Resp.: dr. E. Reale
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Cosa le donne devono sapere o possono fare: indicazioni per tenere il rischio depressione "sotto controllo" |
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PARLIAMO DELLA RELAZIONE CON IL PARTNER
La diagnostica della relazione con il partner
E ORA PARLIAMO DELLA MATERNITA'
La condizione stressante della maternità
Cosa
fare se si è madri di figli adolescenti?
E ORA PARLIAMO DEL LAVORO PROFESSIONALE
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Parliamo prima della relazione con il partner e dei rischi collegati di depressione
Entrare nella relazione con un partner è rischioso se siamo disposte a tutto per mantenere la relazione: se mettiamo l'altro al primo posto, ed allora cambiamo tutta la nostra vita o una porzione importante della nostra vita "per lui". Teniamo presente che soprattutto all'inizio del rapporto questo cambiamento sembra ovvio: rinunciare alle proprie abitudini per stare insieme all'altro, cercare tutti gli spazi per stare insieme. Ma manteniamoci lucide ed osserviamo: mentre noi rinunciamo l'altro fa lo stesso? Gli amici, le partite, o quant'altro, tutto è azzerato? Gli amici della coppia di chi sono? Sono i suoi o sono anche i miei? Le uscite, i rapporti con le amiche cominciano a soffrire? Ci diciamo: ma se a lui fa piacere, anche se non lo dice ma lo fa capire con una serie di segnali quali ad esempio "i musi", se la cosa gli dispiace, ed a me non costa fargli piacere, perchè non farlo ed accontentarlo? Ecco tutto quello che capita nella relazione con il partner che va nella direzione di un restringimento della nostra vita di relazioni e di interessi, ci conduce ad un rischio più vicino di depressione.
Ma perchè?
Perchè toglie risorse, ci toglie quelle normali protezioni che possono mettere al riparo nel momento delle difficoltà di relazione con il partner, ad esempio se si profila una separazione e una perdita affettiva. Questo ad esempio è uno degli eventi tipici che portano le donne verso la depressione. Oppure quando il partner da "amoroso e possessivo" diviene "maltrattante" allora scopriamo che, anche se non ha senso continuare ad amarlo, abbiamo bisogno di lui e non riusciamo a farne a meno ed a lasciarlo. L'antefatto della depressione nel rapporto con il partner è la dipendenza, ovvero il criterio di insostituibilità, criterio che si costruisce nella pratica stessa della relazione a due, quando si è indotte in una situazione di sopravvalutazione dell'altro e di sottovalutazione delle proprie risorse e capacità di autonomia. Così anche la dipendenza, considerata pregiudizialmente dalla scienza psichiatrica come un fattore di personalità, costituisce a ben guardare uno stile comportamentale, che si acquisisce con il favore di modelli sociali, che danno maggior valore al genere maschile; e si costruisce in una pratica della relazione di coppia in cui si riducono progressivamente i supporti personali ed i punti di riferimento esterni, ed in cui si rinuncia con estrema facilità ai progetti ed obiettivi di realizzazione personale.
La diagnostica relativa alla relazione con il partner: Le ricerche individuano nella popolazione femminile una elevata correlazione tra life events di perdita affettiva ed insorgenza di depressione. La depressione in questo caso si può riferire sia alla perdita, intesa come lutto o abbandono del partner o di altra figura significativa (un genitore ad esempio); sia alla perdita simbolica del partner buono, che nel corso della relazione diviene maltrattante. Le perdite affettive, che sfociano nella depressione, hanno alla loro base le relazioni di dipendenza "infelice" che presentano le seguenti caratteristiche: § isolamento nella coppia; § mancanza di supporti amicali esterni; § discredito e ipercriticismo del partner; § accantonamento/rinuncia a progetti e spazi personali; § sopravvalutazione del partner relativamente ai propri bisogni di gratificazione e realizzazione personale
Alcuni consigli per la prevenzione della depressione nella "relazione di coppia"
§ Non sovraccaricarsi dei problemi dell'altro, non farli diventare i propri. § Mantenere una giusta differenziazione tra le proprie aree di interesse e quelle dell'altro. § Conservare la propria area sociale ed amicale. § Mantenere il proprio progetto di vita centrato sulla realizzazione personale oltre che su quella di coppia. § Mantenere le proprie idee su di sè: ovvero non cercare di aderire alle aspettative dell'altro , esse possono farci uscire dai "nostri giusti panni e modi di essere". § In particolare nel caso di atteggiamenti di svalutazione del partner, confrontare il giudizio del partner con quello di altri esterni alla relazione, e considerare questi ultimi più affidabili. Valutare negli atteggiamenti e comportamenti svalutanti gli obiettivi di possesso del partner e contrastare la propria tendenza a condividere tali giudizi come se fossero oggettivi e fondati. § Non considerarsi capaci di tutto, non tollerare tutto; per converso praticare la debolezza come strumento per mettere dei limiti alla "onnipotenza" della cura degli altri, a vantaggio della individuazione e coltivazione dei propri bisogni ed interessi.
ED ORA PARLIAMO DI MATERNITA'
La relazione di cura nella maternità comporta un rischio di depressione?
Più frequentemente oggi fare un figlio è per la donna occasione di stress e di sovraccarico, oggi più di ieri, quando la donna viveva in una famiglia allargata ed era coadiuvata da altre generazioni di donne. Le ricerche ci dicono che incorrono in maggiori rischi di depressione le donne con figli piccoli ( più figli minori di 14 anni) senza un rapporto di confidenza con il partner e con minori supporti sociali. Ci dicono che le donne adulte in generale sono più esposte degli uomini agli eventi stressanti in termini sia di maggior numero che di maggiore gravità ( ovvero di maggiori effetti patiti). La maternità inoltre costituisce il campo di applicazione più esteso del lavoro di cura, come tale esso diviene anche il luogo di maggiore vulnerabilità alla depressione come risposta ad eventi stressanti scarsamente controllabili perchè non sostenuti da adeguati strumenti di conoscenza e di supporto sociale.
La diagnostica nella maternità
E' importante differenziare dalla depressione quella che è una normale variazione del tono dell'umore, questa sì correlata in modo appropriato alle vicende ormonali che va sotto il nome di "baby blues", e che ha una durata limitata di pochi giorni. Baby Blues: Stato di irritabilità, tendenza al pianto, ansia, instabilità dell'umore, che si presenta nei primi giorni dopo iol parto, e che colpisce l'80% delle madri, dura qualche giorno. Depressione post-partum: può essere qualsiasi tipo di disturbo depressivo che però si colloca a quattro settimane dal parto. Per quanto riguarda poi la sintomatologia, lo stato dell’umore, il senso di non farcela, l’inappetenza, è simile alle altre sindromi e non differisce da quella degli episodi di alterazione dell'umore "non post-partum" Il disturbo depressivo dopo il parto colpisce il 13% delle neo-mamme e la durata è variabile. Per valutare l' eziologia biologico-ormonale del disturbo depressivo nel post partum sono stati compiuti diversi studi per confrontare il livello ormonale delle donne depresse e di quelle non depresse. Non si è trovata nessuna differenza significativa. Altri studi hanno cercato di vedere se l’aumento o la diminuzione del livello ormonale è collegato a un miglioramento o peggioramento della depressione. Anche qui non troviamo nessun tipo di associazione.
Si può concludere che non vi si specificità nella qualità del disturbo depressivo in questa fase se non per il periodo di insorgenza e per alcune paure e vissuti specifici che riguardano la relazione con il bambino: - vissuti di insicurezza e paura che hanno per oggetto la fragilità del bimbo (non essere in grado di far fronte a tutte le necessità del piccolo, paura di far male al bambino per la propria inaccuratezza); - perdita del sentimento positivo, non sentire l'amore, non sentire la gioia relativamente all'evento nascita; - distacco fisico dal bambino, non volerlo toccare ed abbracciare; - infine la paura di non essere una madre normale. Tali vissuti però possono riscontrarsi anche in periodi lontani del post-partum, e riguardare anche il tempo dell'ingresso del bambino in asilo, ma anche periodi successivi. Sono quindi relativi alla tappa della maternità con figli piccoli, che si contraddistingue per la massima concentrazione di responsabilità materne. I vissuti poi complessivamente indicano la presenza di un sovraccarico, di una solitudine di fronte alle responsabilità complesse, di un investimento eccessivo nella relazione con il figlio in assenza di altre relazioni valide. Questi vissuti di incapacità nella relazione con il figlio associati a vissuti depressivi tipici anche di altre età e tappe, possono assumere caratteristiche acute e divenire nel post-partum molto simili ad una condizione post-traumatica da stress. Nella condizione di stress acuto si possono presentare infatti meccanismi di evitamento e di distanza dalla condizione percepita e vissuta come stressante e /o pericolosa per il proprio equilibrio psico-fisico. Se questi vissuti sono affrontati nell'ottica di una condizione traumatica di stress, possono essere bene affrontati mettendo mano ad una modifica immediata delle condizioni di solitudine in cui la donna si trova rispetto ai nuovi compiti. Non si deve pensare che il senso di distanza e di distacco che una madre può percepire sia esclusivamente in rapporto con una gravidanza non desiderata; nella esperienza clinica abbiamo avuto modo di valutare che ciò può accadere anche nel caso di un bambino molto desiderato per il quale ci si è sottoposti a cure contro la sterilità molto stressanti. Questa seconda evenienza ci dice con molta evidenza che dietro una maternità psicologicamente sofferta, c'è sempre una storia di ipercarico, di solitudine della madre, di disinformazione, di modelli di maternità scarsamente aderenti alle condizioni reali.
La condizione stressante della maternità
La valutazione diagnostica della maternità come evento stressante, pone il problema di una maggiore attenzione alle condizioni di stress presenti nella maternità e prima di tutto al sovraccarico materiale ed emozionale, all'isolamento della madre nel suo lavoro di cura, alla elevazione della soglia di resistenza agli stimoli stressanti ( alterazione del ciclo sonno veglia, del ciclo alimentare, dei processi di rappresentazione del sè, ecc.) che ovviamente altera i processi abituali di reazione stimolo-risposta ponendo le premesse per uno scompenso psico-fisiologico anche di grave entità. Con la nascita di un figlio il lavoro della donna aumenta in termini quantitativi ma non solo. Il lavoro di cura degli altri, di cui quello verso un figlio è il prototipo, è un lavoro le cui caratteristiche non sono rintracciabili in nessun altro tipo di lavoro. E' un lavoro che potrebbe essere definito "impossibile" perchè non è limitato nel tempo, non ha pause, nè interruzioni, è incessante, pone problemi di responsabilità illimitata, ed in qualsiasi momento e per qualsiasi motivo, la donna potrà essere chiamata a rispondere degli accadimenti che implicano la salute ed i comportamenti del figlio. Guardiamo ad esempio ai tanti trattati di psicologia che vedono nel rapporto madre-figlio la base di ogni problema attuale e futuro del bambino. Tutto ciò si riverbera sulla singola madre nel suo rapporto con il figlio caricandola impropriamente di responsabilità e sensi di colpa. Il lavoro di cura stravolge i ritmi di vita della donna, soprattutto nella prima fase della nascita del piccolo; e può avere così un fortissimo impatto sull'equilibrio psico-fisico della donna se essa non è correttamente preparata, se non è supportata adeguatamente. Esso infatti irrompe nella vita della donna con due tipologie di fatti : a. un cambiamento complessivo e concentrato nel tempo caratterizzato da un aumento improvviso ed elevato di compiti e responsabilità, non confrontabili con esperienze precedenti; b. una modifica dei processi cognitivi ed emozionali che riguardano la percezione del sè ( tutto ciò che riguarda se stesso delimitato rispetto a ciò che è esterno ed altro a me). Il riferimento valutativo del sè subisce un "ampliamento" incorporando anche la valutazione dell'altro come parte del sè. Da ora in poi la relazione con il proprio Sè nella donna sarà mediata fortemente e prepotentemente dalla relazione con l'altro, ovvero dai bisogni dell'altro, che saranno tendenzialmente messi al primo posto o vissuti come quelli da "mettere al primo posto". In crisi sarà il rapporto con il proprio sistema di bisogni, e le proprie sicurezze potranno essere intaccate. Ambedue questi effetti, che costituiscono cambiamenti altamente stressanti, nella vita delle persone, e sono implicati nel rischio di depressione e vanno quindi posti sotto controllo con pratiche adeguate.
Alcune regole pratiche per non sovraffaticarsi e proteggersi dal rischio depressivo:
Cambiamo le nostre idee Se lavoravamo ed ora siamo in casa con il permesso di maternità, forse possiamo pensare che sia giusto e doveroso dedicarci totalmente a nostro figlio. Ecco questo pensiero che tutto il nostro tempo, visto che non lavoriamo, deve essere dedicato al bambino, può essere dannoso e può portarci a vivere l'oggetto delle nostre cure come oggetto persecutorio che ci prende tutte le nostre energie e da cui dobbiamo difenderci.
Cambiamo il nostro modello di madre perfetta e buona E' importante che non si creda che esista un modello perfetto di madre che sacrifica tutto per i figli. La madre buona non è quella sempre presente che fa tutto. Quando al contrario vi è questa aspirazione e si cerca di metterla in pratica il rischio di depressione è più vicino a noi ma anche ai nostri figli. Ricordiamoci che questa madre "perfetta" va in rotta di collisione con le esigenze di sviluppo e di autonomia dei figli.
E agiamo diversamente da prima E' bene, a cominciare da questo periodo in cui un bambino piccolo richiede molte cure, ad organizzare attivamente una "nostra assenza" in tutte le forme possibili. Anche un'ora al giorno senza il bambino, e fuori dalle responsabilità che la cura comporta, può aiutarci a prevenire la depressione. Così come quando si ritorna al lavoro, non è assolutamente sufficiente pensare di farsi sostituire solo per il tempo di lavoro esterno. E' bene prevedere più tempo libero anche dalle attività della cura, organizzando una sostituzione più lunga. Se siamo incerte sul fatto di lasciare il lavoro esterno, riflettiamo bene, dobbiamo sapere che presto il bambino non avrà bisogno di noi, anzi è bene che il bambino non sia sempre con noi, ed allora il lavoro esterno, soprattutto se è una fonte di gratificazione per noi e di per se stesso non crea stress, può aiutarci anche a vivere meglio l'ambito domestico. Ma soprattutto non pensare che il bambino, per quanto piccolo sia, non possa sopravvivere senza di noi, senza il nostro controllo 24h/24.
Una madre allora può pensare a sè, senza paura di essere una cattiva madre, una madre egoista, senza che questo danneggi il bambino?
La relazione con la madre è importante, ma non è l'unica, nè è una relazione insostituibile, come ogni altra relazione; per il bambino tutte le relazioni sono importanti; ed un buon sviluppo del bambino richiede anche una buona socializzazione. Il bambino sin dal primo momento ha bisogno di crescere in autonomia e socialità, sin dal primo momento richiede cure, ma anche dismissioni progressive delle cure, per dare spazio alla sua iniziativa, per far crescere la sua competenza, per spaziare in più relazioni con il mondo esterno, per sollecitare le sue capacità di autonomia nel problem solving (soluzione dei problemi) che il mondo esterno gli pone. Il bambino sin dal primo giorno pone come problema principale quello di saper orientare le cure materne o genitoriali verso una loro graduale e progressiva riduzione. E proprio per questo il pensare a se stessa significa prepararsi meglio e da subito ad uno stile comportamentale di riduzione /dismissione delle cure. Le strategie per ottenere questo risultato sono, procedendo dal minimo verso il massimo: delegare, farsi sostituire, essere fungibile con altri.
Ma se consigliamo alla donna di staccare progressivamente le cure sin da quando il bambino è piccolo cosa succede quando sarà adolescente? In che modo occuparsi o non occuparsi di un figlio/a adolescente?
Prima di tutto bisogna affermare che il destino di un adolescente non è soltanto effetto della buona o cattiva cura di una madre o di un genitore. Molti problemi delle nuove generazioni vanno inquadrate in fenomeni più vasti che sovrastano le vicende di singole famiglie. Quindi come prima cosa, le madri non devono sentirsi caricate del destino dei loro figli, altrimenti ancora una volta aumentiamo i loro sensi di colpa e per converso il vissuto di onnipotenza ovvero "io sono responsabile di tutto", che ovviamente è un vissuto ed una condizione irrealistica. Per gli adolescenti rimane vero ciò che abbiamo detto a proposito della relazione madre-figlio nei primi mesi di vita. Come finora abbiamo detto che la prevenzione della depressione nella donna coglie anche l'obiettivo di promuovere la salute nel bambino attraverso lo sviluppo della sua autonomia, ciò va ancor più ribadito nell'adolescenza che è l'età tradizionale, da tutti asserita, dello svincolo dalla famiglia.
Ma l'autonomia dell'adolescente non prevede solo un ritiro delle cure materne, che per altro verso possono essere state già ritirate, ma anche l'evitamento di pesi impropri, carichi eccessivi che possono ostacolare il percorso dell'autonomia personale.
Ma se abbiamo finora parlato di sovraccarico nella donna, come invece l'adolescente può essere sovraccaricato? L'adolescente ed in particolare la ragazza (da qui le statistiche di una maggiore implicazione delle ragazze nel disturbo psichico in adolescenza ) possono patire lo stesso sovraccarico delle loro madri.
Che vuol dire? Che le madri scaricano sulle figlie femmine le loro responsabilità di ruolo? In effetti può succedere proprio questo, quando la donna non ha altri mezzi per alleggerirsi di un carico di lavoro stressante, chiama la figlia adolescente in questo ruolo di supporto. La richiesta di un supporto può essere materiale e portare alla condivisione dei compiti di cura della famiglia; oppure più spesso può essere emotivo e supportivo nei confronti di una madre che a sua volta non ha altri supporti; una madre che per esempio non ha una relazione di confidenza con il partner, o una madre priva di altre relazioni amicali ed interessi extra-familiari. L'adolescente in questo caso sopporterebbe il peso di una strategia inappropriata di alleggerimento della condizione di stress o di isolamento che la società scarica sulla donna-madre. Inappropriata perchè " risolve" il disagio della madre rinviandolo sulla figlia e creando un meccanismo a catena di mantenimento di una condizione di stress e disagio inter-generazionale.
Non è chiaro in che modo si arriva alla depressione se una figlia aiuta una madre, o le fa compagnia, o se ascolta le sue confidenze, o le sue lamentele.
E' molto semplice perchè le sue energie, le sue risorse destinate proprio in questa fase allo sviluppo dell'autonomia personale e allo svincolo dalla famiglia, rimangono intrappolate nella relazione di aiuto con la madre o di supporto alla coppia ed alla famiglia. Ed in questo modo le risorse vengono deviate dai loro obiettivi specifici: la scuola, le amicizie, il gruppo, lo sport, le prime esperienze con l'altro sesso; ecc. e l'adolescente sperimenta una condizione di vita più gravosa, diversa da quella dei coetanei; che può trasformarsi poi in vissuti di incapacità personale, e di minore competenza nell'area del sociale.
E' sufficiente non dirottare all'interno della famiglia, per attività di servizio, energie che servono agli adolescenti ad esplorare il mondo esterno e a fare esperienze personali?
Si certamente questo, ma non solo. Una figlia adolescente, che dà supporto alla madre, in qualche modo anticipa i tempi della maternità, fa da madre alla propria madre. Può così essere indirizzata anzi tempo ad assumere quel modello comportamentale del sostituire gli interessi altrui ai propri, tipico della relazione madre-figlio, senza però aver consolidato l'esperienza e la capacità di essere al mondo per se stessa per individuare correttamente i propri bisogni ed i propri progetti. Così facendo renderemmo le nostre figlie, attraverso questo apprendistato realizzato con l'inversione dei ruoli madre-figlia, più vulnerabili, più disponibili a vivere la cura dell'altro come annullamento ed espropriazione del sè. Al contrario dobbiamo agire perchè il peso delle cure si risolva in altro modo, sia condiviso non dai figli adolescenti, ma dal mondo degli adulti, e perchè le figlie apprendano dalla loro madre, in veste di modello, come fare per stare in coppia, procreare figli e vivere con agio una dimensione anche personale.
Qual'è l'indicazione concreta per rapportarci con le nostre figlie ed in nostri figli?
Poniamoci un solo obiettivo per la crescita dei nostri figli adolescenti: non caricarli dei pesi che riguardano la maternità ed il ruolo di cura, ma risolvere questi pesi per altra via. Significa che le madri ma anche i padri, devono risolvere i loro problemi senza chiamare in causa i figli. Devono lasciarli liberi di organizzare le loro risorse, poche o molte che siano non ha importanza, intorno ai loro interessi di crescita e sviluppo, senza vincolarli a comportamenti e progetti che non li riguardano.
ED ORA PARLIAMO DEL LAVORO PROFESSIONALE
Il lavoro professionale è un altro fattore di stress nella vita di una donna?
Il lavoro professionale può essere sia un fattore di protezione dallo stress familiare che un fattore di potenziamento dello stress.
Non dimentichiamo infatti che non vi sono differenze nella possibilità di ammalarsi tra donne casalinghe e donne con un lavoro esterno, in quanto il lavoro familiare, riconosciuto come principale fattore di stress nella vita di ogni donna, incide allo stesso modo su ambedue le categorie. Sotto il primo aspetto, esso può avere un ruolo di compensazione dello stress familiare offrendo alla donna alcune condizioni di vita che mettono al riparo dalla depressione o da eventi che favoriscono la depressione: l’autonomia economica, e l’autonomia dal partner; il mantenimento della stima di sé attraverso riconoscimenti e gratificazioni professionali, lo stimolo a mantenere la cura di sé e delle proprie risorse e competenze, la socializzazione, ecc. Sotto il secondo aspetto, il lavoro esterno può essere esso stesso un elemento di ulteriore stress se ripete, accrescendole, le condizioni di stress familiare. Nel lavoro professionale, il maggior potere decisionale è concentrato nelle mani degli uomini che dettano le regole per l'accesso al lavoro e per la carriera. In esso quindi possiamo individuare specifici stressors legati alla differenza di genere e cioè: discriminazioni e minori riconoscimenti economici e di carriera dati alle donne a parità di qualità ed impegno con i maschi; mobbing e molestie sessuali.
Quali sono le indicazioni e gli orientamenti per la prevenzione?
Se la donna ha un lavoro esterno, impariamo a riconoscere e valutare questo lavoro come lavoro doppio perchè si assomma a quello familiare. In questa prospettiva impariamo a valutare il nostro carico di lavoro complessivo, e ad inserire modifiche di alleggerimento di quello familiare, perché non si creino pericolosi sovraccarichi. Impariamo a fronteggiare la nostra abitudine a sovrapporre le mansioni esterne e quelle familiari: perchè così si creano particolari livelli di stress e di fatica mentale. Se ci sentiamo stanche e non ce la facciamo più ad andare avanti, ragioniamo da sole o con gli altri ( anche con i tecnici, se necessario) dello stress di ambedue le attività messe insieme e dell’impatto specifico di ciascun carico di lavoro (familiare ed extrafamiliare) sulla nostra salute. Prima di ogni decisione e soprattutto prima della decisione di eliminare uno dei due carichi, che in genere è quello del lavoro professionale, fermiamoci, prendiamoci una pausa, e valutiamo bene la nostra condizione di vita, i nostri progetti, ed il futuro rispetto a noi stesse ma anche allo sviluppo dei bisogni di cura della famiglia.
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