Giuseppina Boidi
Primario
del Dipartimento di Salute Mentale dell'USL 3 Genova
Sappiamo
che i disturbi mentali si manifestano con modalità diversa nei due sessi per
quanto riguarda la frequenza, i fattori di rischio, il decorso, la
sintomatologia ed il ricorso al trattamento.
Per questo motivo è fondamentale mettere in luce
le differenze, allo scopo di sviluppare politiche sanitarie sensibili e
programmare specifiche linee di condotta dal punto di vista del trattamento e
dell’organizzazione dei servizi.
Alcuni
disturbi, in particolare quelli dello spettro ansioso-depressivo e i disturbi
del comportamento alimentare, sono molto più rappresentati nelle donne.
Tener
conto del punto di vista del genere è comunque opportuno, anche per le malattie
mentali gravi come la schizofrenia in cui non vi sono macroscopiche differenze
nell’espressione del disturbo o addirittura viene riportato in letteratura un
più favorevole andamento nelle donne.
In
questi casi, modelli sperimentali di malattia costruiti prevalentemente su
profili maschili rischiano di sottovalutare specifici fattori di rischio o di
protezione e di attuare trattamenti meno efficaci.
Ci
è sembrato utile presentare i dati relativi alla schizofrenia, per mettere in luce gli effetti della scarsa
considerazione dei profili di malattia specifici per il genere.
L’esperienza
clinica ci ricorda che le donne tendono a sperimentare forme di schizofrenia
meno gravi e disabilitanti dei maschi.
Solo nella
letteratura più recente però, sono presenti riferimenti più specifici alle
differenze di genere sia per quanto riguarda la sintomatologia e l’andamento
del disturbo sia per quanto riguarda le modalità assistenziali..
Va peraltro
precisato che per un disturbo considerato tra i più gravi ed invalidanti ed
oggetto di numerosissime ricerche, le variabili correlate al sesso non vengono
sistematicamente esplorate. Infatti:
1) Il campione reclutato è prevalentemente
maschile. Nella
gran parte delle ricerche sulla schizofrenia la percentuale dei maschi reclutati
è sensibilmente più alta, sino a
cinque volte ad uno. Le procedure di selezione per diverse ragioni privilegiano
i maschi (reclutamento ospedaliero, esclusione delle donne dai protocolli
farmacologici per le fluttuazioni ormonali legate al ciclo riproduttivo, forme
di schizofrenia femminile con sintomi sottosoglia per i criteri diagnostici più
selettivi, limitazione del campione a pazienti più giovani) e quindi
il profilo di malattia su cui sono costruite le ipotesi di ricerca e che serve
da indicazione per le linee guida di trattamento è prevalentemente legato alle
caratteristiche della popolazione maschile.
2)
Non vengono fatte correlazioni tra variabili di esito e sesso. Nella
quasi totalità della produzione scientifica anche se il campione viene
suddiviso per sesso, le variabili che possono influenzare la risposta al
trattamento, il decorso e l’esito, sono testate sull’insieme dei casi del
campione.
3)
Le differenze significative fra i due sessi sono state evidenziate solo da
alcune ricerche
che in modo esplicito hanno individuato l’espressività della malattia nei
maschi e nelle femmine. Da una decina d’anni alcuni ricercatori, soprattutto
inglesi e scandinavi, hanno cominciato a intraprendere studi basati sul genere.
In nessuno degli stessi si afferma che donne e uomini sperimentino forme diverse
di malattia, piuttosto si pone l’accento sulla prevalenza di sottotipi nei due
sessi e su rilevanti differenze nelle alcune aree.
Per
quanto riguarda l’incidenza, studi
recenti rilevano un tasso maggiore nei maschi, secondo alcuni autori sino a 2 a
1
E’
possibile che i dati riflettano una maggior tendenza a entrare in contatto con i
servizi psichiatrici da parte dei maschi, data la maggiore gravità del quadro
clinico, soprattutto a livello comportamentale.
In molti casi
la schizofrenia femminile, presentando condotte adattative più consone al ruolo
tradizionale (ritiro, passività), rischia di essere sottodiagnosticata.
Il
dato più confermato riguarda l’età di
esordio.
Pur non
essendo facile stabilire l’esatto esordio, perché i sintomi sono insidiosi e
devono essere giudicati retrospettivamente, tutte le ricerche confermano un
esordio più tardivo nelle donne dell’ordine di cinque anni con picco maschile
tra i 18 e i 25 anni e duplice picco femminile tra i 25-35 e tra i 44 e i 55
anni.
Secondo
alcuni il disturbo schizofrenico sarebbe diagnosticato prima nei maschi a causa
della maggiore aggressività.
E’
anche possibile che vi sia una maggiore tolleranza per le donne affette da
schizofrenia, per cui le famiglie ricorrerebbero più tardi ai servizi
specialistici.
Un dato
ampiamente confermato è che il 50-60% dei maschi, ma solo il 20-30% delle
femmine, hanno la loro prima ammissione in ospedale intorno ai 25 anni.
Questo
andamento si mantiene in diverse culture e con differenti sistemi diagnostici.
Per
quanto riguarda il decorso e l’esito,
si evidenzia che a diverse fasi di
follow-up l’esito è migliore per le donne sia considerando misure
cliniche quali tempo di ospedalizzazione e ricadute sia fattori come adattamento
sociale, stato occupazionale e matrimonio.
Mentre
i maschi in un numero relativamente alto si avvalgono di strutture residenziali,
è più facile che le donne vivano con famiglia propria o con parenti. Va
ricordato che questa differenza sembra attenuarsi sul lunghissimo periodo, come
si è visto nelle ricerche con follow-up
di 20 anni ed oltre.
Il suicidio
è più frequente nei maschi (6 a 1) cosi come gli atti di violenza che portano
a provvedimenti giudiziari. Tuttavia le donne hanno un tasso di mortalità più
alto.
Sebbene
le donne abbiano un esito migliore, bisogna ricordare che quando questo non
avviene, esse tendono a stare peggio rispetto ai maschi a parità di altre
condizioni.
Maggiori
stress sociali come l’essere homeless,
povere e a rischio di abusi fisici e sessuali crea una qualità di vita molto
povera nelle donne con psicosi cronica.
Il funzionamento premorboso è peggiore nei maschi, con maggior
numero di deficit intellettivi e sociali e progressivo declino (in un quinto dei
casi ad esordio infantile).
Le
donne raggiungono, dato l’esordio tardivo, un più appropriato sviluppo
psicologico e sociale, considerato di per se un indice prognostico favorevole.
Hanno più alta probabilità di avere una relazione affettiva significativa,
maggiore autonomia rispetto alla famiglia di origine, minor isolamento.
La sintomatologia mostra pure
alcune differenze interessanti. E’ più frequente che i maschi tendano ad
avere sintomi negativi e deficitari con ritiro sociale e appiattimento affettivo
mentre le donne più facilmente mostrano sintomi affettivi come ansia,
depressione, disforia, esplosività con tratti paranoidi.
I maschi sono
più a rischio per abuso di sostanze e comportamenti antisociali.
Alcuni autori
presuppongono tre sottotipi di schizofrenia, con una forma quasi esclusivamente
maschile caratterizzata da esordio precoce, complicazioni ostetriche, nascita in
inverno, sintomi negativi; una forma paranoide con uguale distribuzione fra i
sessi ed una forma schizoaffettiva quasi esclusivamente femminile.
Maschi e
femmine hanno gradi diversi di rischio genetico con maggior familiarità nelle donne (5%
verso2 %).Questo dato viene interpretato supponendo l’esistenza di forme
gravi, non legate a rischio genetico, a predominanza maschile.
La risposta ai farmaci
è migliore nella donna con minor
incidenza di distonia e acatisia, ma maggiore incidenza di discinesia tardiva
soprattutto dopo la menopausa. Le donne rispondono a dosi minori di neurolettici
che hanno una maggior durata d’azione per l’effetto deposito nel grasso
corporeo con conseguente protezione verso le ricadute.
Dopo la
menopausa, le donne richiedono più alte dosi di neurolettici.
Le attitudini dei familiari mostrano nei due sessi significative
differenze. Le famiglie si comportano in modo diverso con i figli ammalati
secondo modalità legate più al genere che alla malattia. Le pressioni
culturali e sociali verso i maschi sono più alte e le aspettative che li
riguardano sono meno realistiche.
L’esordio
precoce determina maggiore stress perché le famiglie si colpevolizzano di più,
non potendo attribuire la causa della malattia a fattori esterni, come accade
invece nel caso delle figlie che ammalando più tardi, hanno già sperimentato
rapporti esterni alla famiglia.
E’
stata trovata maggior incidenza di fattori che aumentano le tensioni familiari
nelle famiglie con figli maschi probabilmente in conseguenza dell’aggressività
maschile e del peso di comportamenti di ritiro sociale.
La compliance
al trattamento nelle donne è migliore.
Come abbiamo
già ricordato, sia per l’esordio tardivo, sia perché i sintomi precoci sono
meno severi, sia perché le famiglie tollerano più facilmente nelle figlie il
progressivo ritiro sociale, le donne giungono molto tardi all’osservazione;
cercano più facilmente aiuto spontaneamente e collaborano meglio ai programmi
di trattamento.
Dall’analisi
di questi dati ricaviamo che la prognosi
in generale è peggiore per i maschi e che la differenza tra i sessi è
rilevante soprattutto per quanto riguarda le relazioni interpersonali e la
competenza sociale.
La richiesta di intervento psichiatrico, vede una più alta percentuale di
maschi al primo contatto con i servizi, soprattutto ospedalieri, sicuramente per
la maggiore frequenza di comportamenti aggressivi.
La risposta dei servizi di cura è diversa nei due
sessi. Studi su pazienti lungo
assistiti mettono in evidenza che le donne sono meno rappresentate nei programmi
di cura intensiva mirati al recupero delle competenze sociali.
E’ meno
facile che le donne ricevano trattamenti riabilitativi e psicologici mentre
tendono ad avere maggior supporto assistenziale.
Sono meno
avviate a programmi di training educativo ed occupazionale e meno rappresentate
negli inserimenti lavorativi (d’altra parte basti pensare che negli studi di
esito lo stato di casalinga nelle donne è equiparato a quello di lavoratore).
Probabilmente
perché le donne hanno meno disturbi della condotta, ricevono meno tempo di
trattamento (in alcune ricerche da metà ad un terzo rispetto ai maschi).
Non si tiene
conto del peso dei compiti domestici, per cui non sono quasi mai previsti
specifici programmi di sostegno.
2)
Bias legati ai criteri diagnostici.
Vi è evidenza che è più facile che i maschi ricevano una diagnosi di
schizofrenia quando sono usati criteri restrittivi, che non valutano alcuni
sintomi sottosoglia più frequenti nelle forme femminili.
3.
ipotesi esplicative
Occorre
premettere che nessun fattore tra quelli presi in esame può essere considerato
isolatamente, ma può agire come elemento di protezione o rischio in una
malattia con eziologia e decorso multideterminati.
La
principale differenza tra i sessi è che i maschi ammalano prima. Ne segue che
l’età d’esordio è il principale dei fattori che influenzano il decorso e
l’esito.
Ci
si chiede se le forme di schizofrenia che colpiscono uomini e donne siano la
stessa malattia con diversa età di esordio o rappresentino sottotipi diversi.
I risultati
degli studi hanno stimolato la ricerca sulla presenza di specifici fattori di
rischio, biologici e ambientali.
Fattori
biologici
1) fattori legati allo sviluppo cerebrale.
Questa
ipotesi, sulla base del fatto che i maschi tendono a manifestare una forma più
severa di malattia, caratterizzata da esordio precoce, funzionamento premorboso
deficitario con problemi emotivi nell’infanzia, sintomi negativi, esito
sfavorevole e alto numero di complicanze ostetriche perinatali, prevede una
maggior suscettibilità maschile ai disordini dello sviluppo cerebrale.
Questo
avverrebbe per la minor maturazione e mielinizzazione del cervello dei maschi al
momento della nascita per interferenza del testosterone prenatale e per la minor
capacità dei maschi a compensare lesioni unilaterali.
2) fattori endocrini. Si
riferiscono al duplice effetto protettivo degli estrogeni:
§
Organizzativo,
i cui effetti avvengono nella vita fetale e lasciano un’impronta sullo
sviluppo cerebrale nel favorire precoci connessioni sinaptiche.
§
Attivante,
i cui effetti sono diretta conseguenza degli ormoni circolanti.
Viene
ipotizzato un effetto protettivo degli estrogeni grazie all’attività simil
neurolettica di aumento della densità dei recettori dopaminergici.
E’
descritta, infatti, un’esacerbazione dei sintomi nella donna in fase
premestruale, nel post partum e in menopausa.
Questo
spiegherebbe la miglior risposta delle donne a basse dosi di farmaci.
I
cambiamenti nei livelli ormonali durante il ciclo mestruale porterebbero a
labilità affettiva e colorirebbero il quadro della malattia con più sintomi
dell’umore e paranoidi.
Le
teorie ambientali suggeriscono che determinanti sociali, familiari e culturali
esterni all’individuo plasmino l’espressione della malattia. I maschi sono
soggetti a più alte aspettative e tendono a sopprimere segni di debolezza e
sfiducia; negli stessi il picco di malattia nella prima adolescenza coincide con
il periodo di maggiori pressioni sociali e l’irrompere di una sintomatologia
con effetti devastanti nella biografia costituisce un forte impedimento allo
sviluppo psicosociale. I loro trattamenti contrastano con influenze culturali
che scoraggiano la dipendenza e l’espressione verbale delle emozioni.
La
donna si ammala di più in coincidenza di tappe biologiche che rappresentano
anche momenti di rimodellamento del ruolo sociale (matrimonio, maternità).
Mantiene in parte, anche se malata, il proprio ruolo di moglie e di madre o il
lavoro di casalinga, con il vantaggio di un minor scarto tra gli obiettivi
personali e il livello di funzionamento psicosociale.
La
maggiore ospedalizzazione maschile ha l’effetto di indebolire i legami e le
competenze sociali e questo può costituire ulteriore fattore di indebolimento
dell’autostima.
Nell’uomo
più spesso che nella donna la malattia sembra minacciare le abilità a
fronteggiare le richieste che provengono dall’ambiente esterno.
Si
è notata una differenza riguardo ai processi che influenzano l’ingresso nel
sistema di cura, dove per i maschi spesso l’ospedalizzazione è il primo
contatto con il trattamento, mentre la donna cerca più facilmente aiuto
spontaneamente.
Nonostante quanto descritto, l’importanza delle variabili legate al
genere non trova rappresentatività sia nelle sperimentazioni sui farmaci, sia
negli studi su decorso ed esito, sia nella manualistica e nella letteratura
sull’organizzazione dei servizi.
Riassumiamo
i principali problemi che scaturiscono dalla mancata assunzione di una
prospettiva di genere:
1)
Il
fatto che le donne siano poco rappresentate nei trials clinici o farmacologici impedisce
di mettere in evidenza le specificità della malattia e le differenze nella
risposta al trattamento.
2)
Il
fatto che i criteri di reclutamento del campione di ricerca spesso limitino a 45
anni l’età del campione osservato,
esclude le forme femminili di frequente comparsa dopo tale limite di età.
3)
Il
fatto che le donne prendano contatto con i servizi specialistici spesso molti
anni dopo l’esordio implica un ritardato accesso al
trattamento.
4)
Il
fatto che non si tenga conto della diversa risposta ai farmaci, si
accompagna al rischio che dosi inappropriate favoriscano gravi sintomi
collaterali quali le disregolazioni endocrine e le discinesie tardive.
5)
Il
fatto della minor offerta di trattamenti mirati alla riabilitazione, implica
una bassa aspettativa degli operatori rispetto alle possibilità di migliorare
competenze sociali ai fini di un aumento dell’autostima. Ricordiamo che in
molte ricerche l’aspettativa degli operatori viene considerata una variabile
prognostica importante. Il ruolo di moglie, madre e casalinga sembra costituire
di per se un sufficiente traguardo per le donne ammalate.
6)
Il
fatto che le donne schizofreniche siano in un terzo dei casi mogli e madri non
sembra rappresentare uno specifico fattore di vulnerabilità per gli operatori,
che raramente predispongono programmi per aiutare le donne nei compiti
familiari.
7)
Il
fatto di non predisporre politiche di assistenza post partum per donne a
rischio, influenza la futura relazione madre
bambino.
8)
Il
fatto che siano state osservate esacerbazioni in relazione a diversi momenti del
ciclo mestruale, implica di tener conto della
correlazione tra clinica e fasi del ciclo mestruale.
9)
Il
fatto che i maschi presentino una forma più grave a prevalenti sintomi negativi
ha orientato la ricerca verso trattamenti
farmacologici e riabilitativi meno rispondenti alle esigenze della popolazione
femminile
Mettere a fuoco le diverse caratteristiche e i problemi di una mancata
prospettiva di genere significa anche e soprattutto riflettere sulle ricadute in
termini di pianificazione di servizi, organizzazione di modelli di intervento,
adozione di specifiche linee guida per il trattamento.
Per
poter formulare ipotesi migliorative dobbiamo premettere che dal punto di vista
metodologico è essenziale studiare il peso delle diverse variabili biologiche
psicologiche e sociali in una prospettiva integrata.
Riteniamo
utile integrare le attuali Linee guida del trattamento della schizofrenia con le
seguenti proposte:
1)
Considerare
significativi solamente i risultati delle ricerche le utilizzino campioni
caso-controllo che reclutino pazienti dei due sessi e che correlino le diverse
variabili al campione diviso per sesso.
2)
Adottare
politiche di prevenzione che promuovano uno specifico addestramento degli
operatori della primary care al
riconoscimento delle differenze di presentazione del disturbo nei due sessi.
3)
Predisporre
protocolli di trattamento farmacologico specifici per sesso. Infatti, tenendo
conto di rilevanti differenze nella farmacodinamica e della differenza di peso,
non dovrebbero essere usati gli stessi dosaggi di farmaci. Occorre considerare
che, se i farmaci antipsicotici vengono usati ad alti dosaggi, viene perso nelle
donne il ruolo protettivo degli estrogeni. Occorre differenziare il disaggio in
relazione al ciclo riproduttivo aumentando il dosaggio dei farmaci neurolettici
dopo la menopausa. La maggiore presenza di sintomi della sfera affettiva nelle
donne, consiglia l’uso di stabilizzanti dell’umore.
4)
Predisporre
linee guida per il trattamento integrato, farmacologico, psicologico e
riabilitativo, che incontrino i bisogni di donne schizofreniche. I programmi di
riabilitazione dovrebbero focalizzarsi sulle specifiche difficoltà di donne
che, ancorché malate, potrebbero essere le principali figure di supporto delle
proprie famiglie. In questo caso, i permessi del fine settimana durante le
ospedalizzazioni potrebbero significare un carico di compiti ed impegni per la
casa ed i figli su una persona che non è ancora in grado di sopportarli. Il
riconoscimento che, dopo un episodio psicotico, la gestione delle attività
domestiche può essere più gravosa che ritornare ad un lavoro retribuito,
potrebbe aiutare donne impegnate in entrambi i compiti. I trattamenti devono
prevedere uguali opportunità per uomini e donne di inserimento lavorativo e di
gestione del tempo libero.
5)
Predisporre
specifici programmi per proteggere il periodo del post
partum e le donne madri. Poiché la schizofrenia tende a svilupparsi tra i
25 e 30 anni, circa un terzo delle donne che si ammalano hanno già almeno un
figlio. In passato, i figli delle madri schizofreniche erano di solito inseriti
in istituti ed esposti a numerosi spostamenti con gravi ripercussioni sulla loro
vita emotiva. Ai nostri giorni, circa i due terzi dei figli rimangono a casa,
spesso accuditi dai padri mentre le madri sono ospedalizzate. Alcuni di questi
bambini sembrano non avere serie conseguenze psicologiche, ma dobbiamo tener
presente che alcuni sintomi psicotici mettono i bambini a rischio di isolamento
ed esposti a situazioni di sofferenza. L’esperienza ci ricorda che le donne
schizofreniche che sono madri, hanno un grande timore di perdere l’affidamento
dei figli, sia temporaneamente durante un ricovero ospedaliero, sia
permanentemente se vengono ritenute incapaci di assicurare ai figli una
sufficiente assistenza. Dopo un episodio acuto, per questo motivo le donne
esitano a chiedere aiuto nell’accudimento dei figli. Deve quindi essere
previsto uno speciale supporto alla madre sia sotto forma di aiuto domestico sia
sotto forma di sostegno emotivo al ruolo parentale.
Nonostante
il crescente contributo di studi genere specifici, numerosi rimangono i problemi
da indagare:
§
Problemi
relativi alla diagnosi con correzione dei criteri
diagnostici troppo restrittivi che non colgono sintomi più sfumati, più
frequenti nel sesso femminile.
§
Problemi
relativi alla individuazione dei fattori che influenzano decorso ed esito. Gli
studi si basano su disegni naturalistici e non tengono conto del tipo di
trattamento ricevuto. Vi deve essere un maggior numero di studi caso-controllo
che valuta la specifica risposta di uomini e donne al trattamento.
§
Problemi
relativi all’uso di strumenti per valutare adattamento sociale e bisogni
non corrisposti. La maggior parte
degli strumenti non sono stati messi a punto per esaminare la relazione tra
genere e altri fattori significativi e quindi evidenziare differenze
genere-specifiche; non sono in grado di cogliere bisogni specifici per maschi o
femmine con schizofrenia, per pianificare interventi genere specifici e valutare
i servizi psichiatrici secondo la corrispondenza dei bisogni dei pazienti.
Occorre conoscere meglio come differiscono le vite dei pazienti con
schizofrenia. Ci si aspetta che le ricerche identifichino specifici fattori di
rischio legati ad esiti sfavorevoli clinici e sociali nei pazienti dei due
sessi. Questo permetterebbe di valutare programmi di intervento che tengono
conto di bisogni genere- specifici.
§
Problemi
legati ad un approccio riduzionistico. La ricerca
sulla schizofrenia ha dato una crescente attenzione ai fattori genetici e
ormonali. Vi è il pericolo che un'eccessiva enfasi biologica limiti il campo
della ricerca che deve invece coprire tutti i settori e investigare fattori
genetici, ormonali, ambientali ed i dati epidemiologici all’interno di un
modello multifattoriale.
La
necessita' di questi ulteriori approfondimenti non ci esime dal chiederci che
cosa possiamo fare da subito per
migliorare l'appropriatezza dei trattamenti rispetto al genere.
La
prima cosa è probabilmente quella di far conoscere a tutti gli operatori queste
problematiche così scarsamente rappresentate nella trattatistica e nella
manualistica del settore psichiatrico.
La
consapevolezza che la conoscenza che abbiamo delle patologie psichiatriche e che
le linee guida per i trattamenti spesso prescindono dalle problematiche di
genere può renderci più attenti ad individualizzare i nostri programmi
terapeutici considerando anche questa importante variabile.
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