CENTRO PREVENZIONE SALUTE MENTALE DONNA

Responsabile: dr. Elvira Reale

 

 

II incontro, 11 marzo 2003                               

DONNE E FOLLIA

Elvira Reale, responsabile del Centro Prevenzione Salute Donna della ASL Napoli 1

In collaborazione con il Collettivo femminista LA MELA DI EVA

 

INTERVENTO: Spiegare le ragioni per le quali abbiamo deciso di partecipare ad un seminario di questo tipo dandogli un taglio di genere, è allo stesso tempo semplice e complesso. Semplice perché l’interesse verso tali tematiche di genere deriva dalla natura stessa del nostro essere un collettivo femminista; un collettivo che ogni giorno cerca, attraverso la sua attività politica, di recuperare la propria identità di donne. Identità che è stata da sempre gestita, e forse anche creata, dal mondo maschile. Ogni giorno che passa notiamo come in questo mondo scritto dagli uomini, di noi donne non c’è memoria: chi ricorda ad esempio Ipazia, matematica, filosofa e ingegnere. Inventò la livella ad acqua, l’astrolabio piatto e l’idroscopio? Tutto ciò secondo noi ha dato vita ad una storia dell’umanità monca e non veritiera poiché, ripeto, è stata esclusa completamente una parte del genere umano.

E i temi che vanno dal precariato, alla retribuzione ineguale dei lavori, alla malattia mentale, non sono temi “asessuati”. Ognuno di loro presenta una specificità femminile. Quindi non c’è “il folle” così come il concetto di “uomo” racchiude anche la donna. Certo una categoria diagnostica è stata coniata esclusivamente per noi, e mi riferisco all’isteria, ma ancora una volta questa ha a che fare con la nostra specificità sessuale. Così nello scrivere l’articolo su “Donne e follia”, uscito sul primo numero de LA PECORA VIOLA, ci siamo rese conto che la maggior parte delle sindromi e delle malattie che colpiscono le donne sono in prevalenza legate alla passività (vedi la depressione) e alle funzioni riproduttive (vedi la sindrome pre-mestruale, la depressione post-parto, la crisi nella menopausa).

Ora noi vorremmo sapere, ed è questa la parte più complessa, cosa c’è di vero e cosa c’è di culturale in tutto ciò. Inoltre, per rimanere nello specifico dei seminari, vorremmo sapere anche se e come la 180 si è occupata delle donne e se e come questa nuova proposta di legge (Burani-Procaccini) può peggiorare la situazione.

 

REALE: L’intervento è vastissimo quindi procederemo a salti. Io comincerei subito col dire cos’è il nostro centro, che cosa fa.  Il centro inizia la sua attività nel 1978 insieme alle legge 180. Voi sapete che la legge 180 è la legge della riforma psichiatrica che chiude  i manicomi, nel senso che da quel momento in poi ad essi non si potrà più accedere; ma per anni rimarranno aperti per gestire  i vecchi pazienti residuali che non si riuscirà a sistemare altrove ( ciò succederà soprattutto al sud). E questo, diciamo, è un cambiamento davvero epocale.

Basaglia, come voi sapete, è stato l’artefice di questa chiusura e l’idea che lui esprime nel suo libro  “L’istituzione negata”, è che la malattia mentale “non esiste” nel senso che è un prodotto sociale più che un processo individuale. Ecco questa è la prima domanda che potremmo fare: esiste o non esiste? E se esiste che cos’è?

La malattia mentale, diceva Basaglia, non esiste perché la malattia mentale non è qualcosa che qualcuno vede indipendentemente dalla sofferenza soggettiva. Questa chi la descrive? Chi ne parla? In effetti in manicomio non c’era nessun rapporto con la sofferenza, c’era solamente una diagnosi: la persona entrava in manicomio e di questa persona si perdevano le tracce. Ma non c’era traccia della sofferenza, né della storia, né del percorso che aveva portato quella persona da una vita normale a soffrire, ad essere vista e ad essere diagnosticata come malata.

            In questo percorso iniziale, noi stavamo all’epoca nell’ospedale psichiatrico di Napoli, il Leonardo Bianchi, un enorme ospedale. Io sono entrata per la prima volta in manicomio  nel ’79 ed avevo  27 anni, e fui assegnata  per il mio “genere”, perché ero donna, al reparto femminile. Ed ero molto intimorita all’inizio perché avevo delle idee sulla follia....penso come le avete voi oggi. Anzi no, dai mass media potete avere delle idee meno preoccupanti meno gravi. No, io lì ero spaventata. Andai, vinsi il concorso, il lavoro non si rifiuta e così andai. Racconto sempre il primo approccio con una donna, con un colloquio che volli fare, essendo psicologa, con un setting preciso, senza la presenza del personale infermieristico. Mi portai questa donna  in una saletta appartata, lontana, e lì rimasi scioccata del comportamento della donna, che evidentemente cercò di approfittare di una situazione paritaria e così mi disse: “adesso tu mi dai i tuoi vestiti, facciamo a cambio così tu rimani qui e io vado via”. Ma  quello fu uno shock positivo.

Bisogna scoffiggere la paura del matto. E come si sconfigge una paura: si accende la luce e si va a vedere quello che sta dietro e si vede  che c’è altro, che c’è altro oltre  l’incomprensibilità di un gesto.

            E da lì comincia una  riflessione. E all’epoca perché mi trovavo in un reparto femminile la riflessione comincia con le donne. Però in quel periodo era anche molta attiva la riflessione all’interno del  movimento delle donne che si richiamava alla politica della differenza sessuale. Contemporaneamente si cominciava a vedere dal punto di vista delle donne che c’era un problema con  l’antipsichiatria, di origine maschile, che non riusciva a cogliere, che non poteva cogliere, con il suo sguardo maschile, la sofferenza di genere. Vedevamo all’epoca che mentre si aprivano subito i reparti maschili, quelli femminili restavano chiusi. E perché restavano chiusi? Ciò dipendeva dalla volontà dei familiari e dalla volontà degli operatori: e perché?

 

DAL PUBBLICO: Rimanevano incinte

 

REALE: Perfetto! Entrava scandalosamente all’interno del manicomio con il problema della libertà da dare al “matto” il problema della libertà sessuale da dare alle donne. Fu molto dibattuto questo aspetto e comunque all’epoca fu un grupo di donne che aprì il reparto prendendosi questa responsabilità, rispetto alle famiglie e rispetto al sociale. C’era però un altro motivo legato alla differenza di genere che riguardava il modo ed il perchè queste donne entravano in manicomio: quello della  limitazione della libertà sessuale. Infatti il motivo prevalente per cui molte donne entravano in manicomio era legato al fatto che erano considerate dalla famiglia (o dal sociale) sessualmente inaffidabili (promiscue) oppure cattive madri. Quindi c’era questa unione tra il motivo di ingresso in manicomio e l’impossibilità ad uscire o ad usufruire come i maschi di più ampie libertà di movimento. E qui ora facciamo un passo indietro. 

 

            Valentina rimarcava la differenza, che non è proprio della psicoanalisi ma si rintraccia agli albori della psichiatria. La differenza sulle ragioni dell’internamento tra uomo e donna inizia  con Charcot e quindi alla Salpetrière in Francia, il primo ospedale psichiatrico con una popolazione tutta di donne e bambini. Perché in un discorso di emarginazione - ed i primi manicomi si costituirono a partire dagli asili per mendichi, a partire cioè dalle istituzioni che raccoglievano poveri ed emarginati - che coinvolge le istituzioni totali, la donna è sempre il soggetto più emarginato.

             Il libro di Gutton sui poveri ( la società ed i poveri) ci dice che la condizione più misera nel ‘600 e ’700 era quella delle donne vedove. La vedovanza femminile costituiva  l’ultima è più grave condizione  di emarginazione sociale.

            Quindi ci troviamo di fronte a questa connessione:  da un lato l’istituzione totale racchiudeva l’emarginazione dell’epoca e le donne all’epoca erano le più emarginate, ed in particolare  le prostitute, le piccole operaie, ( le modiste, le fioraie, ecc.), le vedove, cioè tutte quelle che non potevano sopravvivere di per sé stesse.  Quindi l’istituzione totale che raccoglie gli emarginati nasce si può dire con una vocazione di genere, perchè sono le donne la popolazione più emarginata e purtroppo non solo allora ma anche oggi, basta guardare  i dati sulla povertà nel mondo.

             Ed infatti erano più donne che uomini che non potevano sopravvivere di per sé stesse con il loro lavoro ed erano più donne che affollavano gli asili per mendichi prima e poi i manicomi.  Io non voglio entrare nello specifico della esclusione delle donne dal lavoro e dall’economico, ma è molto importante capire come dall’economia si arriva all’emarginazione, all’internamento asilare  e poi alla psichiatria.

La psichiatria osservava le donne alla Salpetrière e non vedeva i processi di esclusione socio-economica e di pauperizzazione delle donne; vedeva invece  l’isteria. Questa  fu attribuita da Charcot al ciclo ormonale. Cioè le donne, secondo Charcot e la prima psichiatria, “ impazzivano” a causa  del loro ciclo (abbondante o meno), per il parto, per gli eventi di abbandono e gli eventi affettivi. Gli uomini isterici, in un rapporto di 20 U a 80 D, erano resi tali dai  traumatismi sul lavoro.

            Benissimo, questa perfetta divisione del campo tra maschi e femmine, per cui alle donne compete tutto ciò che è umorale, biologico ed affettivo; ed agli uomini tutto ciò che riguarda il lavoro, l’economico e la ragione,  è rimasto tale e quale.  

 

Ecco ora facciamo un altro salto.

            La cosa interessante è che il pregiudizio di attribuire alla variabilità ormonale, al ciclo biologico femminile le malattie nelle donne  non è solo della psichiatria. Io qui vi ho portato tre libri che segnano il percorso del nostro gruppo (perché noi abbiamo cominciato come ho detto a lavorare su questi temi nel ’78) che vi lascio, che lascio al collettivo e potete fotocopiare. Il penultimo di questi libri ( l’ultimo uscirà nei prossimi mesi), che è il prodotto di un percorso di studio fatto all’interno del ministero Pari Opportunità e del ministero della Salute, si chiama “Una salute a misura di donna”, percorsi per una medicina di genere.

            Cosa significa una medicina di genere? Significa che tutta la medicina soffre di pregiudizi nei riguardi della donna e che essa va rivista, criticata, attraversata da un nuovo e soprattutto corretto punto di vista sul genere e sulle differenze sessuali.

            Però ci arriviamo dopo con calma! Perché questo percorso  è poi l’ultimo passo che il nostro gruppo ha compiuto  a partire dal ’78 e dalla critica alla psichiatria.

 

 

Ritorniamo quindi alla prospettiva psichiatrica.

           

            Ecco dicevo nulla è cambiato sostanzialmente e culturalmente dalla psichiatria di Charcot.  Esistono come allora due modi per valutare la salute mentale dell’uomo e della donna. La salute maschile attiene sempre alle difficoltà del sociale o all’economico, essa è correlata quindi a tutte le vicende lavorative. E ciò trova conferma nel fatto che i picchi di patologia maschile sono collocabili in due aree: l’area di ingresso al lavoro (l’adolescenza e la post-adolescenza) e l’area di uscita dal lavoro ( il pensionamento). In queste due età l’epidemiologia psichiatrica ci dice che si incontra la maggiore diffusione di  disturbi psichici tra gli  uomini.

            Invece i picchi di maggiore diffusione tra le donne si collocano in un’unica ed ampia fascia di età, dai 15 ai 44 anni, che comprende tutta l’area della adolescenza e della maternità  l’età forte per dirla con le parole di  Simone de Beauvoir). La frequenza dei disturbi psichici diminuisce nel periodo della menopausa. Questa stabilità del disturbo psichico della donna, non è mai stata studiata con correttezza scientifica nelle sue correlazioni, se non in rapporto al ciclo biologico-ormonale. Non si è mai potuto trovare, mai voluto guardare al di là del fatto della “variazione ormonale”. Non si mette in dubbio che un ciclo ormonale  esista e che esso può dare delle oscillazioni di umore. Per esempio, la famosa depressione post-partum: la variazione ormonale non incide sulla depressione post-partum, incide solo sul fenomeno che si chiama “baby blues” che dura tre giorni e che consiste in un po’ di tristezza. Ma le oscillazioni del tono dell’umore sono una realtà di tutti uomini e donne, e tante sono le variabilità fisiologiche anche nell’organismo maschile, solo se si trovassero persone appassionate a scoprirlo,  come vi sono tanti ricercatori che si appassionano a studiare le variazioni ormonali delle donne! Comunque basta pensare che gli studi sui ritmi circadiani (ovvero delle variazioni fisiologiche quotidiane)  coinvolgono uomini e donne e non sono esclusivo appannaggio delle donne.  

            Per praticare  una medicina o una psicologia di genere bisogna mettere al centro l’uomo e la donna. Ma non confonderli, non sovrapporli, non fare confusione. Quindi se finora con l’uomo si è posto l’accento solo sul versante della  produzione è bene cominciare a riflettere sulla sua attività riproduttiva, sulle sue modifiche biologiche o psicologico-affettive. E con la donna viceversa. Oggi l’uomo e la donna sono due realtà dimezzate  agli occhi della medicina, ciascuno è studiato per una sola metà della sua realtà complessiva.  

 

Ora ritorniamo alle attività del nostro servizio  e al profilo della nostra utenza.

 

            Noi abbiamo una banca dati sulla utenza femminile che si è rivolta al nostro servizio dal 1981 ad oggi, suddivisa in due periodi. Un primo periodo fino al 1995 in cui eravamo il  Settore Donne del Servizio di salute mentale della USL 39 di Napoli.  Quindi eravamo dentro la psichiatria. Nel ’96 con la nascita delle ASL abbiamo cambiato obiettivo. Siamo uscite dai servizi di psichiatria e siamo andate in un terreno più psicologico di prevenzione. Abbiamo cioè fatto la valutazione che dall’interno della psichiatria non si andava da nessuna parte; le teorie nuove non sarebbero passate come non sono passate in 15 anni di attività, in cui abbiamo cercato di dare visibilità al problema della differenza di genere in tutti i  modi. Quindi abbiamo scelto di fare un altro percorso, di puntare alla prevenzione. Cioè di individuare i nuovi fattori di rischio e di malattia, alternativi ai fattori di rischio tipicamente attribuiti dal pregiudizio alle donne e cioè i fattori ormonali, e di diffonderli perchè le donne scoprissero un nuovo modo di guardare ai loro disagi psichici.

            Precedentemente al 1996, ci occupavamo di tutta l’utenza femminile del nostro territorio ed avevamo organizzato anche  un servizio per le situazioni di crisi. Ma contrariamente a quanto si crede non sono queste le situazioni più gravi: le crisi rientrano in breve tempo sia con interventi psicologici corretti ma anche con interventi farmacologici mirati sulla crisi. Ora come allora risulta invece difficile da affrontare  le situazioni di cronicità conseguenti a lunghi periodi di malessere, o a situazioni di malessere non affrontate in modo tempestivo.

            E queste situazioni o si affrontano prima che cronicizzano, in un’ottica di prevenzione primaria o secondaria, o dopo rischiano di essere altamente pregiudizievoli per la salute della persona, da divenire irreversibili. Basti pensare, sempre per quanto riguarda la donna, ad un lungo periodo di inattività e di ritiro sociale che pregiudica poi irreversibilmente l’attuazione di un progetto sia lavorativo che affettivo/materno.

            Proprio nell’affrontare all’epoca le situazioni croniche delle donne ci rendevamo conto dei messaggi e dei trattamenti sbagliati che avevano ricevuto, che alla fine diventavano essi stessi fattori aggiuntivi di malattia. E ciò accadeva più facilmente con le donne perchè in campo medico la condizione femminile è attraversata da un numero maggiore di pregiudizi. Ad esempio una depressione post-partum difficilmente era affrontata dal punto di vista dello stress e della necessità di alleggerire la donna di responsabilità eccessive; ma si puntava a farle riprendere le sue mansioni al più presto senza consentirle un terapeutico distacco o senza operare nell’ambiente di vita per una condivisione dei carichi; oppure  soprattutto senza affrontare con competenza il senso di colpa che ha una madre quando si sente stanca e non è legittimata ad esserlo.

            Per i tanti problemi che abbiamo visto agire ed approfondire i disagi psichici delle donne ci siamo dette che era importante, non tanto curare 100, 1000, 5.000 donne (più o meno il numero di donne che abbiamo avuto in cura), ma intervenire prima che vi fosse la necessità di “curare”; ovvero fare prevenzione e dare alle donne le informazioni giuste per evitare i rischi frequenti di una depressione o di un qualsiasi altro disturbo psichico.  

 

            Ritorniamo dopo questa digressione sul nostro servizio, al profilo delle nostre donne. Questo è il loro identikit. Le  nostre donne avevano in prevalenza  un’età compresa tra i 15 e i 44 anni (circa il 73% della nostra utenza: lucido 1). Questa fascia di età è quella che le statistiche internazionali, l’ OMS  (Organizzazione Mondiale della Sanità)  e tutti gli altri, indicano come la fascia calda della patologia psichica nelle donne, in particolare della depressione. Quando parliamo di patologie psichice a maggiore diffusione ed incidenza tra la popolazione femminile dobbiamo tenere presente che stiamo parlando di: depressione, sia lieve che grave e di tutti i disturbi d’ansia. Disturbi d’ansia che sono in prevalenza diffusi tra la popolazione femminile, come per esempio gli attacchi di panico e le sindromi post-traumatiche da stress. Le psicosi invece si presentano con percentuali pari negli uomini e nelle donne così come i disturbi bipolari. C’è in particolare nelle donne , una comorbilità  tra  la depressione ed i disturbi d’ansia.

 

            Com’è lo stato civile di queste donne? ( lucido 2)

             Il pregiudizio della psichiatria è che ammala di più la donna nubile. Ed invece  no, ammala di più la donna sposata con figli piccoli. La sposa felice, quella che apparentemente è la più normale delle normali. Vi faccio vedere questo grafico che rispecchia totalmente le statistiche internazionali .

 Ecco il grafico: eccola qui la condizione civile, guardate che bella curva gaussiana!

Allora ci sono le nubili ma sono le nubili fisiologiche, quelle comprese tra i 15-19 anni, 20-24 anni, 25-29, e poi qui a 25-29 c’è vedete: più nubili, meno coniugate e poi si inverte ovviamente. L’identikit della donna che ammala è l’identikit della donna normale. Quindi possiamo affermare che ogni donna è a rischio, perchè non vi è un profilo di donna particolare, che può incorrere in un disturbo psichico nella sua vita, diverso dalla donna della popolazione normale.  Ecco ognuna di voi, ognuna di noi può ammalarsi; questa è una brutta notizia ma anche una bella notizia perché se tutte ci possiamo ammalare significa che non c’è nessun gene particolare che può toccarci sfortunatamente di avere o non avere, nessun fattore costituzionale, nessuna condizione sociale, culturale né di razza ecc. non c’è niente quindi che non possiamo controllare, a patto di avere le giuste informazioni e gli strumenti adeguati.

            In effetti anche la psichiatria dice che ogni donna può ammalare; la psichiatria dice che la donna ammala, tutte le donne possono ammalare, e ammalano di più degli uomini di depressione, perché sono deboli, fragili, passive, perché l’esser femminile è così e quindi la malattia è una sorta di peccato originale.  È un pregiudizio gravissimo presente  nella psichiatria fin dal suo nascere e che condanna la donna all’immobilismo, proprio a quella passività da cui vorrebbe toglierci!  Vorrei sottolineare l’assurdità scientifica di questa proposizione: che la donna ammala di più perchè ha una specifica biologia e psicologia! Per cui non si possono costruire per le donne eziologie sensate di malattia psichica,risulterebbe infatti inutile, dal punto di vista psichiatrico, guardare  all’ambiente, al lavoro; sarebbe  inutile studiare i fattori di rischio che normalmente entrano nel circuito di produzione delle malattie.  Ed ovviamente sarebbe impossibile la prevenzione, cosa preveniamo l’essere donna? La femminilità? E come?  

            È un ragionamento senza costrutto scientifico, è questo che indigna perché lo sguardo maschile (intendendo quello della scienza che finora si è coniugata al maschile) su una donna è sempre uno sguardo a-scientifico, è uno sguardo che non si libera da pregiudizi secolari contro le donne.

            Nella depressione grave e lieve, per esempio, Arieti e Bemporad scrivono che: la personalità che si associa più facilmente alla depressione è, guarda caso, quella socialmente attribuita alla donna, ovvero la personalità dipendente, passiva che fa di tutto per piacere agli altri dimenticando il proprio piacere. Allora si è creato da sempre l’idea che la depressione sia connaturata all’esser donna: debolezza, fragilità, passività, dipendenza. Allora ci chiediamo: esiste in natura un’organizzazione fisiologica che sia nello stesso momento anche patologia; è possibile costruire una eziologia dei disturbi e delle patologie a partire da una normale fisiologia, censurando un modo di essere biologico o psichico, se  lo si considera costituzionale della donna?

            E così alla fine anche le teorie più recenti, in cui si prendono in esame i ruoli delle donne la cultura, l’educazione, l’economia, come fattori di rischio, non riescono a penetrare nella pratica clinica ed a cambiare prassi e giudizi consolidati nel tempo.

            È come se oggi ci fosse una separazione tra mondo della ricerca e mondo della clinica . La ricerca afferma che le donne oggi forse sono più soggette a depressione per i loro multipli ruoli  perché hanno il doppio  lavoro, perché sono più emarginate, perché soffrono proprio anche di questa  discriminazione per tutte queste cause. Nel maggio 2002, l’OMS, l’Organizzazione Mondiale della Sanità,  (lucidi 5-6-7) per la prima volta ha pubblicato questa sintesi sui fatti che fanno ammalare le donne e ha inserito a pieno titolo tutte queste cose che ho detto, tutti i fattori psico-sociali, il doppio ruolo, ecc. e ha affermato anche che queste sono le cause più condivise, che trovano riscontro nelle ricerche più accreditate; mentre i fattori costituzionali  non trovano fondamento  nel rapporto di causalità con la patologia psichica  e con la depressione in particolare. Si è cominciato a riflettere in modo diverso tra i ricercatori, ma tutto ciò non passa nella clinica; non passa nella testa dei medici, degli operatori che operano con le donne e per i quali poi sempre la biologia,  il ciclo ormonale è la causa scatenante e fondante.

            Quindi le ricerche psico-sociali, epidemiologiche oggi ci aprono nuove strade sulla condizione femminile e sulle cause della loro maggiore morbilità psichica, mentre la psichiatria, che è più arretrata, si mantiene legata a questi pregiudizi e stenta a cambiare.

 

            Ritornando ancora al nostro identikit, Il livello culturale è il livello culturale della donna media. (lucido 3) Così come la quota di donne occupate della nostra casistica risponde ai livelli di occupazione della nostra popolazione (lucido 4) . Ciò vuol dire che ammala la donna casalinga come quella occupata. Per quanto riguarda il rapporto tra occupazione, classi sociali e malattie mentali c’è una vecchia ricerca degli anni ’70, “Classi sociali e malattia mentale” di Hollingshead e Redlich. Negli anni ’70 vi fu questa indagine sul rapporto tra origini sociali, socioculturali e malattia mentale,  in una popolazione di pazienti psichiatrici maschi e femmine e si vide che c’era un collegamento tra la malattia mentale e classe sociale (più bassa), nei maschi; mentre tale collegamento non si rintracciava nelle femmine.  E così è oggi anche nella nostra casistica. La condizione di disagio femminile è trasversale e quindi coinvolge  tutte le donne: si deprime la donna con lavoro come la casalinga. Non è vero che c’è maggior prevalenza di disagio nelle casalinghe per cui la prevenzione della depressione è buttarsi nel lavoro. No. Perché il lavoro esterno è considerato dalla donna come lavoro in più, che  non mette mai in dicussione il lavoro per la famiglia; il lavoro esterno si aggiunge a quello per la famiglia (lavoro di cura)  quindi questo non agisce sempre da fattore di protezione, o da fattore di riequilibrio dello stress familiare; molto spesso anzi vi possono essere condizioni sul lavoro in sè stressanti che agiscono da potenziatori dello stress familiare.

            Così non  ci sono differenze di cultura: sia le donne analfabete, sia quelle con la V° elementare, con la 3° media con il diploma o laurea,   possono ammalare.

            Se non vogliamo attribuire tutto alla biologia, alle caratteristiche quali passività e dipendenza, qual è l’altra cosa che unisce e accomuna tutte le donne e che potrebbe essere un fattore di rischio e di vulnerabilità di tutte le donne?

 

IL LAVORO DI CURA. Il lavoro di cura per la famiglia è secondo noi  il primo fattore di rischio per le donne. E come mai mi direte voi? Qui ci dovrebbero venire incontro due concetti, che noi come gruppo di Napoli abbiamo studiato  separatamente e che poi abbiamo messo insieme: uno è lo stress l’altro è la dipendenza. Nel lavoro di cura noi troviamo questi due elementi che sono poi quei due elementi che costituiscono la depressione.

Lo stress della donna lo abbiamo studiato in una ricerca fatta all’interno del progetto finalizzato quinquennale (92-97) del CNR ( Consiglio Nazionale delle Ricerche) sui Fattori di Malattia e Stress. E questo studio è stato il nostro lavoro di riappropriazione del concetto “stress” che stava tutto su un altro terreno. Stava sul terreno delle patologie cardiovascolari e del maschile. La donna non è mai stata compresa adeguatamente in questi studi.

            Ricordo che ci fu un convegno al CNR in quel periodo e che erano presenti con le loro relazioni  i vari professori emeriti della psichiatria. Io dovevo relazionare sul mio gruppo di lavoro e cominciai a parlare, per spiegare di che cosa si componeva il disagio femminile, di quante volte la donna del mio territorio faceva le lavatrici e quante volte cucinava, per dare degli elementi di concretezza a un disagio. Mentre gli altri si stavano chiedendo cosa io stessi dicendo, c’era un professore di Harvard, invitato al convegno, Richard Mollica, che aveva lavorato con le donne fuoriuscite dal Laos e dalla Cambogia con depressione grave. Lui era l’unico che dava un riscontro alle cose che dicevo, con  attestati di sintonia ed empatia, proprio perché anche lui lavorava sulla concretezza della depressione. E quindi riconosceva nel mio linguaggio in questa metodologia, la sua.

            All’epoca capimmo che all’interno della psichiatria potevamo essere all’avanguardia quanto volevamo ma non riuscivamo a diffondere una informazione diversa tra le persone, tra gli operatori e tra le donne. Tenete presente che ancora oggi nella psichiatria non si fa prevenzione. È l’unico settore  che non prevede una prevenzione: il biabete, le malattie cardiovascolari, con tutte si fa prevenzione, e per tutte la prevenzione costituisce l’obiettivo principale .Vi risulta questo? Perfino per il cancro ci sono le linee sulla prevenzione. Bene nella psichiatria no; avete mai sentito qualcuno dire di come fare a prevenire la depressione?

 

Dal pubblico:

“si, vanno i propagandisti psichiatrici nelle scuole a dire che alle prime avvisaglie è necessario prendere i farmaci”

 

 

Bravo! È vero, in America quest’anno gli articoli parlano di questo, e cioè si riduce l’età  in cui si inizia a prendere lo psicofarmaco. Questa è la massima prevezione. Perché? È chiaro: si ammalano più donne, le donne sono il principale oggetto di studio della psichiatria, ma per le donne vi è una eziologia cieca (gender blind) ed anche blindata: non si va più avanti del ciclo ormonale e delle sue variazioni mensili, stagionali, epocali Per questa strada non c’è possibilità di prevenzione che non sia manipolazione artificiosa di un percorso biologico. Per quella strada non si coglie la prevenzione e questa è un’altra prova che io vi offro, per far vedere come sia una strada senza uscita.

 

Proprio sul tema della prevenzione riprendiamo il discorso sulla ricerca stress fatta nel CNR.

            A quell’epoca (inizio anni 90) lo stress ci sembrava il trait d’union tra l’individuo e l’ambiente, perchè lo stress è proprio per definizione la relazione tra un evento esterno, lo stressor, e la risposta di un individuo. La teoria dello stress ha investito le scienze mediche ed ha portato a discutere di prevenzione, sopprattutto nelle malattie cardiovascolari, che sono quelle che hanno fatto dello stress il loro cavallo di battaglia. Tutte le ricerche sullo stress hanno come riferimento le patologie cardiovascolari. Fino all’inizio degli anni 90, dovete sapere che vi era opinione diffusa che le donne non si ammalassero di patologie cardiovascolari, non avessero infarti ecc....Poi ora, a partire dagli ultimi 5 anni in Europa ed in Italia e dagli ultimi 10 anni in America, si è visto con dati alla mano che le donne ammalano come gli uomini ed in una determinata fascia di età più degli uomini, o in modo più severo.  Per ottenere questo cambiamento di prospettiva circa 10 anni fa c’è stata una vera rivoluzione delle donne americane che hanno messo sotto accusa la cardiologia (dovete sapere che le femministe in America rappresentano una forte lobby), hanno mostrato come ci fosse un grave pregiudizio per la salute della donna - ed era vero, perché nelle donne veniva sottovalutato il rischio cardiovascolare-  hanno mostrato come le donne fossero sotto-diagnosticate, arrivassero tardi all’intervento, ed inoltre hanno mostrato come gli interventi sul cuore nelle donne fossero maggiormente accompagnati da esiti letali. All’epoca si vide in particolare che le conoscenze biologiche sull’apparato cardiovascolare delle donne non erano attendibili, perchè questo non era stato studiato nello specifico: ad esempio non erano state misurate le arterie delle donne, ed il “palloncino” per l’intervento di angioplastica tarato sulle arterie maschili causava nelle donne, che hanno invece arterie più piccole degli uomini,  più facilmente la rottura dei vasi con esiti letali.

            Allora esiste,  ed è importante che sia osservata, anche una biologia diversa che va al di là della solita differenza dell’apparato riproduttivo e del ciclo ormonale. L’unica differenza studiata ed addirittura sopravvalutata è quella sessuale e riproduttiva, ma che esista un cuore, un’arteria e un fegato da valutare all’interno del corpo femminile, separatamente da quello maschile ovvero specificamente, non è stato preso in considerazione per lungo tempo.

 

            Farò una breve parentesi, perchè non avremo il tempo di  fare anche questo percorso, che coincide con il lavoro attuale del nostro gruppo sulla promozione della salute della donna nel suo complesso. E questo lavoro è partito alla fine dalla ricerca sullo stress (1998) nell’incontro avvenuto in quel contesto di ricerca  con la critica alla cardiologia “gender blind”.  Si è costruito un intreccio, al livello nazionale, tra il nostro lavoro e quello di altre ricercatrici: cardiologhe, prima di tutto, ma poi anche gastroenterologhe, mediche del lavoro, farmacologhe, oncologhe, ecc. ecc. Questo intreccio ha portato alla pubblicazione di due volumi: Una Salute a misura di Donna, pubblicato con il Ministero Pari Opportunità nel 2001; e la Guida alla Salute della Donna di prossima pubblicazione.[1]

            Il lavoro, a più mani e teste pensanti, punta a mostrare come vi siano due pregiudizi che pesano nella medicina a sfavore delle donne: la mancata applicazione di criteri di differenza di genere e parità tra i sessi.(lucidi 8-9-10)

 

            Questo discorso, della mancanza di studi adeguati sulla differenza di genere e sulla parità di trattamento, vale anche per i farmaci e per gli psicofarmaci che non sono testati adeguatamente sulle donne.  

            A parte  tutto quello già detto circa  gli psicofarmaci che occupano oggi nella psichiatria uno spazio abnorme perchè occupano anche quello della prevenzione, c’è da aggiungere che non sono tarati ovvero sperimentati su campioni femminili.  I trials clinici anche quando comprendono le donne, non portano a risultati analizzati separando i dati per sesso : per cui non si sa ancora oggi quali siano gli effetti indesiderati che più possono colpire le donne rispetto agli uomini, e non si conoscono i dosaggi adeguati a loro.  La sperimentazione in sintesi  viene fatta su campione misto a prevalenza maschile anche se le più grandi consumatrici di psico-farmaci sono proprio le donne. I risultati ottenuti non vengono disagreggati per sesso quindi noi non sapremo mai specificamente che effetti avranno sulle donne quei farmaci. Poi succede che nella pratica clinica oggi si osserva che le donne patiscono più degli uomini effetti collaterali indesiderati, e  maggiori conseguenze da sovradosaggio.

 

            Ora prima di fare un passo avanti e soffermarci sulla DIPENDENZA, dobbiamo dire che lo stress è importantissimo perché è l’unico che ci pone in contatto con la prevenzione.

 

 

            Gli studi su genere e stress[2], quelli che noi ci siamo trovate davanti, mettevano l’accento su due tipi di correlazioni: sul genere maschile c’erano numerosissimi dati epidemiologici e tutti centrati sulla sfera del lavoro produttivo, in particolare si era studiata la correlazione positiva tra lavoro del manager, con alte responsabilità  e la patologia coronarica. Mentre sul genere femminile c’erano pochi e scarsi dati, scarsa rappresentatività degli studi  e scarsa significatività del collegamento tra stress femminile e lavoro. I lavori delle donne si sa occupano i livelli più bassi della scala sociale e non sono equiparabili al lavoro del manager considerato prototipo dello stress.

 

            Nell’ambito di queste ricerche il nostro gruppo di lavoro è entrato sviluppando un’idea di lavoro complesso fatto dalla sommatoria del lavoro produttivo e di quello riproduttivo e di cura. Solo in questo modo poteva emergere il complessivo carico di lavoro femminile con il suo  carattere altamente stressante. Quando nelle ricerche si prendeva in considerazione il lavoro dentro e fuori casa si vedeva che le donne aumentavano e raddoppiavano il sovraccarico e gli indici di stress rispetto agli uomini, i quali in prevalenza  non erano gravati dal doppio lavoro.

            Quindi ricercando su uomini e donne con il criterio del doppio lavoro, nelle donne si avevano due valori positivi per lo stress e per gli uomini in genere uno positivo ed uno negativo. Quindi nella valutazione complessiva dell’attività lavorativa fuori e dentro casa c’era una sorta di minor stress per gli uomini rispetto alle donne.

            La pressione del lavoro domestico di cura pesa sulle donne anche quando lavorano fuori casa e ciò spiega come molte ricerche sullo stress di uomini e donne affermano che: “ I livelli di stress che le donne hanno al lavoro sono maggiori di quelli degli uomini a parità di mansioni”.

            Mentre ciò in un’ottica biologistica, pregiudizievole per le donne, poteva essere interpretato con il fatto che “le donne erano più deboli, più fragili e non tollerano la fatica” in un’ottica di genere, che tiene conto del doppio lavoro delle donne, può essere spiegato in termini di maggiore sforzo complessivo delle donne rispetto ai colleghi uomini.

 

            Anche la depressione viene rivista e ricollocata nella teoria sullo stress.  La depressione, si è in genere affermato,  è ritiro dal confronto con lo stimolo stressante.

            In questo modo la patologia che colpiva più le donne era fuori da un rapporto con lo stress e la fatica, proprio perché la depressione veniva concepita come ritiro dal confronto con l’evento stressante.

            La depressione colpisce invece, come risulta dalle nostre ricerche e non solo, quelle donne che sono più attive. La depressione è, dal nostro punto di vista  una patologia da sovraccarico. Non è però riconosciuta, perché non ci sono gli indicatori per riconoscerla come tale. Nella depressione abbiamo visto, sia nella clinica che nella nostra attività di  ricerca (lucido11), che vi è sovraccarico antecedente all’evento depressivo. Che la risposta depressiva può arrivare sia nel corso del fronteggiamento dell’evento stressante, ovvero quando ancora non si è raggiunto l’obiettivo,  sia alla fine di esso, quando gli obiettivi sono stati raggiunti.  In ogni caso ciò che distingue il percorso della depressione da altri percorsi e tipologie di break-down, è che l’azione di fronteggiamento dell’evento stressante, anche quando si risolve positivamente, non accresce la stima di sè, non si colloca cioè in un progetto di accrescimento di risorse, capacità, competenze personali, nè si risolve in una crescita di stima sociale e di riconoscimenti esterni.

            La depressione è quindi collegata con la riduzione della stima di sè, ma questa non è come si pensa abitualmente da collegare  con una  dimensione costituzionale  della personalità femminile. Essa si collega invece a tutta quella attività, investimento di risorse ed energie psichiche verso il benessere altrui, così come il lavoro di cura sembra richiedere alla donna.

            Se poi valutiamo la depressione come reazione che si innesta nel corso di una risposta di fronteggiamento ci troveremo di fronte a quella situazione tipica indicata da tutti gli studi sullo stress:  il break down, la risposta da stress, è relativa non solo alla qualità ovvero intensità dello stimolo stressante ma anche alla durata della esposizione allo stimolo stressante e questa a sua volta è relativa  alla motivazione che una persona ha nell’affrontare l’evento stressante, alla valutazione dell’importanza per sè o per altri della propria azione di fronteggiamento. Se la motivazione è elevata, allora la persona è disposta maggiormente a persistere nell’azione di fronteggiamento anche quando si diano dei segnali di cedimento dell’organismo psico-fisico.

            L’analisi dello stress così deve incarnarsi nelle biografie personali e nelle storie di vita per essere compreso e valutato: la qualità/intensità dello stimolo deve poter essere quantificato; la motivazione personale o meno deve essere rintracciata, così come devono essere studiati il tempo di esposizione, e la  reazione ai segnali di allarme, che sempre si danno quando il tempo di esposizione allo sressor travalica un certo limite.

            Partiamo dall’esempio del manager il cui lavoro  è stato indicato tipicamente come  elevata fonte di stress e correlato storicamente con la il break-down fisico e la patologia cardiovascolare. Il manager tipicamente è uno che lavora anche 12 ore e più al giorno, che è poco presente in famiglia, che è orientato ala carriera, che mangia in fretta, che dedica poco tempo al divertimento, dorme poco, ecc.ecc.  Ma mentre fa questo lavoro accumula crediti per se stesso: sviluppa più potere, ha più riconoscimenti economici, in una parola trae soddisfazione personale da quello che fa. Oltre tutto è consapevole che quello che sta facendo è un lavoro duro, la letteratura sull’argomento lo rende consapevole di ciò. E’ consapevole dei rischi che corre, ed il manager li corre con una certa consapevolezza, essendo sempre possibile la scelta di fermarsi qualora il gioco non valga la candela (in termini di riconoscimenti ed avanzamenti di carriera). Può succedere che se un manager di successo scelga di non modificare lo  stile di vita anche quando avverte scricchiolii, e può succedere che l’infarto lo colga mentre lavora. Ma nella sua biografia sarà scritto che era un uomo nel pieno della carriera, che è stato ucciso dal troppo lavoro, e vi sarà anche una connessione accertata sul piano medico- legale tra il lavoro e l’evento fatale.

            Confrontiamo ora questa situazione con quella della nostra donna, ed anche con una donna che oltre al lavoro domestico abbia il lavoro esterno. Pensiamo ad una insegnante o ad una segretaria ( i lavori femminili più tipici). La donna in questione ha un lavoro di circa 6-8 ore al giorno nella sfera pubblica senza grosse responsabilità e senza mirabolanti carriere, un lavoro poco considerato nella scala degli stressors. Ma poi aggiungiamo l’altro lavoro, il lavoro di cura, osserviamolo come osserveremmo il lavoro esterno e quello di un manager e vedremo che il lavoro di cura è un lavoro di questa stessa tipologia, è un lavoro di tipo manageriale con grandi responsabilità e ritmi stressanti cui si deve aggiungere anche il lavoro esterno con minori responsabilità.

 

             Il lavoro di cura degli altri, di cui quello verso un figlio è il prototipo, è un lavoro le cui caratteristiche non sono rintracciabili in nessun altro tipo di lavoro. E' un lavoro che potrebbe essere definito "impossibile" perchè non è limitato nel tempo, non ha pause, nè interruzioni, è incessante, pone problemi di responsabilità illimitata, ed in qualsiasi momento e per un qualsiasi motivo, la donna potrà essere chiamata a rispondere degli accadimenti che implicano la salute di coloro affidati alle sue cure (figli, ma non solo). Ma questo lavoro a differenza di quello del manager non è riconosciuto come lavoro stressante, come lavoro altamente stressante ed usurante, per cui la donna è inconsapevole del processo di usura cui è sottoposta. Ciò non le permette di conoscere i segnali di allarme, tra cui  tipica è la stanchezza, che non si sa a cosa attribuire; mentre il manager sa che può sentirsi stanco per il suo lavoro, ma poi può decidere di prendere tanti caffè per non dormire, consapevole che l’obiettivo è per lui più importante.

            La donna no, non sa che il suo è un lavoro usurante, non sa che la stanchezza è collegata al lavoro, e soprattutto non sente di poter scegliere, di poter fare altrimenti, perchè sembra che questo “lavoro” sia per “natura” attribuito a lei e quindi non è delegabile in nessun momento.

            Ma ancora con le differenze: se il manager continua nel lavoro a rischio per la sua salute, lo fa perchè la motivazione è elevata ed è sostenuta dai riconoscimenti esterni e da gratificazioni personali: diremmo che è sorretto da una elevata etero-stima ed autostima, che si considera onnipotente, ecc.

            La donna molto frequentemente in questo lavoro usurante non ha riconoscimenti dagli altri anzi viene frequentemente svalutata, ed il suo lavoro disprezzato dalle persone cui è rivolto, non si sente potente e non ha modo di autostimarsi se è sottoposta a disistima e svalutazione.

            Alla fine se la stanchezza la coglie e la mette a letto, sarà una stanchezza non solo fisica, quella di chi riconosce che fa un lavoro usurante e se può scegliere, si mette a riposo con il sostegno ed il consenso di tutti; ma sarà una stanchezza anche psichica quella cioè che si accompagna alla fine della motivazione, tipica di chi dal suo lavoro non ha tratto e non trae alcun beneficio personale, e soprattutto nessun alimento psichico ( stima, gratificazione, accrescimento di risorse personali).

 

            La depressione alla sua origine, se si procede con una ricerca storico-biografica centrata sulla persona e sulle sue relazioni, è allora il  break-down dopo il fronteggiamento dello stimolo stresssante; non è ritiro dalla risposta.

 

            Nel lavoro di cura alla fine troviamo quel potente fattore di stress che crea il terreno fertile per il break-down con lo stesso percorso che riconosciamo al lavoro manageriale. Ma in più il lavoro di cura degli altri si sostanzia nella negazione della cura di sè ovvero nella negazione dei desideri ed aspirazioni personali ( a differenza di quello del manager).

 

            Il lavoro manageriale assunto come prototipo del lavoro stressante,  non contiene un rischio depressivo perchè si collega, generalmente con gli obiettivi di riuscita personale e di accrescimento della stima di sè.

            Il lavoro di cura che pesa sulle donne nella loro generalità ha quegli stessi caratteri stressanti del lavoro manageriale per carico di lavoro, responsabilità, ritmi incessanti, ecc. ecc., ma non si collega con gli obiettivi di crescita personale e di aumento della stima personale. Ciò determina i due percorsi statisticamente diversi: i manager viaggiano a preferenza verso il rischio cardiovascolare in età giovanile, e le donne giovani verso il rischio depressivo

 

            Ma esiste un altro correlato della depressione attribuito come struttura di personalità alle donne che viene considerato fattore di rischio specifico per la depressione: LA DIPENDENZA.

            Questo collegamento tra depressione e dipendenza costituzionale delle donne è un altro pregiudizio di genere che ostacola il riconoscimento della reale natura della patologia depressiva nelle donne ed ostacola la strada della prevenzione

            La critica al concetto di dipendenza femminile è contenuta nell’analisi di una specifica qualità del  lavoro di cura  che oltre a costituire un carico di lavoro in più per le donne rispetto agli uomini, stimola lo sviluppo di uno stile comportamentale improntato alla passività ed alla dipendenza. Vediamo come e perchè.

 

            La dipendenza finora è stata vista come un profilo di personalità associato alla passività ed attribuito principalmente alla donna o alla femminilità. Ritorniamo ad Arieti e Bemporad  che hanno messo in mettono in risalto il legame tra un tipo di personalità e la depressione: “vi è un tipo di personalità associata alla depressione  che ha necessità di piacere gli altri e di agire secondo le aspettative altrui, non ascolta i propri desideri, non conosce cosa significhi essere se  stesso" (Arieti S., Bemporad J.,1981, Milano).

 

            Passività e Dipendenza nell’analisi del lavoro di cura sono invece modalità di erogazione della cura: per curare gli altri è necessario attendere ai loro bisogni, silenziando i propri, ascoltare, attendere, essere pronti.... La cura degli altri richiede come metodo e stile di lavoro  proprio quelle qualità che gli psichiatri vedono alla base della personalità depressiva.

            Il lavoro di cura con queste caratteristiche allena la donna alla rinuncia, alla passività, alla dipendenza dai bisogni di gratificazione altrui, e induce il silenziamento dei propri bisogni e dei propri desideri. ( lucido 12)

            Ma quando la contrapposizione è radicale, quando la contrapposizione sfiora i limiti della sopravvivenza personale psichica o fisica, si genera quel conflitto di interessi, che per la donna può determinare il blocco della prassi: ovvero la depressione, rappresentata da quella frase tipica delle donne che raccontano la loro depressione dicendo: allora mi sono stancata, allora mi sono messa  aletto, allora ho smesso di lottare........( lucido 13)

            Ma al di là dei casi estremi, del blocco totale dell’iniziativa, sempre il conflitto di interessi  crea al minimo rallentamenti, indecisioni, insicurezza, quei tratti tipici che si presentano anche prima della depressione. In definitiva il lavoro di cura sviluppa uno stile comportamentale caratterizzato dalla rinuncia /affievolimento  dei propri interessi/bisogni che è oggettivo alleato della risposta depressiva, intesa questa come  perdita del riferimento personale nelle varie attività quotidiane. ( lucido 14).

 

            In definitiva se è stato dimostrato a sufficienza che  il lavoro di cura con le sue attribuzioni improprie, con il mancato riconoscimento del lavoro in esso contenuto, con gli atteggiamenti svalutativi che frequentemente si associano, è il fattore di rischio principale per la depressione nella vita della donna, possiamo finalmente  abbandonare il terreno pregiudiziale della eziologia biologica nella depressione femminile e valutare tutti i comportamenti e le informazioni socio-ambientali, oltre che psico-sociali e psico-fisiche,  per sviluppare una prevenzione “ possibile”.

 

            Un’ultima osservazione la riserviamo al rapporto madre-figlia all’interno del problema del sovraccarico familiare e di cura che grava oggi in misura totale o ancora preponderante sulle donne.

            Se una donna ha una figlia adolescente, ed ha bisogno di avere un supporto, di condividere, di alleggerirsi del lavoro di cura, chiamerà molto probabilmente la figlia a questo ruolo di supporto e di condivisione.

            In tutte le storie delle adolescenti che sono arrivate al nostro centro abbiamo trovato una funzione di supporto svolta per una madre sovraccaricata, e frequentemente con un cattivo rapporto con il partner, a sua volta non supportivo e non co-gestore del lavoro e delle responsabilità familiari. A volte non solo il partner non è compresente nel lavoro di cura, ma si pone come colui che svaluta e maltratta la donna.

            Questa funzione di supporto sia pratico che soprattutto emotivo, che l’adolescente femmina è chiamata a svolgere, in misura maggiore dell’adolescente maschio, ha un costo psichico. E il modo più tipico in cui si “ammala” la ex adolescente chiamata a svolgere questo ruolo, è quello relativo al rapporto di coppia.

            Perché secondo voi? Perché la figlia sovraccaricata di questo ruolo se non blocca il suo sviluppo personale ed i suoi interessi, nel mentre svolge questa funzione di supporto, a qualcosa deve rinunciare per dare aiuto alla madre:  al minimo rinuncia ala socialità allargata, al minimo si chiude nel rapporto di coppia percepito come “sostegno” al suo essere “sostegno” al rapporto di coppia ed alla madre.

            Ciò quindi se non realizza una patologia nella fase adolescenziale ( che è sempre possibile ed anche frequente, ma unitamente ad altri fattori, oltre il supporto alla madre e alla così detta inversione dei ruoli madre-figlia), realizza però una “vulnerabilità” che peserà nelle relazioni di coppia rendendo spesso la ex adolescente più “tollerante” alle esigenze del partner, vissuto come centro della vita di relazione.

            L’adolescente non è stata indirizzata a sviluppare la competenza nei rapporti sociali, nelle relazioni di gruppo, non ha potuto verificare la bontà del sostegno che un gruppo può offrire, mentre si è diretta a considerare come sostegno valido solo o principalmente  un rapporto di coppia, il rapporto con il partner.

            Questa pratica adolescenziale, questa idea, creerà, nei possibili e futuri conflitti di coppia, che si sa  possono  essere distruttivi per  la identità personale, una sorta di impaccio, difficoltà allo svincolo dalla coppia e dalle relazioni maltrattanti e distruttive.

            Così verifichiamo nella nostra pratica clinica che molte delle donne-madri  che vengono da noi non hanno relazioni sociali al di fuori della famiglia, non hanno amiche, non hanno complicità esterne, e quando i partners diventano abbandonici o maltrattanti cercano complicità e comprensione dalle donne-figlie.

            Il risultato di questa relazione madre-figlia è la sottrazione di risorse psichiche alle figlie e l’addestramento alla chiusura sociale; al contrario non si addestra l’adolescente allo stare insieme agli altri, che è per eccellenza uno dei fattori di protezione dalla depressione.

            Ecco così che se una madre sovraccaricata chiama un’adolescente al ruolo di supporto, questa viene privata della possibilità di costruire la sua protezione da futuri eventi stressanti e dalla depressione in particolare.

            Ma non solo: la ragazza adolescente prima dell’esperienza concreta della maternità, attraverso questo “praticantato al supporto” costruisce un proprio habitus mentale nell’atteggiamento di valutare e correre dietro ai bisogni degli altri (questa volta la madre) prima  che ai propri. Cioè comincia nell’adolescenza a mettere al primo  posto gli altri, a costruire in questo modo  lo stile di comportamento della “dipendenza” e della “passività”, corollari indispensabili del lavoro di cura, quando è intesa ( e ciò succede nella maggioranza dei casi) come attività di servizio rivolto esclusivamente o prevalentemente al benessere degli altri, con penalizzazione e colpevolizzazione delle pratiche di “cura di sè e del proprio benessere”.

            Esistono dati dell’adolescenza maschile e femminile che ci dicono che nell’infanzia maschi e femmine manifestano uguali percentuali di disagio psichico.

             Le differenze per la vulnerabilità alla depressione cominciano invece nell’adolescenza, anche per l’epidemiologia psichiatrica; ma dalla psichiatria vengono interpretate solo come problemi biologici all’inizio tormentato di un ciclo ormonale femminile diverso da quello maschile.

             Mentre al contrario la vulnerabilità femminile alla  depressione secondo noi si può attribuire a questa esperienza del doppio carico di responsabilità che l’adolescente comincia a sperimentare quando è chiamata a fare da supporto ( da madre potremmo dire) alla propria madre, dovendo già in questa età fare i conti con la rinuncia, l’abdicazione ai propri progetti di autonomia ed affermazione personale.

 

            Per quanto riguarda il trattamento, e finisco, diciamo che il percorso fatto per collegare la depressione femminile con lo stress ed il lavoro di cura nei suoi aspetti quantitativi e qualitativi, ci permette di agire con tutti altri strumenti di quelli psichiatrici: strumenti  che ci indicano finalmente la possibilità di fare prevenzione prima di tutto, come abbiamo fatto oggi qui con voi, attraverso una informazione corretta dei processi di malattia così come si originano a partire dalla vita quotidiana e dalle concrete biografie delle persone.

 

DOMANDE

 

D. “Lei ha detto all’inizio una cosa che mi ha colpito e cioè che la 180 non aveva proprio toccato le   donne. Volevo sapere come mai e cosa potremmo fare noi oggi in vista della Burani Procaccini?”

R. “La 180 non fece niente perché negò che ci fossero delle differenze tra maschile e femminile e che ci fossero quindi eziologie psico-sociali diverse. Negò quindi valore alla soffernza femminile, legata al lavoro familiare, al lavoro di cura. Come la nega oggi nel senso che la psichiatria e la medicina vedono oggi nella donna solo un’alleata per praticare le cure al malato psichiatrico ( maschio) in famiglia.. Mettere in crisi il lavoro di cura significa non dire alla donna che se suo figlio è “malato” e la picchia di non scappare, anzi di stargli più vicino amorevolmente. Ecco queste parole che la psichiatria potrebbe dire sono esattamente contrarie a quelle che potremmo dire noi in difesa della donna. Perché la famiglia sta tutta sulle spalle delle donne, le politiche sulla famiglia sono tutte politiche che  stressano e colpevolizzano le donne.

            Nella psichiatria in realtà c’è poco da fare, nella psichiatria si gestisce il disagio, impera lo psicofarmaco e poi soprattutto le uniche cose alternative che si fanno riguardano parte del malessere maschile: il problema lavorativo.  

            E per le donne che cosa si fa? La psichiatria dovrebbe ammettere che c’è una differenza uomo-donna e valutare le diverse eziologie del disagio ed i diversi trattamenti. Poi vi è anche un problema in più: il disagio maschile spesso sconfina nella violenza che ha in prevalenza le donne come vittime. La psichiatria dovrebbe fare chiarezza su questo punto:  la violenza non significa avere un disagio, la violenza fa parte di una risposta culturale e non è espressione di un disagio. Vi sono alcune diagnosi psichiatriche che ammettono ed includono al proprio interno la pratica della violenza e dell’infliggere ad altri le sofferenze, in genere alle donne (lucido 15). Questo dovrebbe essere rivisto: la psichiatria dovrebbe ammettere al minimo disagi diversi, dovrebbe trattare diversamente le patologie della vittima dalle patologie del maltrattatore. Ma sappiamo che si occupa molto di più di maschi violenti anzicchè di donne vittime. La psichiatria soccorre la violenza maschile prestando le sue categorie interpretative per capire la violenza maschile. Ma assolutamente non si piega a capite le patologie della vittima: la depressione è la patologia tipica di chi subisce ed è vittima di soprusi. Ma è poco sviluppata la eziologia da maltrattamento e violenza che invece dovrebbe essere la prima causa da valutare in rapporto ad uno stato di depressione anche grave di una donna. I dati dell’OMS che  parlano di un 50% di depressione nelle donne attribuibili ad una eziologia da violenza/maltrattamento, dovrebbero venire in soccorso degli psichiatri per modificare i loro strumenti diagnostici e le loro teorie.

           

            Sicuramente oggi quello che c’è da fare è costruire nuovi servizi di ascolto per le donne che critichino i pregiudizi e che inquadrino i loro problemi quotidiani di stress e di maltrattamento.

             Quando noi abbiamo aperto il centro nel 1978 non avevamo queste idee sulla depressione e sul disagio psichico;  tutte queste cose, le abbiamo imparate ascoltando le donne.


 


[1] La guida alla Salute delle Donne è stata pubblicata nel settembre 2003. Ambedue i testi sono rintracciabili e scaricabili ai seguenti indirizzi:

1) http://www.salutementaledonna.it/updated.htm

2)http://www.salutementaledonna.it/guida_alla_salute.htm

http://www.palazzochigi.it/cmparita/commissione/attivita/pubblicazioni/mente_cuore_braccia/

 

[2] Per una più esaustiva disamina degli studi su genere e stress puoi confrontare l’articolo pubblicato dalla rivista dell’INPS, consultabile al seguente indirizzo: http://www.salutementaledonna.it/stress_e_genere.htm

 

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