Capitolo 10
violenze contro le donne, conseguenze sulla salute
e ruolo dei servizi socio-sanitari.
Patrizia Romito
Facoltà di Psicologia, Università di Trieste
1.
la
frequenza della violenza contro le donne
Le
ricerche svolte negli ultimi anni mostrano che la violenza maschile contro donne
e bambine è frequente. Nei paesi industrializzati, tra il 25 e il 30% delle
donne subiscono, nel corso della loro vita adulta, violenze fisiche e/o sessuali
da un partner o ex-partner; tra il 5 e il 15% subiscono queste violenze nei 12
mesi precedenti la ricerca; la prevalenza delle violenze psicologiche è ancora
più elevata (Gillioz et al., 2000; Romito e Crisma, 2000). La violenza
domestica sembra essere altrettanto frequente in gravidanza (Ballard e Spinelli,
2000).
Negli
Stati Uniti, tra il 13% e il 20% delle donne subiscono uno stupro almeno una
volta nella vita (Kilpatrick et al., 1997); questa proporzione, sia pure meno
elevata, è alta anche in Italia (Sabbadini, 1998; Romito e Crisma, 2000). Tra
il 20 e il 30% delle bambine e adolescenti subisce violenza sessuale, il più
delle volte da parte di un uomo o di un ragazzo che conosce bene (W.H.O., 1997;
Romito e Crisma, 2000). Queste violenze sembrano essere ancora più frequenti in
paesi meno industrializzati (WHO, 1997).
2.
le
conseguenze della violenza sulla salute delle donne
Queste
violenze hanno delle conseguenze negative sulla salute e sul benessere delle
donne (WHO, 1997).
·
Le donne che
hanno subito violenze sessuali da bambine soffrono più spesso di problemi di
salute mentale, di disturbi dell'alimentazione, sessuali, ginecologici e
gastrointenstinali (Fleming et al., 1999; Plichta e Abrahm, 1996; Baccini et al.,
1998); i maltrattamenti fisici e psicologici nell'infanzia comportano
conseguenze in parte simili.
·
Le donne che
hanno subito aggressioni sessuali o fisiche, oltre a soffrirne le conseguenze
immediate (ferite, lesioni, ma anche gravidanze non volute, AIDS e malattie
sessualmente trasmissibili), vivono a medio e a lungo termine dei disturbi
psicofisici legati al vissuto di un'esperienza traumatica, incorrono più spesso
in dipendenze da alcol o da droghe, e soffrono di numerosi problemi di ordine
fisico e psicologico (Kilpatrick et al., 1997).
·
Le donne
maltrattate da un partner (che si tratti di maltrattamenti fisici, sessuali o
psicologici) sono più spesso depresse, fanno più tentativi di suicidio, e
riportano più problemi di tipo psicosomatico (Andrews e Brown, 1988; W.H.O.,
1997). Se sono maltrattate in gravidanza, è la gravidanza stessa che può
essere a rischio.
L'OMS in più occasioni ha evidenziato le conseguenze della violenza sulla salute della donna: nei due schemi sottostanti sono segnalati i principali effetti della violenza sulla salute sia fisica che mentale.
Health Consequences of violence against women
Ø
Injury (from lacerations to fractures and internal organs injury)
Ø
Permanent and non permanent disabilities
Ø
Unwanted pregnancy
Ø
Gynaecological problems: inflammation of the ovaries or uterus,
urethiritis, vaginal infections, menstrual pain, pelvic pain, irregularities
of the menstrual cycle.
Ø
STDs including HIV
Ø
Chronic Headaches and chronic backaches
Ø
Gastrointestinal problems, irritable bowel syndrome
Ø
Cardiovascular problems ( Hypertension, broken heart)
Ø
Asthma
Ø
Self-injurious behaviours (smoking, alcohol abuse, unprotected sex)
Source: Women's Health Development, Family and Reproductive Health (1996), Violence Against, in WHO Consultation, World Health Organization, Geneva.
Mental
Health Consequences of violence against women
-
Depression -
Suicidality -
Fear, feelings of shame & guilt -
Anxiety, panic attacks -
Low self-esteem |
-
Sexual disfunction -
Eating problems - Obsessive-compulsive disorder - Post traumatic stress disorder -
abuse of medication, alcohol & drugs |
Source:
Family and Reproductive Health, Regional Office for Europe (1998)
Report of the First Technical meeting "European Strategies to combat
Violence against Women, Copenhagen.
3. l’uso
dei servizi socio-sanitari da parte delle donne vittime di violenza
Ricerche
recenti, svolte soprattutto negli Stati Uniti,
mostrano che le donne vittime di violenza utilizzano più frequentemente
delle altre servizi come il medico di famiglia; il pronto soccorso, generale o
psichiatrico; i servizi per problemi sessuali e di terapia familiare; i servizi
di psichiatria e per il trattamento delle dipendenze (Grisso et al., 1991;
Abbott et al., 1995; Briere et al., 1997; Kilpatrick et al., 1997).
In
Italia, le ricerche in proposito sono rare. I risultati di uno studio recente,
svolto in alcuni servizi sociali e sanitari di Trieste (Pronto soccorso,
Consultorio familiare e Servizio sociale di base) su un campione di 510 utenti
che si erano rivolte a questi servizi per qualsiasi motivo, mostrano che il 10%
delle utenti aveva subito violenze fisiche e/o sessuali negli ultimi 12 mesi.
Questa proporzione era molto più elevata (18%) tra le giovani donne, tra i 18 e
i 24 anni.
Nella
grande maggioranza dei casi, l’autore delle violenze era un uomo o un ragazzo
che la donna conosceva bene: gli autori più frequenti erano partner o
ex-partner; poi familiari (padre e fratelli soprattutto), e altri uomini noti
(datore di lavoro, colleghi) (Romito e Crisma, 2000). Le violenze psicologiche
erano molto più frequenti, così come le violenze, fisiche, sessuali e
psicologiche nel passato.
4.
la
risposta dei servizi socio-sanitari alle donne vittime di violenza
La
frequenza della violenza maschile e la gravità delle sue conseguenze sono
rimaste finora invisibili agli occhi degli operatori socio-sanitari. Le ricerche
svolte, intervistando gli operatori e le donne, analizzando i dati delle
cartelle cliniche o osservando il lavoro nei servizi, hanno mostrato che le
risposte positive, in cui le donne sono ascoltate con simpatia, credute e
aiutate, sono rare (vedi Romito, 1999).
Sulla
base della letteratura internazionale e delle sue interviste con donne vittime
di violenze, Romito ha individuato tre tipologie di risposte negative: il non
riconoscimento della violenza, o la sua minimizzazione; le risposte di rifiuto,
in cui la violenza viene "vista" ma gli operatori tendono a
colpevolizzare la donna e a solidarizzare con l'uomo violento; e la
psicologizzazione o psichiatrizzazione abusiva, che avviene quando gli operatori
danno una risposta di tipo psicologico o psichiatrico anche se la domanda della
donna si situava su un altro piano (cure sanitarie, aiuto economico, tutela dei
propri diritti) o quando limitano il campo psicologico a un solo modello, quello
psicoanalitico, fortemente colpevolizzante per la vittima (Romito, 1999). Tra
gli operatori persistono inoltre i peggiori pregiudizi, come il fatto che le
vittime siano "masochiste" o in qualche modo complici della violenza
(Paci e Romito, 2000).
Il
“non riconoscimento”della violenza è frequente nei servizi di Pronto
soccorso. Negli Stati Uniti, Stark (Stark et al., 1983), dopo aver esaminato le
cartelle cliniche delle pazienti, concluse che per ogni caso di violenza
riconosciuta, c’erano almeno 8 casi “non riconosciuti”. In Italia, il 45%
dei medici di Pronto soccorso intervistati in una città del nord, hanno
affermato di non aver mai avuto contatti, nella loro vita professionale, con
donne vittime di violenza, quando, nello stesso periodo, in 4 anni, il Centro
anti-violenza della stessa città era stato contattato da più di mille donne
(Gonzo, 2000; Creazzo, 2000).
Un
altro esempio viene da una ricerca olandese (Frenken e Van Stolk 1990) in cui
state intervistate 50 donne che avevano subito incesto da bambine e 130
operatori socio-sanitari. I risultati mostrano che molti operatori non avevano
approfondito la rivelazione sull'incesto perché ritenevano non fosse il momento
giusto o che la vittima non fosse pronta. Dalle interviste alle donne risulta
che, dal momento in cui avevano rivelato chiaramente la loro esperienza, per
ottenere un aiuto significativo avevano dovuto rivolgersi a numerosi operatori
(la media era di 3.5 operatori diversi). Alla fine di quello che gli autori
definiscono "un lungo viaggio attraverso gli ambulatori", non più del
50% delle donne aveva trovato un contatto soddisfacente; il 10% delle
intervistate era stata abusata sessualmente dallo stesso terapeuta.
Ci
sono però anche esempi in cui gli operatori riescono a dare delle risposte
appropriate alle donne vittime di violenza : risposte in cui le donne sono
ascoltate con simpatia, credute e aiutate. Ricevere queste risposte può
costituire un fattore cruciale nel permettere alla donna di uscire dalla
situazione di violenza (Romito, 1999).
In
altri paesi, e soprattutto negli Stati Uniti, il personale e i servizi sanitari
hanno assunto il problema della violenza alle donne e hanno sviluppato “buone
pratiche” in proposito (Campbell, 1998). Un punto di partenza comune è quello
di chiedere a tutte le utenti se hanno subito violenze, cioè di includere il
tema della violenza nell’anamnesi della donna.
In
Italia questa assunzione del problema da parte dei servizi non è ancora
avvenuta, anche se non sono pochi gli operatori e le operatrici che cercano di
rispondere in modo appropriato alle vittime di violenza (vedi Reale, 2000).
Spesso,
però, gli operatori si trincerano dietro il ragionamento che non è possibile,
per ragioni di tempo e di opportunità, chiedere a tutte le pazienti se stanno
subendo o hanno subito violenze. I risultati della ricerca svolta a Trieste
smentiscono questa preoccupazione: Il 90% delle donne non mostrava disagio
nell’affrontare il tema della violenza; anzi, quando le donne l’avevano
subita, erano, nella maggior parte dei casi, sollevate che la domanda fosse
stata loro posta e desiderose di parlarne; una proporzione importante di donne
(tra il 9 e il 37%, a seconda del tipo di violenza subita) aveva parlato della
violenza per la prima volta proprio con l’intervistatrice (Romito e Crisma,
2000).
5.
raccomandazioni
La
violenza contro le donne è frequente, e ha delle conseguenze negative sulla
loro salute. E’ quindi necessario che gli operatori e il sistema sanitario ne
tengano conto se vogliono rispondere in modo appropriato ai bisogni delle donne.
Finora, operatori e servizi hanno dato risposte insoddisfacenti a questi
bisogni; quando le risposte sono positive, però, per le donne possono
rappresentare un sostegno importante nel percorso di uscita dalla violenza.
Perché ciò possa avvenire in maniera sistematica e non solo basandosi sulla
buona volontà del singolo operatore, i seguenti passi sono necessari:
1.
Formazione
del personale sociale e sanitario sul tema della violenza.
·
Nonostante l’estensione della violenza contro le donne e le bambine/I e la
gravità delle sue conseguenze, questo tema non fa ancora parte del curriculum
formativo di base delle professioni sociali e sanitarie. Si tratta quindi di
integrarlo nei curricula ordinari [1].
·
Si tratta inoltre di organizzare e promuovere occasioni di formazione in
proposito per gli operatori già in servizio. In diverse regioni italiane, negli
ultimi anni, gli Enti locali hanno promosso corsi di questo tipo, affidandone
spesso la gestione ai Centri anti-violenza e alle Case per donne picchiate. Si
tratta di esperienze che hanno funzionato bene e che andrebbero prese a modello
(vedi Gonzo, 2000).
Data
la delicatezza dell’argomento e le emozioni che può suscitare, è importante
che la formazione abbia come obiettivo la trasmissione di conoscenze sulla
violenza ma anche la discussione delle emozioni che suscita e dei pregiudizi più
diffusi in proposito (Gonzo, 2000).
Per
gli operatori di alcuni servizi (come il Pronto soccorso) vanno inoltre
sviluppati moduli di formazione più specialistici, partendo da esperienze già
operanti in Italia (vedi il Soccorso violenza sessuale –SVS-, che opera presso
la Clinica Mangiagalli di Milano).
2.
Se il personale è stato formato sul tema della violenza, è possibile
affrontare questo tema sistematicamente con tutte le donne, come parte della
richiesta di informazioni sulla vita della paziente utili a capire e a risolvere
i suoi problemi di salute.
L’abbordare
questo tema può non dare “risultati” immediati; anche se la donna non ne
parla immediatamente, però, saprà che il tema può essere toccato con
l’operatore sanitario, e lo farà nel momento a lei più opportuno.
Per
i contenuti di questa comunicazione, si veda Campbell (1998) e, in Italia, Gonzo
(2000). E’ comunque fondamentale comunicare alla donna:
-
che non è sola, che il problema della violenza è comune;
-
che la violenza è inaccettabile e che nulla di quello che può aver fatto
può giustificare un comportamento violento;
-
che è possibile uscirne; vanno qui trasmesse le informazioni relative alle
risorse presenti sul territorio (altri servizi, forze dell’ordine, Case per le
donne, ecc.).
E’
inoltre fondamentale: documentare accuratamente le eventuali lesioni della
donne; garantire la confidenzialità di quanto ha detto (salvo la necessità di
denuncia in casi specifici); tener conto dei rischi, anche molto gravi,
che la donna può correre, approntando quindi delle soluzioni di
emergenza (per esempio può essere necessario prolungare un ricovero ospedaliero
se questo permette alla donna di trovare un luogo sicuro dove rifugiarsi).
3.
Materiale informativo
Una
misura, semplice ma indispensabile, consiste inoltre nel mettere a disposizione
nei servizi sociali e sanitari del materiale informativo sulla violenza
alle donne e sul “che fare” in proposito, con una lista esauriente delle
risorse disponibili localmente.
4. La ricerca.
Va
inoltre sottolineata la necessità di promuovere ricerche sul tema della
violenza alle donne, con approcci metodologici diversi: ricerche
epidemiologiche, qualitative e di valutazione dell’attività dei servizi dove
siano state implementate “buone pratiche”.
referenze
Abbott, J. et al. (1995) Domestic violence against women. JAMA, 273(22),
1763-1766.
Andrews,
B., Brown, G. (1988) Marital violence in the community. British Journal of
Psychiatry, 153, 303-312.
Baccini,
F., Pallotta, N., Badiali, D., Biancone, L., Habib, F.I., Corazziari, E. (1998)
Prevalenza di maltrattamenti fisici e/o sessuali in pazienti con disturbi
cronici gastrointestinali. NeUroGastroenterologia, 4: 101-104.
Ballard,
T. e Spinelli, A. (2000) Violenza durante la gravidanza. Pp 117-122 in Romito,
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Briere,
J. et al. (1997) Lifetime victimization history in female psychiatric emergency
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Campbell,
J. (1998) Empowering Survivors of Abuse. Health Care for Battered Women and
Their Children, Sage, California.
Creazzo,
G. (2000) I luoghi dell’accoglienza. Un punto di vista privilegiato sulla
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Frenken, J., Van Stolk, B. (1990) Incest victims: inadequate help by
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Gillioz, L., DePuy, J., Ducret, V. (2000) La violenza domestica in
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Gonzo, L. (2000) I servizi sociosanitari a Bologna: dai risultati di una
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Romito, P (a cura di) (2000) Violenze alle donne e risposte delle
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Stark, E. et al. (1983)
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The Politics of Sex in Medicine. Baywood Pub., New York.
World
Health Organization (W.H.O.) (1997) Violence Against Women, Women's Health and
Development Program, W.H.O., Geneva.
[1]
In questo momento esiste un corso specifico sulla violenza alle donne
presso la Scuola di specialità in Psicologia del Ciclo di Vita
(Facoltà di Psicologia) e presso il Corso di laurea in Servizio sociale
(Facoltà di Scienze della formazione), all’Università di Trieste.