Capitolo 2
MALATTIE
CARDIOVASCOLARI
Maria Grazia
Modena
Direttore
della Cattedra e della Divisione di Cardiologia del Policlinico di Modena
1.
studi
di prevalenza
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Durante
gli ultimi 20 anni diversi studi si sono occupati delle differenze di genere per
quel che riguarda le manifestazioni cliniche e la prognosi della malattia
coronarica. I risultati di questi studi hanno dimostrato alcune importanti
diversità correlate al sesso.
La
stessa, tuttavia, rappresenta la maggiore tra le cause di morte in tutti i paesi
occidentali. Basti pensare come negli USA ogni anno muoiano di CI 250.000 donne;
100.000 di queste prima del raggiungimento dell’età media di aspettativa di
vita. Nel 1996 la CI è stata responsabile di circa il 20% dei decessi nel mondo
(circa 14 milioni di persone) e di più del 50%
nei paesi industrializzati; il report
dell’Organizzazione Mondiale della Sanità relativo al 1995 mette inoltre in
guardia sul fatto che la CI sia divenuta, negli ultimi anni, la prima causa di
morte anche in paesi in via di sviluppo come Argentina, Cile, Cuba, Corea, Sri
Lanca ed Uruguay.
Per
quel che riguarda gli USA i dati epidemiologici sono addirittura allarmanti
quando si considerano le pazienti in post-menopausa: il rischio di una donna in
post-menopausa di subire un evento CI-correlato sarebbe pari al 31%
contro solo il 3% di essere
colpita da un cancro della mammella o da una frattura di femore; l’invalidità
permanente correlata alla CI interesserebbe il 33% delle donne di età compresa tra 55 e 64 anni e ben il 55% delle
pazienti ultrasettantenni (Fig. 1). Tale rischio sarebbe solo in parte correlato
alla carenza estrogenica tipica della post-menopausa.
Una
coronaropatia clinicamente manifesta sarebbe diagnosticata, nel range d’età
tra 45 e 64 anni, in una donna su nove prima della menopausa e in una su tre
subito dopo.
|
In Italia i dati epidemiologici sono meno drammatici
ma non certo rassicuranti (Fig. 2): nel 1991 la CI e gli altri eventi
cardiovascolari sono stati causa del 48% dei
decessi nelle donne adulte contro il 39% degli uomini. Nonostante tali dati, gli epidemiologi riconoscono
che attualmente la patologia cerebro e cardiovascolare, come causa di morte, ha
subito una battuta d’arresto: ciò sarebbe dovuto sia agli interventi di
prevenzione primaria e secondaria ma soprattutto ad una riduzione della mortalità
nelle prime fasi dell’infarto del miocardio.
L’aspetto
preoccupante che deve, a nostro parere, indurre a meditazione la classe
cardiologica è il crescente numero di segnalazioni in letteratura riguardanti:
la generale sottostima per quel che riguarda la diagnosi di CI nella donna, la
diagnosi in stadio troppo avanzato di malattia o ancora di trattamento meno
aggressivo rispetto a quello riservato al paziente maschio.
Preoccupante
appare ancora un’apparente prognosi più severa nelle pazienti di sesso
femminile rispetto ai maschi pari età, ciò indicando chiaramente come
differenze sesso-specifiche inciderebbero sostanzialmente sia sulla diagnosi che
sul trattamento della CI influenzando, in ultima analisi, la prognosi. Possiamo
dunque ritenere saggia la frase con la quale Pamela Douglas chiuse un suo
intervento sull’argomento: “accurate and timely diagnosis of ischemic heart disease is a
critical step in the care of women and represent the major challenge to
physicians”.
Esistono,
a nostro avviso, alcuni problemi principali che bisogna passare in rassegna per
comprendere meglio il problema: l’eziopatogenesi della ci nella donna, la
valutazione del dolore toracico, che pone il sospetto di coronaropatia, la
penetranza diagnostica del test non invasivo che si intende usare per avallare
ovvero respingere il sospetto diagnostico stesso e infine i bias che hanno
creato idee confuse, con impatti diagnostico-terapeutici spesso inadeguati.
2.
ipotesi
eziologiche e studi sui fattori di rischio
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Studi
anatomo-patologici dimostrano come, nell’uomo, le placche cominciano a
comparire intorno all’età di 30 anni, sulle pareti arteriose; esse crescono
in maniera proporzionale al livello sierico di colesterolo e al numero di
sigarette fumate e raggiungono la “criticità” all’età di 60-65 anni
(storia naturale della cardiopatia ischemica nell’uomo). Nelle donne, invece,
la presenza del periodo fertile (ricco in estrogeni) posticipa la data di
comparsa della placca, la quale cresce in relazione alla storia di diabete e di
ipertensione di cui è più spesso affetta la paziente di sesso femminile. La
criticità viene raggiunta all’età di 75-80 anni (15-20 anni dopo rispetto
all’uomo) (Fig. 3).
Volendo esaminare se esistono differenze di genere nel peso e nella distribuzione dei fattori di rischio per arrivare a programmi di prevenzione mirata, si può asserire che quasi tutti i “classici” fattori di rischio sono simili nei due sessi, che forse esistono alcune differenze, che si parla di alcuni nuovi fattori di rischio che avrebbero particolare impatto sul sesso femminile e infine che l’effetto del controllo dei fattori di rischio “classici” sembra simile nei due sessi. Va tuttavia premesso che ancora non vi sono dati sufficienti. Riguardo al primo punto, quasi tutti i fattori di rischio sono simili, esistono forse alcune differenze che riguardano ipertensione, diabete, attività fisica, colesterolo HDL e trigliceridi, sulla percezione di malattia e sulle condizioni psico-sociali.
Esistono invece sicure differenze per quel che riguarda l’evento menopausa e sul suo antidoto unico e peculiare, la terapia estrogenica sostitutiva. Riguardo ai classici fattori di rischio si può osservare che per tutti quanti, tranne che per l’ipertensione, si discute su dati osservazionali.
E’ emerso dallo studio del Rancho Bernardo che il rischio relativo nelle donne diabetiche è da 3 a 7 volte maggiore; da Framingham risulterebbe che forse un valore basso di HDL ed elevato di trigliceridi è più importante nelle donne; e dal Nurses’ Health Study emerge che il peso corporeo aggiustato per l’età e fumo aumenta di molto il rischio nelle donne.
Dati osservazionali riportano che l’attività fisica ha effetti benefici nelle donne perché influenzerebbe positivamente sensibilità all’insulina, diabete, ipertensione e osteoporosi. Esistono differenze inoltre tra i due sessi nella percezione di malattia nel senso che la donna ha indubbiamente un concetto di malattia cardiovascolare diverso dall’uomo in quanto che non è stata educata a considerarsi a rischio di CI, ne consegue in generale una scarsa sensibilità al concetto di prevenzione cardiovascolare.
Il dato menopausa infine è un tema estremamente controverso, in quanto non si hanno ancora idee chiare su quale sia l’apporto biologico al rischio, legato alla carenza estrogenica, e quale quello ascrivibile all’aumento dell’età. Ci sono pareri concordi e studi confermati sul fatto che l’ipertensione rappresenta il fattore di rischio cardiovascolare più importante nella donna in post-menopausa, mentre il diabete il più importante in assoluto, ma con un’incidenza molto inferiore.
Il
fatto che la post-menopausa rappresenti un fattore di rischio per
l’ipertensione è stato dimostrato anche dal VI Joint Committee che introduce
fra i vari fattori di rischio maggiori, oltre i classici, anche il sesso
femminile, solo però quando la donna è in post-menopausa e non è trattata con
terapia estrogenica sostitutiva, criterio, tuttavia quest’ultimo, messo
ampiamente in discussione dopo i risultati di alcuni trials.
L’ipertensione
è sicuramente il più importante fattore di rischio nel mondo occidentale;
negli Stati Uniti coinvolge quaranta milioni di persone e una su due appartiene
al sesso femminile; al di sopra dei 45 anni la metà delle donne di razza bianca
e più dell’80% delle donne di razza nera sono ipertese. Sopra ai 65 anni di
età oltre il 70% delle donne è ipertesa indipendentemente dalla razza e questo
dato si ripete in tutte le casistiche esaminate con uno sviluppo di malattia nel
75% in post-menopausa.
Per
quanto riguarda i dati italiani recentemente pubblicati nell’ambito del
progetto RIFLE si vede come essi siano migliori rispetto a quelli americani e
forse meno preoccupanti: fino all’età di 45 anni l’ipertensione è molto più
elevata nel sesso maschile mentre dai 50 anni in poi è più incline a
svilupparsi nel sesso femminile. Dopo i 65 anni il 50% delle donne risulta
ipertesa.
Se
noi guardiamo la popolazione modenese studiata nell’ambito del progetto SIMONA
(Studio sulla prevalenza dell’Ipertensione in Menopausa nella Popolazione
Italiana) recentemente ultimato ed effettuato in collaborazioni coi Medici di
Medicina Generale, vediamo che nella popolazione fra i 45 e i 60 anni della
nostra provincia la prevalenza di ipertensione è del 38.2% e questo rappresenta
un dato preoccupante che avvicina la popolazione di un’area italiana
considerata ad alto livello sanitario a quella americana; la cosa che colpisce
è che tra le donne ipertese, prendendo come cut-off
i limiti tracciati dal VI Joint Committee, solo il 34% viene trattato in maniera ottimale.
E’
pertanto possibile arguire che ad aumentare notevolmente l’incidenza delle
malattie cardiovascolari della provincia di Modena sia anche un inadeguato
controllo della pressione arteriosa.
Se
consideriamo che le donne ipertese presentano un’incidenza di malattie
cardiovascolari almeno 4 volte maggiori rispetto a quelle normotese, allora non
ci dobbiamo stupire che la spesa sanitaria che coinvolge l’ipertensione sia
strabiliante non solo negli Stati Uniti, dove i dati delle assicurazioni
riportano per il 1996 una spesa di 151 miliardi di dollari, ma anche per la
nostra realtà.
Considerando
la popolazione modenese si vede che il DRG “ipertensione”, ha visto la
Regione Emilia Romagna per tale patologia gravata nel 1996 da una spesa di oltre
4 miliardi; dunque si è speso di più solo per lo scompenso cardiaco, per lo
stripping della vena safena e per il by-pass aorto-coronarico. Inoltre dai dati
dell’AUSL si vede che i ricoveri per l’ipertensione riguardano maggiormente
gli uomini fino ai 39 anni e dopo i 40 anni maggiormente le donne.
Il
problema dell’ipertensione in post-menopausa non è sottovalutato solo dai
medici, ma anche dalle donne stesse che spesso non sospettano di poter essere
ipertese perché normotese o ipotese in età fertile. Nello studio SIMONA area
modenese su circa 600 donne residenti in provincia di Modena esaminate, il 37,5%
non sapeva di esserlo.
Nell’ambito
di una corretta prevenzione primaria è estremamente importante raccomandare
alle donne, soprattutto in post-menopausa, un controllo seriato della pressione
arteriosa e, in caso di riscontro di elevati valori pressori, controlli
ripetuti, modifica dello stile di vita, anche se non ne esistono sicure evidenze
di efficacia e infine un intervento farmacologico mirato anche se su questo non
esistono orientamenti omogenei perché non ci sono molti studi che abbiano
coinvolto le donne.
Considerando
i principali trials e privilegiando quelli randomizzati a lungo follow-up
con numerosità campionaria elevata (Australian Therapeutic Trial in Mild
Hypertension, European Working Party on High Blood Pressure in the Elderly trial
– EWPHE, Medical Research Council trial of Treatment of Hypertension in older
adults - MRC, Systolic Hypertension in Elderly Program – SHEP, Swedish Trial
in Old Patients - STOP, ecc…), esistono dati estremamente discordanti: alcuni riportano una
drastica riduzione di eventi soprattutto negli uomini, per altri non risultano
analisi di sottogruppi, altri ancora riportano dati equivalenti fra i due sessi.
Un
altro aspetto forte, parlando di rischio e prevenzione nella donna, è il
diabete mellito, che, come noto, rimuove o annulla tutte le differenze legate al
sesso nella prevalenza di CI, quindi già in pre-menopausa, ed è un fattore di
rischio indipendente di coronaropatia estremamente potente. Infatti nei pochi
studi epidemiologici a disposizione, il rischio relativo di morte e di eventi
cardiovascolari nei diabetici è maggiore nelle donne.
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3.
trattamento/farmaci
Ci si è, ovviamente, interrogati riguardo alle
possibili cause in grado di giustificare una così evidente differenza di genere
nella diagnosi e nel trattamento. Sicuramente la donna è penalizzata perché la
malattia è ad inizio più tardivo, pertanto si instaura sovente in condizioni
di più comorbidità e con una base istopatologica diversa, ossia di malattia
accelerata, con placche relativamente più giovani e che più facilmente vanno
incontro ad erosione piuttosto che
ad ulcerazione (Fig. 3). Già l’età più avanzata e le comorbidità fornivano
una ragione valida, ma non era tutto... Framingham mise in evidenza, come già
detto, una maggiore mortalità femminile nelle fasi precoci dell’infarto, ma
le ragioni di ciò sono state messe in evidenza solo recentemente: numerosi
studi indicano che le donne sono sottoposte in misura minore a trombolisi
rispetto ai maschi, e questa differenza rimane ancora significativa nonostante
correzione per età, fattori di rischio, presenza di dolore al ricovero, storia
di scompenso cardiaco, storia di angina o precedenti infarti miocardici trattati
con trombolisi. Lo ha dimostrato il GUSTO I, mentre Barron ha evidenziato che le
donne, giovani e con molteplici fattori di rischio, si presentano al Pronto
Soccorso di un ospedale con un ritardo di almeno 12 ore, dall’inizio dei
sintomi, rispetto al coetaneo di sesso maschile e Goldberg, in una pubblicazione
apparsa sull’American Heart Journal,
ha evidenziato un ulteriore ritardo nei confronti della donna sia nel ricevere
terapia trombolitica adeguata che nella possibilità di eseguire un semplice
elettrocardiogramma.
Dal
GUSTO II è emerso che le donne ricevono terapia trombolitica in misura minore
rispetto agli uomini e che la ragione principale di questo ritardo è il fatto
che presentano spesso un ridotto o assente sopraslivellamento del tratto ST,
anche in corso di infarto miocardico acuto. Infine, già nel 1996 Jackson
evidenziava che le donne, seppur eleggibili per la terapia trombolitica, spesso
non la ricevevano; il sesso femminile era il principale fattore che condizionava
ciò, seguito da età, presenza di comorbidità e di blocco di branca sinistra.
Una serie di studi ha poi messo in luce che anche altre categorie di farmaci
vengono prescritti in misura nettamente minore nel sesso femminile; così già
nel 1995 Krumholtz faceva notare il minor utilizzo dell’aspirina nella donna
che ha avuto un evento cardiovascolare maggiore.
Nel
1995 su Circulation veniva riportato
che l’aspirina veniva prescritta in misura significativamente minore nella
donna anziana rispetto all’uomo di pari età, mentre l’anno seguente si
leggeva su JAMA che anche le pazienti con angina instabile o infarto miocardico
acuto ricevevano terapia antiaggregante in misura inferiore rispetto ai pazienti
maschi, dato poi confermato nello studio di Shahar ancor più per le donne di
colore (Am Heart J 1996). Relativamente alla classe degli ACE-inibitori, due
studi, il GISSI e l’AIRE, in una popolazione di pazienti con infarto del
miocardio, hanno dimostrato un beneficio simile nei due sessi. A questi studi se
ne oppongono altri che mettono invece in un luce una riduzione della mortalità
solo nel sesso maschile (SAVE e ISIS-II); in realtà questi ultimi 2 trial non
avevano una numerosità campionaria sufficiente di donne. E si ricade nel
reiterativo problema dell’esclusione delle donne dai grandi trials.
Relativamente ai Beta-bloccanti, Soumerai nel 1997, riportava un minor utilizzo
di questa classe di farmaci nelle donne con infarto del miocardio, sia durante
ospedalizzazione che nell’immediato periodo post-dimissione, mentre Chandra,
in un interessante articolo apparso su Arch Int Med del 1998, evidenziava che le
donne sicuramente ricevevano in misura minore i Beta-bloccanti rispetto agli
uomini, ma che la percentuale di utilizzo era comunque assai bassa per entrambi
i sessi.
La
vera “Sindrome del sesso debole” consiste, in conclusione, in una serie di
eventi fisiologici e fisiopatologici, geneticamente controllati, che sposta
l’esordio della cardiopatia ischemica di 15-20 anni rispetto al maschio, come
per altro già evidenziato dallo Studio Framingham. L’età più avanzata e la
maggior presenza di patologie concomitanti rendono il quadro clinico e la
prognosi della coronaropatia acuta molto più severi rispetto al maschio, dato
che condiziona pesantemente le scelte terapeutiche del Cardiologo.
4. la diagnostica
Il dolore toracico rappresenta la manifestazione clinica più frequente dei pazienti affetti da CI, ma nella donna la corretta valutazione di questo sintomo si presenta assai problematica, e per diversi motivi.
Esiste, in particolare, un tipo di dolore toracico (che definiamo per l’appunto “tipico”) che tutti i sacri testi di medicina associano ad un’insufficienza coronarica. I ricercatori dello studio Coronary Artery Surgery Study (CASS) ne fornirono una perfetta descrizione (“substernal; characterized by a burning, heavy or squeezing feeling; precipitated by exertion or emotion; promptly relieved by rest or nitroglycerin”) utilizzandolo per caratterizzare quella “definite angina” (angina certa) che ci si aspettava doversi associare, sempre o quasi, a coronaropatia.
In realtà analizzando i risultati del CASS, si evince come questo dato risulti non realistico nelle pazienti; infatti solo nel 62% delle donne in cui era stata posta diagnosi di angina certa si riscontrava una coronaropatia angiograficamente evidente.
Questo dato pone una perplessità clinica a nostro avviso davvero importante, che si può esprimere nel concetto che quand’anche una paziente ci racconti un dolore “tipico” siamo certi, 4 volte su 10, di incorrere in un errore se diagnostichiamo una coronaropatia. Nel sesso maschile, al contrario, la presenza di un’angina certa si associava, sempre nello studio CASS, ad un riscontro di coronaropatia superiore all’80%.
Scopriamo dunque che l’angina “tipica” è più tipica nel maschio che nella femmina. E' pur vero che nelle femmine è molto più frequente l’angina microvascolare, che si accompagna a sostanziale integrità delle coronarie epicardiche, ma questo fenomeno non spiega, a nostro parere, il gap diagnostico sesso-correlato. Lo studio CASS definisce molto precisamente anche quello che si intende per “dolore atipico”: “located in the left chest, abdomen, back, or arm in the absence of mid-chest pain; sharp of fleeting, repeated, very prolonged, unrelated to exercise; not relieved by rest or nitroglycerin; relieved by antacids; characterized by palpitation without chest pain”. Il dolore che presenta le citate caratteristiche è significativamente più comune nel sesso femminile sia perché può rappresentare la manifestazione di una CI in questo sesso, ma anche perché alcune cause frequenti di toracoalgia (prolasso della mitrale; condrite costale, ecc..) sono effettivamente più comuni nelle femmine.
I dati fin qui esposti considerano le reali differenze sesso-specifiche circa la presentazione dell’evento acuto CI correlato; è anche importante però considerare come il dolore toracico è valutato dal cardiologo quando a raccontarlo è una donna. A questo proposito è interessante lo studio di Birdwell e coll. i quali sottoponevano a tre gruppi di cardiologi una paziente sofferente per frequenti episodi di dolore anginoso tipico: in realtà la paziente era un’attrice che recitava il medesimo copione atteggiandosi a donna in carriera dinanzi al primo gruppo di cardiologi, o a donna insicura ed impacciata dinanzi all’altro gruppo; il terzo campione di medici valutava la sintomatologia in forma scritta, senza cioè essere influenzato dalle caratteristiche della paziente. Veniva messo in evidenza come le indicazioni ad approfondire il caso con l’ausilio della coronarografia risultassero sensibilmente più elevate nel primo gruppo di cardiologi e in chi leggeva l’intervista, ciò ad indicare come lo stile di presentazione del sintomo sia in grado di influenzare profondamente il medico.
La mole di dati fin qui esposta indica chiaramente che il sintomo dolore toracico, valutato da solo, risulta di scarsissimo aiuto nel discriminare le pazienti coronaropatiche dalle altre. Oltre alla valutazione del dolore toracico bisogna quindi fare qualcosa di più, bisogna considerare la paziente nel suo contesto più generale, cercare di attribuirle una probabilità di malattia, bisogna cioè operare quello che gli statistici chiamano “stratificazione del rischio”. Solo in questo modo le caratteristiche del dolore ed i risultati dei test saranno giustamente interpretabili.
Un interessante tentativo di stratificazione del rischio di coronaropatia è stato pubblicato da Douglas e Ginsburg nel 1996. In questo famoso editoriale i due autori identificano tre classi di rischio (basso, moderato ed alto) in relazione alla presenza di vari fattori di rischio per coronaropatia.
Tali determinanti di rischio vengono suddivisi, a loro volta, in maggiori (angina tipica, stato post-menopausale non trattato con terapia ormonale sostitutiva, diabete mellito, arteriopatia ostruttiva periferica), intermedi (ipertensione, abitudine tabagica, dislipidemia) e minori (età maggiore di 65 anni, obesità, stile di vita sedentario, storia familiare di coronaropatia).
Nelle pazienti con dolore toracico e profilo di rischio basso (nessun determinante maggiore e £1 intermedio, o £2 minori) sarebbe sconsigliato qualsiasi test diagnostico, sia invasivo che non; il rischio di una risposta falsamente positiva sarebbe infatti enormemente più alto (>90%) della probabilità di avere una coronaropatia (<20%).
Nel caso il dolore toracico si associasse a rischio moderato (1 determinante maggiore o multipli intermedi e minori) o severo (³2 determinanti maggiori o 1 maggiore e multipli intermedi o minori), sarebbe consigliato un test preliminare (gli autori consigliano il classico test da sforzo o, in alternativa, l’ecocardiografia da sforzo), la cui negatività dovrebbe indurre il clinico a considerare il sintomo non di pertinenza coronarica; in caso di positività, al contrario si dovrebbe avviare la paziente alla coronarografia. I test di imaging, come l’eco-stress e la scintigrafia sarebbero destinati solo ai casi di dubbia interpretazione.
Un approccio così ben organizzato offre l’indubbio vantaggio di una facile applicabilità, ma con almeno una grossa riserva: il fatto che le popolazioni non sono tutte assimilabili a quella americana, e dunque sono diversi i fattori di rischio cui le pazienti sono sottoposte e dunque deve essere diverso il modo di stratificare il rischio.
Il nostro gruppo ha studiato 862 donne (età media 63±8 anni) ricoverate presso il Policlinico di Modena per un primo dolore toracico, in un periodo di tempo di 4 anni (dal 1992 al 1996). Questa popolazione è stata suddivisa in due gruppi: uno in cui è stata dimostrata angiograficamente una coronaropatia (Gruppo I; n=560) e l’altro in cui l’angiografia coronarica è risultata negativa per stenosi critiche (Gruppo II; n=302).
Tutte le pazienti hanno effettuato uno o più elettrocardiogrammi a 12 derivazioni durante "angor"; le caratteristiche del dolore sono state attentamente valutate e i fattori di rischio indagati attraverso un’accurata anamnesi. All’analisi univariata solo alcuni tra i presunti fattori di rischio indagati sono risultati significativamente correlati alla presenza di coronaropatia: un ECG positivo (evidenti segni di ischemia e/o lesione in almeno 2 derivazioni contigue) effettuato durante angor (p<0.0001); un’età >65 anni (p<0.0001), la presenza di diabete (p<0.001); una storia di ipertensione (p<0.001).
L’abitudine tabagica e l’ipercolesterolemia mostravano un trend deciso verso una significatività statistica, senza tuttavia raggiungerla. Non significativamente legati alla presenza di coronaropatia sono risultati: il dolore anginoso definito “tipico” secondo il CASS, la familiarità per malattie coronariche, la presenza di una arteriopatia ostruttiva periferica. L’analisi multivariata indicava come l’ECG positivo durante "angor" risultasse l’unico fattore predittivo indipendente di coronaropatia.
Tre fattori di rischio erano in grado di aumentare la penetranza diagnostica dell’ECG nei riguardi della coronaropatia: l’età >65 anni (x 4), il diabete (x 3,5), l’ipertensione (x 3,7); tali fattori però non erano da soli sufficienti a discriminare efficacemente le pazienti coronaropatiche rispetto alle altre. Tenendo in considerazione i nostri risultati, è ragionevole quindi considerare “maggiori” quei fattori di rischio quali l’età >65 anni (che l’esperienza americana identifica addirittura come minore), la presenza di diabete mellito e una storia di ipertensione (determinante intermedio nell’opinione della Douglas).
Non possiamo, al contrario, dare troppa importanza all’arteriopatia ostruttiva periferica (che viene considerato determinante “maggiore” dagli autori d’oltreoceano) né l’abitudine tabagica e l’ipercolesterolemia (considerati determinati intermedi). Alcune esperienze americane, in verità, suffragano i nostri dati: Seltzen e coll. non dimostrano un’associazione significativa tra fumo ed angina non complicata nella popolazione femminile di Framingham, e i pochi studi in cui sono state arruolate anche le donne dimostrano come l’ipercolesterolemia non sia così importante come nel sesso maschile, ed inoltre come la terapia con ipolipemizzanti non si dimostri particolarmente efficace nella riduzione degli eventi coronarici nel sesso femminile.
È’
noto come da sempre nel sesso femminile i test diagnostici non invasivi siano
provvisti di un’accuratezza inferiore rispetto al sesso maschile. Anche il
classico test da sforzo al cicloergometro o al tappeto rotante è gravato da una
scarsissima accuratezza nel sesso femminile.
Ogni
buon clinico sa come sia fallace fidarsi di un test positivo in una
donna, specialmente se ipertesa; alcuni autori hanno addirittura rilevato delle
differenti risposte dell’ECG sotto sforzo nelle medesime pazienti in relazione
alle varie fasi del ciclo mestruale. Ciononostante il test da sforzo continua a
rimanere il miglior test cui sottoporre le pazienti ad elevato rischio; in
questo caso infatti la percentuale di falsi positivi è estremamente scarsa ed
inoltre la negatività del test indica l’assenza di una coronaropatia (elevato
potere predittivo negativo). Ovviamente l’ECG deve essere correttamente
interpretabile ed il test deve essere massimale o comunque superiore al 90%
della frequenza teorica massimale per l’età. Recenti lavori indicano come
l’aggiunta ad un test da sforzo di una metodica di imaging migliori
enormemente la sensibilità e la specificità del test stesso. I tipi di imaging
che oggi vengono comunemente utilizzati nella diagnostica della cardiopatia
ischemica sono rappresentati dall’ecocardiografia e dalle indagini
scintigrafiche, che utilizzano il Tallio ed il Tecnezio-99m sestamibi come
marcatori di perfusione miocardica. A questi si associano poi, variamente, degli
stressors fisici o farmacologici. Oggi la gran parte degli studi suggeriscono
come l’ecocardiografia ed i test nucleari abbiano un’equivalente
accuratezza, generalmente superiore a quella del classico test da sforzo.
In
realtà ciò non si verifica quasi mai nella pratica clinica; quasi sempre
infatti la singola scuola acquista dimestichezza con un test diagnostico e
questo puntualmente diventa di riferimento in quella realtà. Citiamo, ad
esempio, la nostra esperienza su 200 soggetti (100 maschi e 100 femmine)
ricoverati consecutivamente per un primo episodio di dolore toracico nel nostro
istituto. Abbiamo in particolare valutato e confrontato i tre principali test
diagnostici non invasivi: il classico test da sforzo, l’eco- dobutamina e la
scintigrafia miocardica con Tallio; l’end-point era rappresentato dalla
individuazione della malattia coronarica multivasale.
Confrontando le due popolazioni, la sensibilità e la specificità dei 3 test è risultata, in generale, significativamente superiore nei maschi rispetto alle femmine. L’eco-dobutamina ha mostrato, nella nostra esperienza, una sensibilità ed una specificità statisticamente superiore rispetto agli altri due in ambedue le sub popolazioni, anche se i livelli di sensibilità (compresi tra il 65% del test da sforzo e il 67% dell’Eco-dobutamina) e di specificità (compresi tra il 58% del test da sforzo ed il 72% dell’Eco-dobutamina) si sono rilevati, in generale, inadeguati per porre una corretta diagnosi di malattia coronarica multivasale nel sesso femminile; ciononostante l’eco-dobutamina (che nel nostro ambulatorio rappresenta il test di riferimento) ha dimostrato sensibilità e specificità sempre significativamente superiori sia la test da sforzo che alla stessa scintigrafia.
In
base alla nostra esperienza, anche considerando le evidenti differenze nei
risultati dei vari studi su specifici test, riteniamo che la stratificazione del
rischio e dunque il vaglio della probabilità pre-test di malattia sia più
importante dello stesso test che si intende utilizzare. L’eccezione a questa
regola è rappresentata dall’ECG: un elettrocardiogramma obiettivamente
positivo durante angor, indipendentemente da altri riscontri, indirizza verso
uno studio coronarografico.
La possibilità pre-test di malattia può essere evinta dalla presenza dei vari determinanti di rischio che possiamo dividere, in base alla nostra esperienza, in maggiori e minori. I primi sono rappresentati dalla presenza di diabete, da una storia di ipertensione e dall’età se maggiore di 65 anni; consideriamo minori l’ipercolesterolemia e l’abitudine tabagica.
Grande
importanza viene data al test da sforzo classico, a patto che questo risulti
facilmente interpretabile, cioè senza grossi elementi di dubbio e massimale o
submassimale: la negatività di un test di questo tipo orienta per una genesi
non coronarica dei disturbi; la positività verso la coronarografica se la
probabilità pre-test è moderata o elevata. Se il test da sforzo non è
eseguibile per impedimento fisico (fenomeno molto frequente nella popolazione
femminile di una certa età) o l’ECG non ben interpretabile, c’è bisogno di
un test di imaging; anche in questo
caso è conveniente effettuare un’ulteriore stratificazione: se vi è una
probabilità pre-test elevata, è opportuno orientarsi
verso un test ad elevata
specificità, per esempio l’eco-stress; mentre se la probabilità pre-test è
più bassa è conveniente prediligere, al contrario, un test a più elevata
sensibilità, come la scintigrafia miocardica (nella Tabella I si descrive la
nostra proposta di algoritmo per la diagnosi di cardiopatia ischemica nella
donna).
Tabella
I: proposta
operativa per la diagnosi di coronaropatia nella donna
Probabilità
pre-test di malattia |
Fattori
di rischio |
TEST |
BASSA
|
NESSUNO |
NESSUNO |
Probabilità pre-test di malattia |
ALTA |
||
Fattori di rischio |
Più di un
fattore di rischio maggiore e presenza di 1 o 2 fattori minori |
||
TEST |
ECG interpretabile, sforzo fattibile èTest da sforzo classicoè
ECG non interpretabile, sforzo fattibile è Eco da sforzo è ECG
non interpretabile, sforzo non fattibileèEco-stress con dobutamina |
è positivo ècoronarografia ènegativo è osservazione èdubbio è eco-stress con dobutamina ò è positivo ècoronarografia
ènegativo èosservazione |
|
|
|
|
|
Probabilità
pre-test di malattia |
Fattori
di rischio |
TEST |
INTERMEDIA |
Max 1 fattore di rischio maggiore Assenza o max 1 fattore minore |
Come sopra: si può sostituire la scintigrafia miocardica all’eco-dobutamina |
5.
la
prevenzione
Nel
1998, durante un incontro di un panel di esperti, rappresentanti delle 3 più importanti
società cardiologiche mondiali (l'American Heart Association,
l'American College of Cardiology e la Canadian Cardiovascular Society),
sono state stese delle linee guida per affrontare il problema della prevenzione
delle cardiopatie nella donna. Gli esperti hanno preso inizialmente coscienza
del fatto che le malattie cardiovascolari rappresentano ancora una vera e
propria piaga nel mondo occidentale incidendo come prima causa di morte nel
sesso femminile, ma che le stesse malattie cardiovascolari possono essere
prevenute con una serie di atteggiamenti che devono essere ovviamente divulgati
e promossi dalla classe medica in generale e dai cardiologi in particolare. Si
ravvisa per prima cosa l’esigenza di annullare il muro che suddivide
classicamente la prevenzione primaria (agire prima che la malattia si manifesti)
da quella secondaria (agire perché l’evento che si è già manifestato non si
ripresenti); questi concetti, per quel che riguarda la CI nella donna, sono non
più attuali. La CI può essere infatti considerata come un “continuum”
fisiopatologico costellato di eventi che si susseguono; le prime manifestazioni
di questa patologia, specialmente nelle donne, sono spesso fatali. È
inopportuno dunque attendere l’evento prima di agire ma, piuttosto,
intervenire il più precocemente possibile, con presidi sicuramente efficaci, in
maniera “aggressiva” (gli autori americani definiscono questa strategia “aggressive risk factor management” che sarebbe giustificata, a loro modo di vedere,
da un efficace prevenzione degli eventi cardiovascolari futuri). Ma, guardando i
dati di casa nostra, riportati dall’Osservatorio Epidemiologico Nazionale, ci
accorgiamo di allarmanti condizioni di crescita dei principali fattori di
rischio nelle donne in menopausa e post-menopausa. La prevalenza di ipertensione
varia dal 37 al 42% con un picco al sud Italia, quella dell’obesità varia dal
18% fino al 40% nel meridione, quella del diabete, ancora maggiore nel sud della
penisola, varia dal 5.9 al 12.8%. La prevalenza di ipercolesterolemia è invece
maggiore al nord Italia, con una percentuale che varia dal 33 al 37%.
La
ricetta di “aggressive risk factors management”
si prospetta pertanto utile anche per il nostro Paese e non può prescindere dal
“trattamento intensivo” dei 3 fattori di rischio principali: diabete,
ipertensione, ipercolesterolemia. Secondo alcune “raccomandazioni”
l’ottimale controllo di queste 3 condizioni può evitare dal 70 al 90% degli
eventi coronarici nel tempo. Il rimanente 10-30% di riduzione del rischio può
verificarsi controllando l’obesità e smettendo di fumare. Infine alcune
considerazioni vanno fatte sul tema tanto controverso della terapia ormonale
sostitutiva (TOS) introdotta e consigliata a tappeto, dai Ginecologi, come
panacea di tutti i mali ed “elisir” di lunga vita.
Durante
gli anni 80 e per tutta la metà degli anni 90, le riviste cardiologiche
risultavano impregnate da una serie innumerevole di lavori nei quali venivano
elencati i prodigi degli estrogeni nel senso delle protezione cardiovascolare.
Tra i primi vogliamo citare lo storico Nurses’ Health Study,
un titanico studio che ha dimostrato benefici oltremodo significativi: una
riduzione del rischio di morte per tutte le cause nelle pazienti in trattamento
con TOS e, in diverse pubblicazioni un
inquietante incremento di cancro al seno.
I
più importanti tra gli altri studi prospettici osservazionali che mettevano in
evidenza notevoli benefici legati all’assunzione di estrogeni ci sembrano il Lipid Research Clinical Program Follow-up Study, l’Henderson Study, il
British Cohort Study, lo Swedish Cohort Study e l’Atherosclerosis Risk
in Communities
Study.
I
sostenitori della TOS in verità potevano contare, oltre che sugli studi
osservazionali, anche su varie metanalisi, come quella di Stampfer e Colditz e
quella di Grady e Coll, e su almeno uno studio randomizzato con ampia numerosità
campionaria: il trial Postmenopausal estrogen-Progestin Interventions
(PEPI). Questo studio presentava l’indubbio vantaggio del disegno randomizzato
ma lo svantaggio di avere degli end-point per così dire “surrogati”,
rappresentati cioè dai fattori di rischio (colesterolemia totale e frazionata,
trigliceridemia, fibrinogenemia, ecc…) e non dagli eventi morbosi e mortali.
Comunque, attraverso questa fatica, si è potuto dimostrare la validità degli
estrogeni (sia opposti che non opposti dal progestinico) nel modificare i
fattori di rischio in senso decisamente antiaterogeno (riduzione significativa
del colesterolo totale e di quello LDL, aumento significativo del colesterolo
HDL, riduzione della fibrinogenemia).
È
improvvisa, nel 1997, la grande smentita. Vengono infatti pubblicate una
metanalisi ed uno studio caso-controllo di ampie dimensioni che non confermavano
l’ipotesi di un ruolo protettivo della TOS nei confronti degli eventi
cardiovascolari. A dimostrazione di ciò e non tenendo assolutamente conto delle
aspettative, nell’agosto del 1998, si presenta l’HERS (Heart and Estrogen/progestin Replacement)
che, stoppato prematuramente senza spiegazioni, non ha dimostrato alcun effetto
positivo degli estrogeni sugli eventi cardiovascolari ed è stato
l’equivalente di una doccia fredda!
“Non
iniziare né interrompere” è stato l’aforisma con il quale, dopo l’HERS,
si è voluto sintetizzare l’atteggiamento che il clinico dovrebbe tenere nei
confronti della TOS trattando pazienti nelle quali si è già concretizzato un
evento legato alla coronaropatia.
Per
il futuro si può ragionevolmente ipotizzare che fintanto la cardiopatia
ischemica rimarrà la prima causa di eventi morbosi e mortali, avremmo delle
Linee-guida sempre più aggressive, miranti a controllare sempre più
strettamente i fattori di rischio. In quest’ottica un ruolo ancora chiave
gioca, a nostro parere, la TOS; essa probabilmente cesserà di rappresentare la
panacea di tutti i mali (come probabilmente era considerata nell’immaginario
di molti medici) e ne verrà promosso, finalmente, un uso più mirato.
Recentemente
va segnalato, ad opera di un noto epidemiologo italiano, Salvatore Panico, uno
studio di proiezione sul rapporto uso della TOS e aspettativa di vita in diverse
popolazioni Europee e nordamericane. Da quest’analisi, a tipo simulazione a 20
anni, emergerebbe che l’effetto a lungo termine varia a seconda delle nazioni;
in alcune, come Italia, Francia e Spagna, in cui si ha un trend in ascesa del
cancro della mammella, l’utilizzo della TOS avrebbe un effetto deleterio. In
nazioni invece, come Finlandia, Ungheria e Regno Unito, in cui è elevata la
mortalità per cardiopatia ischemica, ci si aspetterebbe un miglior rapporto
rischio/beneficio da TOS.
Se dovessimo proporre delle Linee Guida in merito,
cosa che non ci sembra ancora possibile per l’inconsistenza dei dati
disponibili, potremmo suggerire quanto segue, che rappresenta la linea di
comportamento del nostro Gruppo:
1.
La prevenzione primaria rimane la “naturale” applicazione della TOS e
andrebbe iniziata il più precocemente possibile in donne con gravi sintomi
climaterici che compromettono la qualità di vita e in donne con molteplici
fattori di rischio. Vogliamo segnalare in particolare l’ipertensione con
ipertrofia ventricolare sinistra in cui vi sono evidenze che gli estrogeni
possano facilitare la riduzione della massa ventricolare sinistra.
2.
Scarse le applicazioni in prevenzione secondaria, ma né in donne anziane
né a breve termine dopo un evento coronarico acuto. È invece proponibile in
pazienti dislipidemiche quando la terapia con statine non è sufficiente o è
mal tollerata. Infine non c’è, a nostro parere, motivo di sospendere la TOS
in pazienti che abbiano avuto un evento coronarico ma che siano già in terapia
con estrogeni.
Concluderei
con il commento di David J Harui e Pamela S. Douglas, comparso sul n° 7, Agosto
2000, del NEJM, secondo cui: per capire meglio la storia, la diagnosi e
l’impatto prognostico-terapeutico della cardiopatia cardiovascolare nella
donna, occorre aumentare il numero di donne nei trials clinici, ma occorre
anche, quando si effettuano i cosiddetti “single-sex trials”
includere un’adeguata rappresentanza di donne di diverse razze ed etnie, per
cercare di rispondere al maggior numero di quesiti ancora irrisolti.
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