, come si è visto in precedenza, le carenze e i problemi che questo gruppo di lavoro sta evidenziando siano comuni alla maggior parte dei paesi europei, in alcuni di essi, nei quali il movimento per la salute delle donne ha fatto sentire con particolare vigore la sua voce e nei quali le donne hanno la possibilità di svolgere ricerche scientifiche autonome, la questione delle differenze e dei pregiudizi di genere nella clinica e nella ricerca medico-farmacologica comincia ad emergere chiaramente e in alcuni casi anche le istituzioni cominciano a tenerne conto. In Olanda, per esempio, il movimento autonomo delle donne nel campo della salute mentale ha avuto una notevole influenza nel modificare le modalità operative del servizio pubblico di salute mentale e nel dare voce al punto di vista dell'utente. Inoltre, molti medici di medicina generale hanno assunto principi ispiratori del movimento quali la de-medicalizzazione e la visione olistica della salute e della malattia. La Fondazione di Cardiologia Olandese e l'Associazione di donne "Aletta" hanno lanciato una campagna di informazione rivolta agli operatori sanitari per attirare la loro attenzione sulla differente sintomatologia presentata da uomini e donne affetti da malattie coronariche e infarto. Oggi nelle università e istituti di ricerca olandesi vengono condotti numerosi studi rilevanti per la salute delle donne, anche se non tutti si configurano come "women's studies"[21].

 

Dell'Associazione "Aletta", hanno fatto parte tre relatrici di questa Conferenza: Lea den Broeder, Leonore Nicolaï e Annemarie Wagemakers; ora l'Associazione ha cessato di esistere, tuttavia con il contributo di queste donne l'attività di ricerca e formazione dell'associazione prosegue ora nella Netherlands School of Public Health. E' stata appunto la relazione di Leonore C. Nicolaï - docente della Netherlands School of Public Health e ricercatrice del Netherlands Institute for Social-sexuology Research ad aprire i lavori di questa sessione, dopo l'intervento introduttivo della coordinatrice professoressa Giovanna Curatola, ordinaria di Biochimica presso la Facoltà di Medicina e Chirurgia dell'Università di Ancona. La relazione della Nicolaï riguarda le strategie cui si è fatto ricorso in Olanda per integrare nella formazione e nella pratica medica le prospettive, conoscenze e metodi di una sanità a misura di donna e attenta allo specifico di genere. Per comprendere le cause della malattia di uomini e donne è opportuno, oltre a fattori biologici e psicologici, guardare anche alla socializzazione e alla loro posizione nella società. Tutti questi fattori - osserva la relatrice - devono essere tenuti presenti nella diagnosi e nella cura. A tal fine è importante fornire ai medici linee guida di riferimento e sollecitarli a incoraggiare l'auto-determinazione e l'auto-cura. Associazioni come "Aletta" hanno avuto un ruolo importante nella produzione di conoscenze e nella formazione di medici di base, ginecologi, medici del lavoro, delle assicurazioni e del personale paramedico. Il governo Olandese ha saputo trarre vantaggio dall'esperienza e dal corpo di conoscenze prodotto da queste associazioni di donne ed ha nominato una Commissione speciale volta a inserire il tema della specificità di genere nel curriculum formativo dei medici e ha sollecitato le facoltà di medicina  ad attivare corsi di aggiornamento per i docenti delle singole discipline specialistiche (cardiologia, medicina interna, ginecologia etc.). La Nicolaï e la collega den Broeder sono impegnate anche in un programma di formazione sulla specificità di genere per medici specializzandi in medicina del lavoro. In questo ambito è stato attivato un modulo specifico relativo alle differenze di genere nella salute mentale in considerazione dell'alta incidenza (30%) della inabilità al lavoro per disagio mentale e stress, una incidenza particolarmente elevata tra le donne anche a causa della loro doppia presenza nel lavoro familiare e lavoro per il mercato.

 

Se in Olanda anche le autorità di governo cominciano a prestare attenzione a queste problematiche, assai diversa appare la situazione in Italia. Ben lungi dal dare spazio nella formazione dei medici alla specificità di genere, come precedentemente accennato nel nostro paese si registra una marcata disattenzione alla differenza di genere nella raccolta dei dati sanitari, nella ricerca medica, nella sperimentazione dei farmaci, mentre sono ancora forti i pregiudizi nella valutazione delle patologie e dei fattori di rischio per le donne. Appare quindi particolarmente importante per l'Italia dare voce a donne "riflessive" che, ciascuna nel proprio specifico campo di pratica e ricerca medica, hanno prestato attenzione allo specifico femminile, alle condizioni di vita delle donne, cercando di superare i bias derivanti dai pregiudizi prevalenti.

 

Elvira Reale ha svolto una relazione introduttiva molto ampia ed articolata. Essa parte dall'analisi dei pregiudizi di genere "che fanno della scienza medica una scienza parziale focalizzata sul punto di vista maschile… mistifica risultati e procedure contrabbandandoli come oggettivi e validi per tutti". Osserva che c'è una incongruenza tra gli scienziati che individuano leggi generali di funzionamento del corpo umano e i clinici che osservano dati diversi per i due generi, ma li interpretano sulla base degli stereotipi prevalenti. Si tratta, secondo la relatrice di un: "pregiudizio tutto racchiuso nell'equazione totalizzante 'donna=ciclo riproduttivo' che sussiste come base della ricerca nel campo della salute e crea una vera e propria cortina fumogena sui processi di ammalamento delle donne e sulle condizioni di promozione della salute". Mentre la scienza medica, per esempio, individua tra i principali fattori di rischio per la salute dell'uomo il lavoro, l'ambizione e la carriera, per la donna si guarda soprattutto al corpo, al ciclo biologico-ormonale. Così la sopravvalutazione di tale aspetto finisce per trasformare in rischio di malattia ogni momento della vita biologica della donna, mentre l'esclusione di qualsiasi fattore legato all'ambiente e alle condizioni di vita della donna non permette una adeguata diagnosi, trattamento e prevenzione dei disturbi psichici, delle patologie tumorali, cardiovascolari e di molte altre patologie. A questo punto la Reale osserva che se un nuovo modello scientifico, una nuova conoscenza, può nascere solo quando emerge un nuovo punto di vista, allora il punto di vista di genere può contribuire "ad ampliare il campo dell'osservazione scientifica mutando regole e procedure fin qui considerate legittime e valide, ma che se vengono osservate da un'altra prospettiva, quella di genere, mostrano di essere miopi, selettive, non in grado di dar conto di tutti i fenomeni emergenti nel campo di osservazione specifico".

Lo spostamento di prospettiva che si produce quando nella ricerca e nella clinica si tiene in conto la differenza di genere, le diverse condizioni di vita di uomini e donne e si guarda alla complessità di fattori che determinano le condizioni di salute di una persona, appare chiaro, nell'ultima parte della relazione, con riferimento ai risultati della ricerca sul collegamento tra stress e tre patologie ad alta prevalenza nella popolazione femminile: la depressione psichica, il carcinoma mammario e l'ipertensione arteriosa.  Analizzando la letteratura sullo stress le ricercatrici hanno rilevato un approccio analitico differente per i due sessi cosicché per le patologie a prevalenza femminile, come la depressione e il tumore al seno, si ipotizzano collegamenti con gli eventi affettivi e la vita riproduttiva, mentre per le patologie considerate a prevalenza maschile si ipotizzano collegamenti con il lavoro produttivo. Esse quindi hanno riformulato le ipotesi di partenza, utilizzando strumenti di indagine confrontabili e capaci di individuare per ambedue i sessi le fonti di stress; in particolare, oltre a dare una diversa valutazione del peso degli eventi stressanti, si è proceduto ad ampliare il concetto di lavoro come lavoro totale dato dalla sommatoria tra lavoro familiare e professionale considerandolo per tutti i tipi di patologie. Con questa nuova impostazione è emerso che la depressione rientra a pieno titolo tra le patologie da stress collegata al sovraccarico di lavoro e alla insoddisfazione; che anche nel carcinoma mammario il lavoro svolge un ruolo importante; che ipertensione e patologie cardiovascolari sono correlati per le donne, come per gli uomini, a un sovraccarico di lavoro (inteso come lavoro totale) e di responsabilità, un risultato importante, quest'ultimo, per valutare correttamente il rischio cardiovascolare nelle donne, fino ad oggi decisamente sottovalutato. Da queste ricerche, conclude la Reale, possono derivare importanti suggerimenti per sviluppare linee guida appropriate per la prevenzione e per una salute a misura di donna.

 

Nel suo intervento la psichiatra della ASL 3 di Genova Giuseppina Boidi porta alla nostra attenzione il ritardo con cui la psichiatria ha affrontato il tema della differenza di genere nei disturbi mentali e la multifattorialità nella sofferenza mentale nelle donne. La relazione parte dalla constatazione che, nonostante la diffusione e l'aumento del disagio mentale femminile, sono pochissimi gli studi che hanno fornito un valido contributo per comprendere le cause della sofferenza della donna; inoltre anche nel campo della psichiatria gli studi e le attività di promozione della salute della donna sono focalizzati soprattutto sulla sfera riproduttiva. Anche questa relatrice sottolinea il fatto che non si tiene in conto della pluralità di ruoli e responsabilità e delle molteplici pressioni sociali cui la donna è sottoposta. Non si conoscono le differenze di genere per quanto attiene ai fattori di rischio, alle modalità di presentazione dei disturbi e alle implicazioni terapeutiche; in particolare, il 90% degli studi sulla risposta ai farmaci e gli esiti del trattamento non tiene in conto la differenza tra i due sessi anche perché la sperimentazione viene fatta su campioni quasi esclusivamente maschili. Così avviene che le linee guida vengano modellate sui pazienti maschi che pure hanno diverse caratteristiche fisiche e psico-sociali rispetto alle donne. Inoltre, alle donne vengono prescritti psicofarmaci in misura doppia rispetto agli uomini, nonostante sia ormai nota la loro minor tollerabilità a tali prodotti. Ed ancora, se è vero che nelle donne la schizofrenia assume forme meno gravi rispetto agli uomini è pure vero che esse vengono curate in ritardo e ricevono trattamenti poco specifici. La Boidi ritiene importante confutare ipotesi che si basano su pregiudizi e su stereotipi culturali riferiti alla passività della personalità femminile. In proposito, anche lei, come la Reale, sottolinea la sopravvalutazione dell'importanza delle fluttuazioni ormonali nell'interpretazione dei disturbi mentali della donna affermando che manca la dimostrazione certa del legame tra disturbi ansiosi o depressivi e i cambiamenti biologici. Secondo la relatrice non è possibile interpretare il disagio solo sulla base di un parametro, ma occorre fare riferimento ad una molteplicità di fattori: sono importanti ad esempio i fattori ambientali, gli eventi stressanti che precedono il manifestarsi del disagio, la povertà, la molteplicità di ruoli familiari e professionali che la donna si trova a svolgere, le pressioni sociali ad essi connesse e la violenza fisica e sessuale di cui una percentuale elevata di donne rimane vittima nel corso della vita.

 

E' proprio la violenza fisica e sessuale in collegamento con i disturbi gastroenterologi il tema della relazione della gastroenterologa del Policlinico di Roma Nadia Pallotta, che è anche responsabile del "Progetto Donna" Anemgi-Onlus. Una percentuale notevole di donne e bambini nel corso della vita subisce violenza fisica e/o sessuale e ciò può avere un impatto notevole sulla salute non solo in termini di danno fisico alla persona, ma anche molto spesso sull'equilibrio tra soma e psiche. La violenza - riferisce la relatrice - non solo può causare disturbi della personalità, dell'alimentazione e depressione grave,  ma molti studi epidemiologici condotti nel corso degli ultimi dieci anni in vari paesi hanno anche rilevato una "frequente e peculiare associazione con situazioni di sofferenza cronica, a partenza dai visceri" e che la gravità della violenza subita è direttamente correlata alla gravità dei sintomi. A conferma di ciò la Pallotta riferisce quindi i risultati della ricerca "Progetto Donna". Nel concludere il suo intervento sottolinea che è opportuno che il medico  indaghi correttamente gli aspetti psico-sociali tenendo presente che molto spesso la violenza non viene riferita e perciò, soprattutto nel caso di bambini, essa va rilevata attraverso segni indiretti fisici e comportamentali. Si rileva, quindi, la necessità di informare e formare i medici di base e gli specialisti a riconoscere i segni della violenza, anche perché, laddove, oltre a norme di legge, sono state attivate iniziative di formazione-informazione dei medici si comincia a rilevare una riduzione dell'incidenza della violenza sui minori. Ecco quindi che anche questa relatrice come ha fatto la Nicolaï con riferimento allo specifico di genere, sottolinea l'importanza della formazione dei medici con riferimento alla violenza fisica e/o sessuale di cui sono vittime donne e bambine.

 

La ricerca sullo stress di cui ha parlato Elvira Reale ha fatto emergere chiaramente come la sottovalutazione del carico complessivo di lavoro cui è sottoposta impedisce una corretta e tempestiva diagnosi delle affezioni cardiovascolari nella donna. La relazione della cardiologa del Policlinico di Modena Maria Grazia Modena affronta, con la competenza che le deriva dalla sua lunga esperienza clinica e di ricerca, il delicato tema della sottovalutazione del rischio e dei sintomi specifici della malattia cardiovascolare nella donna. Benché sia la causa prima di morte per la donna, la coronaropatia è stata considerata fino a pochi anni fa una malattia maschile anche a causa della scarsa valutazione delle differenze tra donne e uomini nella sintomatologia. Solo a partire dal 1992 si è seriamente cominciato a valutare gli aspetti peculiari della sindrome del dolore al petto e della cardiopatia ischemica nella donna e le differenze fisiche, organiche e biologiche (diversa superficie corporea, diversa distribuzione della massa grassa, torace più piccolo, cuore più piccolo, arterie e vasi più sottili e più fragili, etc.). Questa scarsa attenzione alle differenze, insieme all'idea errata che la cardiopatia ischemica si manifesti in forma più benigna nella donna, hanno comportato che ad essa non si è offerto lo stesso grado di attenzione dato agli uomini. Emerge anche in questo caso, come già sottolineato dalla Reale e dalla Boidi, il problema della scarsa presenza nei campioni sperimentali di donne. Inoltre, benché venga sottolineata l'importanza degli estrogeni come fattore protettivo, è stata sottovalutato l'effetto di accelerazione dei rischi connessi all'improvvisa assenza di estrogeni in post-menopausa (aumento di: tono arteriole, peso, insulina, concentrazione emoglobina)  e della incidenza di ipertensione e cardiopatia ischemica che ne consegue.  La sotto-stima del rischio cardiovascolare è dovuta anche alla maggiore difficoltà di interpretare test diagnostici non invasivi e funzionali, difficoltà accentuate dal fatto che i parametri diagnostici di riferimento sono quelli "tipici" dell'uomo: si parla, per esempio, di dolore toracico "atipico", e non "diverso", nella donna perché il dolore considerato "tipico" è quello riportato dall'uomo. D'altra parte, la donna stessa, chi la circonda e la visita inizialmente sotto-stimano il dolore, per cui spesso essa viene ricoverata tardi, in reparti non specialistici e in degenza non intensiva e di conseguenza è sottoposta in ritardo alle terapie appropriate. Una maggiore attenzione alle specificità fisiche e alle condizioni di vita della donna e un conseguente aggiustamento delle terapie trombolitiche, farmacologiche e degli interventi di rivascolarizzazione possono portare a ridurre decisamente l'elevata mortalità intra-ospedaliera della donna.

 

Gli ultimi due interventi della sessione sono di due infermiere professionali che, pur con un taglio un po' diverso, hanno contribuito ad arricchire il dibattito con le loro competenze ed esperienze specifiche. Il contributo di Anna Rita Toto, infermiera professionale in Staff alla direzione Generale della ASL 8, riguarda l'importanza di tenere in conto lo specifico femminile nel campo della prevenzione e sicurezza sul luogo di lavoro. Il suo intervento prende avvio dalla considerazione che in sanità - come per ogni servizio diretto alla persona - conservare il benessere dei dipendenti è doppiamente importante perché produce effetti anche sull'utenza. I rischi per la sicurezza in questo settore sono particolarmente rilevanti, in parte invisibili e quindi difficilmente identificabili. Inoltre, tali rischi riguardano in modo particolare le donne sia per la loro elevata presenza nella sanità, sia per la specificità dei compiti lavorativi da esse svolti. La Toto sottolinea l'importanza di tenere in conto il contesto lavorativo anche in considerazione del fatto che: "E' iniquo e inefficace nell'economia dell'organizzazione trattare in maniera uguale situazioni differenti"; nella organizzazione del lavoro, afferma, è importante collegare i servizi offerti alla persona con le condizioni di salute e di lavoro dell'operatore che li eroga e quindi con l'attenzione alla differenza di genere, il che vuol dire superare i privilegi dell'uomo nell'utilizzo delle risorse umane e attuare una organizzazione del lavoro a misura di donna.

 

L'intervento di Patrizia Ciccanti, presidente del Collegio Infermieri Professionali, Assistenti Sanitari, Vigilanti d'Infanzia della Provincia di Ascoli Piceno e docente di Scienze Infermieristiche, riguarda l'affermarsi del nursing come scienza. Dopo aver riportato alcuni dati statistici relativi al personale infermieristico, la Ciccanti afferma che la presenza femminile in questo ambito non solo è statisticamente rilevante, ma ha "plasmato nel tempo, la cultura, la impostazione, i valori ed i riferimenti scientifici e disciplinari dell'essere infermiere"; sono donne infatti anche tutti i teorici del nursing. Non è un caso, quindi che la specificità di questa scienza sia  quella di considerare il processo assistenziale al tempo stesso "globale" e "individuale" in quanto tiene conto sia della unità bio-psico-sociale della persona, sia dell'individuo nella sua specificità. La diversità di genere nel nursing, quindi, afferma la Ciccanti: "fa parte del nostro stesso modello professionale ed è patrimoino all'interno della professione stessa". L'intervento si chiude con degli esempi di buona pratica infermieristica ed in particolare con l'esperienza di costruzione ad Ascoli Piceno, tra mille difficoltà, di un Pronto Soccorso extra-ospedlaiero "degno di una società civile".

 

 

Considerazioni conclusive.

 

Come si è potuto vedere, il programma della Conferenza è stato molto ricco ed essa ha costituito un momento molto importante di scambio di esperienze, informazioni, 'saperi'; tutte le relazioni e gli interventi sono stati interessanti e pur nella loro diversità e specificità hanno mostrato di avere elementi comuni, un comune modo di pensare e agire nella sanità. Le quattro sessioni hanno discusso problematiche diverse, ma tra loro strettamente collegate da alcuni fili conduttori.

Si è partiti dal concetto rivoluzionario di "democrazia senza leadership", dal "dare voce", parola chiave che si articola in vari modi a seconda della situazione, dei soggetti coinvolti, che è un modo di essere, di relazionarsi con l'altro da sé. Nel processo decisionale "dare voce", vuole dire collegialità, ricerca del consenso, vuole dire decidere 'con', lavorare 'con', vuol dire saper ascoltare il punto di vista dell'altro/a, sentire, con-prendere l'opinione delle diverse competenze e professionalità ed assumerne i contenuti essenziali per costruire insieme il quadro globale, l'unitarietà dell'intervento; quindi, l'integrazione tra sociale e sanitario, la costruzione di collegamenti, connessioni tra servizi ed istituzioni differenti. Nella relazione terapeutica "dare voce" vuol dire ascoltare la persona malata in quanto portatrice essa stessa di conoscenze che sono importanti al fine dell'efficacia e della scientificità stessa della prestazione, perché se si esclude l'individuo ci si priva di conoscenze importanti e di una visione unificata, globale, dell'individuo stesso. Dare ascolto vuole dire saper dare risposta ai bisogni specifici di ciascuna/o: alla persona nativa come all'immigrata, all'adolescente come all'anziano, alla persona che soffre di cancro, alla donna che soffre di cancro al seno o di disagio mentale, al morente e alla sua famiglia. Con riferimento allo specifico femminile dare voce vuol dire anche rispettare il principio dell'autodeterminazione, il desiderio della donna di vivere da protagonista l'esperienza della maternità con la consapevolezza della potenza della propria energia nel dare la vita. Nel campo della ricerca scientifica e della pratica clinica "dare voce" significa saper prestare attenzione alle diverse condizioni di vita, individuarne i fattori di rischio, andare oltre i bias e pregiudizi della pratica tradizionale e dare visibilità alle differenze di genere e non solo.

 

Le donne, lo si è visto dai contributi offerti nelle quattro sessioni, portano nella sanità idee nuove, un modo nuovo di dirigere e di affrontare i problemi; assumono un metodo di lavoro collegiale che guarda all'individuo nella sua globalità, all'unicità complessa dell'essere umano. Così facendo esse assumono un'ottica che privilegia i risultati a lungo termine e la prevenzione. Questa capacità di innovare delle donne deriva dalla conoscenza della realtà di vita e dall'esperienza nel lavoro di cura e auto-cura, del lavoro per la salute (o lavoro sanitario autonomo) che attuano, anche da non professioniste, nella vita quotidiana. Ciò permette loro di individuare nuove modalità di intervento, ma anche fattori di rischio per la salute della donna che chi non ha la stessa esperienza di vita non riesce a cogliere, perché non ha esperito la complessità di responsabilità e di carichi lavorativi cui la donna è sottoposta. Questo bagaglio di conoscenze ed esperienze permette loro di allargare il campo, la visuale, nella ricerca scientifica come nella pratica clinica, verso nuovi elementi di conoscenza, nuovi percorsi di ricerca.

 

Ma il ruolo delle donne nella sanità - come in politica - è tanto più incisivo quanto più sono capaci di mettersi insieme, di connettersi per portare avanti la loro azione. Di ciò abbiamo avuto evidenza in tutte le sessioni di lavoro della Conferenza. E' importante l'unità di azione quando si ricoprono ruoli decisionali nelle istituzioni e nei servizi per costruire insieme una efficace politica socio-sanitaria. Nella valorizzazione delle diverse professionalità femminili è importante sia la consapevolezza della competenza specifica che l'assunzione di strategie comuni anche se si articolano in modo differente nello spazio e nel tempo. L'unitarietà di intenti tra donne delle professioni e donne che ricorrono alle loro prestazioni contribuisce a far emergere l'energia femminile, l'autonomia nelle scelte, la capacità di diventare protagoniste della propria salute e della propria guarigione. L'elaborazione culturale del movimento delle donne è stato importante in tutti i paesi europei, e non solo, per l'affermazione del principio dell'autodeterminazione, dell'autonomia delle scelte, per rivendicare metodi di cura e di promozione della salute 'alternativi' a quelli ufficiali, la de-medicalizzazione del corpo femminile, la individuazione di fattori di rischio troppo spesso trascurati. Le relazioni presentate nella Conferenza da studiose di vari paesi Europei hanno mostrato chiaramente quanto possa essere importante, laddove è ben organizzato e fa sentire con forza la propria voce, il protagonismo collettivo femminile per la difesa della salute. Lo abbiamo visto con riferimento ad ambiti diversi: nel rivendicare azioni incisive da parte delle autorità competenti contro la violenza, contro i fattori di rischio ambientali per il cancro; nel richiedere adeguata formazione del corpo medico per una maggiore attenzione alla salute della donna e delle sue specificità; nel proporre - imporre una ricerca scientifica a misura di donna. Laddove il movimento delle donne è forte e unito e le donne sono presenti con ruoli rilevanti nella politica e nelle professioni medico-sanitarie, le idee femministe stanno prendendo piede anche nella pratica medica e nella ricerca scientifica. In alcuni paesi anche le istituzioni cominciano a tenerne conto anche nella predisposizione di linee guida per i medici. Laddove donne consapevoli e "riflessive" fanno ricerca insieme possono mostrare quanto il punto di vista di genere sia capace di ampliare il campo dell'osservazione scientifica, di modificare prospettive e procedure, proporre linee guida volte a promuovere la salute della donna.

 

I contributi a questa Conferenza sono stati tanti; avrebbero potuto essercene molti altri, perché non sono poche le donne (e non solo le donne) che nella sanità si adoperano per innovare, migliorare la qualità, promuovere la salute, dare voce, comunicare conoscenze producendo importanti spostamenti di prospettiva. Questa è stata una occasione di incontro che sarebbe importante ripetere per dare ad altre/i l'occasione di comunicare le proprie esperienze innovative e per mantenere una continuità di interscambio, di relazione tra donne che con la loro pratica e la loro ricerca sanno imprimere i cambiamenti necessari a promuovere la salute di tutte e tutti.  Anche se non sempre ne sono consapevoli, molte donne, le donne "riflessive", nella sanità - come nella vita politica - fanno differenza, ma per fare differenza devono esserci numerose, consapevoli del loro ruolo e della ricchezza dei loro 'saperi', devono saper imporre, così, la loro differenza. Quello che è importante, a tal fine, è "fare legame", mettersi in rete per darsi forza reciproca e impedire che logiche di mercato, di medicalizzazione, di parcellizzazione dell'individuo, di disattenzione alle differenze, per impedire che pregiudizi e bias di genere continuino a influenzare la ricerca scientifica e la pratica medica. Per questo al termine della Conferenza è stata letta e discussa dall'assemblea una Dichiarazione d'Intenti volta a  creare una rete nazionale e internazionale per diffondere un modo di operare che promuove la salute per una sanità migliore e più efficace nella consapevolezza che lo scenario futuro, il sapersi opporre all'uso indiscriminato delle nuove tecnologie dipende dalla capacità delle donne di saper "fare legame", di affermarsi come movimento. 



[1] Si veda: Paola Vinay - Prospecta, 1997, “Gender, Power and Change in Health Institutions of the European Union” - Employment & Social Affairs - Equal Opportunities and Family Policy - European Commission, disponibile anche in francese e tedesco (“Genre, Pouvoir et Changements dans le Secteur de la Santé dans l’Union Européenne” -  Geschlecht, Macht und Veranderung in Institutionen des Gesundheitswesens der Europaischen Union”). Questa ricerca ha permesso anzitutto di individuare 1.000 donne che detengono posizioni di vertice nelle principali istituzioni sanitarie dei 15 paesi dell’Unione. Abbiamo analizzato, inoltre, circa 400 questionari compilati da donne e uomini ai vertici di tali istituzioni e 16 interviste in profondità effettuate in Francia, Italia e Svezia ad alte dirigenti della sanità del loro paese.

 

[2] Per “buone pratiche” o “pratiche efficaci” nella sanità si intende: lo stile di leadership democratico, volto alla collegialità;   il riconoscere autorità a professionalità scarsamente valorizzate;  il promuove una più equilibrata presenza femminile ai livelli dirigenziali;  l’assunzione di un metodo di lavoro collegiale con scambio di informazioni, rispetto delle diverse professionalità; la capacità di relazionarsi all’altro da sé nel rispetto della diversità, dei punti di vista degli altri, siano essi i colleghi o gli utenti; la capacità di prestare particolare attenzione allo “specifico femminile”, alla diversa reazione dei due generi alle terapie, alla malattia, alla diversa realtà di vita di uomini e donne; la capacità di costruire relazioni, collegamenti, tra servizi e istituzioni diverse al fine di conseguire una maggiore efficacia e unitarietà dell’intervento sociale e sanitario.

 

[3] Si veda in proposito: Bianca Beccalli, 1994, “Comparative Works”, in Pari e Dispari, giugno.

 

[4] Walsh A., 1995, "Gender Differences in Factors Affecting Health Care Administration Career Development", in: Hospital and Health Services Administration, 40:2, Estate.

 

[5] Vedi: Eduards M., 1996, “Participation des femmes et changement politique: le cas de la Suède”, in Ephesia, La place des femmes. Les enjeux de l’identité et de l’égalité au regard des sciences sociales, Paris, e bibliografia ivi citata.

 

[6] Raffaella Lamberti, 1996, “Democrazia senza leadership e doppia sovranità. A proposito di Pechino”, in Femminismi, Centro Documentazione delle Donne, Bologna, maggio, pagina 5.

 

[7] Risultati simili in merito allo stile di leadership delle donne sono emersi da altre ricerche. Ad esempio, uno studio condotto negli Stati Uniti su donne e  uomini che sono stati sindaci delle stesse città americane, ha mostrato che rispetto agli uomini le donne attribuiscono più importanza alla partecipazione, alla collegialità, al lavoro di gruppo e alla comunicazione. L'autrice di tale studio ritiene che in quei paesi nei quali da tempo il numero di donne elette è elevato, anche le scelte politiche sono mutate, nel senso che esse hanno fatto spazio nei programmi pubblici a problemi che in passato erano considerati solo delle donne. Si veda: Tolleson Rinehart S., 1991, “Do women leaders make a difference? Substance, Style and Perceptions”, in Gender and Policymaking Studies of Women in Office, Rutgers, University of New Jersey.

 

[8] Enrichetta Susi, 1998, "Presentazione", in "Due per sapere, due per guarire", Quaderno di Via Dogana a cura di Ipazia, (comunità scientifica femminile), Libreria Delle Donne, Milano, pagina 8.

 

[9] Vedi: Laura Balbo, 1980, "Le conseguenze della crisi del Welfare Sate: alcuni dati dal punto di vista delle donne", in Inchiesta, n° 46-47.

 

[10] K. Dean, 1984, "Self - Care: what people do for themselves" in S. Hatch - I Kickbusch (a cura di) Self - Help in Europe, World Health Organization, Regional Office for Europe, Copenhagen, p 20.

 

[11] D. Grunow, 1985, "Lavoro e aiuto sanitario autonomo quotidiano nelle famiglie e nelle reti sociali. Un'indagine nella R.F.T.". in Inchiesta, n° 67-68.

 

[12] Vedi: Paola Vinay, 1986, "Donne salute e prevenzione", in Produzione e Riproduzione. La vita delle donne tra lavoro e famiglia, Atti del Convegno, COM Studio Linea, Fermo; Paola Vinay, 1987, "Primary Health Care: concezioni e pratiche della salute nei medici di base e nei servizi territoriali", in M. Ingrosso (a cura di) Dalla prevenzione della malattia alla promozione della salute, Franco Angeli, Milano; Paola Vinay, 1988, "Sulla nuova consapevolezza sociale: una ricerca nelle Marche", in M. Rossanda - I. Peretti (a cura di) Il bene salute tra politica e società. Il popolo della riforma ne discute. Materiali e Atti n° 12, supplemento al n° 6 di Democrazia e Diritto, novembre-dicembre, Roma. Quest'ultimo lavoro fa riferimento alla prima fase di uno studio di panel ripetuto per tre volte, con gli stessi strumenti di rilevazione, nella stessa comunità tra il 1988 e il 1995; le rilevazioni successive hanno confermato le tendenze rilevate nella prima rilevazione.

 

[13] Vedi: Paola Vinay, 1979, Indagine sul fabbisogno di servizi sociali e sanitari presso la popolazione della media Valle del Tenna, Assessorato alla Sanità e Sicurezza Sociale, Ufficio Programma, Ancona, n° 9/3; Paola Vinay, 1985, "L'indagine qualitativa sulla domanda di servizi sanitari e il comportamento delle famiglie", in M. Paci - P. Pettenati (a cura di) I servizi socio-sanitari di base, in Collana di Studi e Ricerche n°3, Università degli Studi di Ancona, Istituto di Storia e Sociologia.

 

[14] Vedi su questi temi: Anderson - Helm, 1979, "The physician - patient encounter: a process for reality negotiation", in G. JacoPatients, Physicians and Illness, The Free Press, London, New York; Freidson,1977, "Il controllo del cliente e la pratica professionale del medico", in, Maccacaro - Martinelli (a cura di) Sociologia della medicina, Feltrinelli, Milano; J. Mc Kinley, 1975, "Who is really ignorant, physician or patient?" in Journal of Helath and Social Behaviour, n° 16; B. Svarstad, 1976, "Physician - patient communication and patient conformity to medical advice", in D. Mechanic, The Grouth of Bureaucratic Medicine: An inquiry in the dinamics of patient behavior and the organization of medical care, Wiley Interscience, New York.

 

[15] Vedi: A. Cartwright - Anderson, 1984, General Practice Revisided, Tavistock Pub., Londra.

 

[16] Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), 1984,  Ufficio Regionale per l'Europa Health Promotion - A discussion document on the concept and principles, Copenhagen, ICP/HSR 602m01.

 

[17] Barbara Duden, 1994, "Il corpo della donna come luogo pubblico", Bollati Boringhieri, pagina 8.

[18] Si veda in proposito: Dr. Kaisa Kaupipinen, Institut for Occupational Health della Finlandia, Women's Health Network: State of Affairs, Concepts, Aproaches, Organizations in the Health Movement - Country Report Finland, EWHNET, Hannover, June 1999.

[19] Si veda: Prof. Brigitta Hovelius, Università di Lund, in: Women's Health Network: State of Affairs, Concepts, Aproaches, Organizations in the Health Movement - Country Report Sweden, EWHNET, Hannover, June 1999; la citazione è tratta dalla pagina 19.

[20] Si veda per la Germania: Dr. Vera Lasch e Brigitte Hantsche, in: Women's Health Network: State of Affairs, Concepts, Aproaches, Organizations in the Health Movement - Country Report Germany, EWHNET, Hannover, September 1998; la citazione è tratta dalla pagina 21-22.

[21] Si veda in proposito: Lea den Broeder, Women's Health Network: State of Affairs, Concepts, Aproaches, Organizations in the Health Movement - Country Report The Netherlands, EWHNET, Hannover, September 1998.