Il posto della donna nella storia della
psichiatria
Ciò che in questa sede ci interessa evidenziare è
il legame particolare che di fatto ha da sempre unito la scienza psichiatrica
alla condizione femminile. La comprensione di un tale legame offre la possibilità
di leggere l'intreccio spesso oscuro tra ruoli, competenze, funzioni sociali
proprie dell'essere donna, da un lato, e i compiti istituzionali della
psichiatria, dall'altro.
IL RAPPORTO TRA SCIENZA PSICHIATRICA E RUOLO FEMMINILE
La lettura che proponiamo, che è comunque una delle
possibili letture del problema, risulta senz'altro più soddisfacente dal punto
di vista femminile; essa infatti permette di illuminare una serie di questioni e
di nessi che in altro modo risultano trascurati o considerati di poco conto
nella formazione della malattia mentale. Facendo riferimento all'analisi della
condizione femminile si può infatti ride- finire la funzione della psichiatria
come prevalente funzione di controllo dei comportamenti di ruolo sessuali e
familiari.
Il ruolo
sociale «donna»
La condizione di vita della donna è definita dalla
necessità di assumere una serie di
funzioni legate al suo specifico lavoro riproduttivo; dall'espletamento
di queste funzioni dipende infatti per la donna la possibilità di
percepirsi e di essere percepita
come tale. I doveri sociali che originano dalla funzione riproduttiva hanno un
carattere particolarmente cogente: rivestire il ruolo di
figlia, di madre, di moglie significa nelle varie tappe di vita della
donna assumersi contestualmente una serie di mansioni lavorative che non trovano
una analoga corrispondenza nel ruolo simmetrico e opposto: quello
maschile. I compiti attribuiti al
ruolo materno (riproduttivo) appaiono come compiti
«naturali», in quanto aventi la loro origine nella predisposizione
biologica di un sesso alla cura
della prole. Questi compiti,
inizialmente assunti come compiti curativi-affettivi esclusivamente rivolti alla
prole, si trasformano nella vita quotidiana in funzioni lavorative con tempi e
ritmi precisamente individuabili e quantificabili. Essi inoltre si dilatano fino a coprire ogni funzione di cura sia
affettiva sia materiale che riguardi il contesto di vita familiare e sociale.
Nel campo sociale infatti la professionalità femminile è imbevuta di criteri
assistenziali-curativi che
costituiscono una chiara estensione delle funzioni familiari.
Le
mansioni curative della prole e del contesto familiare sono richieste in modo
esclusivo alla donna, e solo in alcune situazioni emancipatorie sia la donna
stessa sia il contesto considerano legittima la possibilità di delegarle. Le
deleghe sono comunque parziali, e soprattutto non sottraggono alla donna la
responsabilità della gestione complessiva e della buona conduzione di queste
mansioni e funzioni. Il ruolo riproduttivo appare quindi da un lato come
espressione «naturale» della femminilità; dall'altro, come insieme di compiti
e mansioni che la società richiede alla donna perché la si possa
legittimamente identificare come tale.
La
trasgressione del ruolo
Dalle funzioni previste per il ruolo femminile
discendono le aspettative socia- li: queste per le donne sono tante e
diversificate, e soprattutto non se ne rintracciano di analoghe per quantità e
qualità nel corrispondente ruolo maschi- le. Queste aspettative sono di
carattere sociologico e non attengono alla sfera del diritto: se la donna viene
meno alle aspettative che riguardano la funzione riproduttiva (il fare la madre
in un determinato modo, essere moglie di un certo tipo, etc.) non incorre in una
sanzione giuridica, ma sicuramente in una censura morale. La donna che
trasgredisce i suoi doveri viene meno a quella precisa funzione
materno-riproduttiva che la identifica come soggetto sessuale e sociale al tempo
stesso. Il ruolo sessuale femminile è definito infatti in base ad adempimenti
lavorativi e a funzioni produttive (lavoro familiare, domestico, educativo,,
assistenziale, etc.); esso è al tempo stesso identità sessuale ma anche
sociale, in riferimento ai compiti richiesti dalla società alla donna per
l'espletamento della funzione riproduttiva. La censura sociale che alla donna
deriva dall'aver mancato alle sue funzioni diviene anche non riconoscimento
della 'sua identità sessuale. Dall'esperienza di rottura con la propria identità
sessuale che la donna ha nel momento in cui viene meno alle aspettative sociali
che riguardano il ruolo materno, emerge il rapporto privilegiato con la
psichiatria. La psichiatria offre infatti alla donna la possibilità di
considerare la deroga dalle sue funzioni di ruolo come «malattia» del corpo o
della mente. Il giudizio psichiatrico di malattia lascia la possibilità alla
donna di essere considerata incolpevole perché non responsabile di determinate
deroghe. La deroga di cui la psichiatria si occupa è quella che non appartiene
alla sfera del diritto. Là dove il diritto interviene ci si trova di fronte ad
aspettative e funzioni di ruolo vincolanti, ove la trasgressione implica una
sanzione giuri- dica. La deroga di cui qui si parla ha al contrario come
referente la sfera dei rapporti definiti naturali, come naturale è definito il
ruolo materno. I rapporti naturali trovano a loro volta le radici nelle
determinazioni biologiche dell'individuo: età, sesso, costituzione fisica.
Questi elementi determinanti la sfera della cosiddetta natura non hanno tutti la
stessa intensità ed estensione. Le
differenze sessuali, per esempio, hanno una permanenza e una
stabilità che gli altri determinanti,- età e costituzione fisica, non
hanno. Il ruolo femminile relativo
alla determinazione sessuale accompagna certamente
la donna in tutte le fasi e le epoche della sua vita. Ogni altro ruolo «naturale» può essere assunto solo transitoriamente dall'individuo:
tipico, per esempio, quello del
fanciullo o dell'anziano che è relativo alle diverse età biologiche.
Tra i ruoli sessuali, poi, quello femminile ha senza dubbio una maggiore
estensione qualitativa: esso infatti non si sostanze solo di ritmi biologici e
di funzioni affettive, ma anche di compiti e mansioni lavorative. - '
Nel ruolo sessuale maschile la funzione produttiva e quella riproduttiva
coesistono occupando sfere diverse. Il lavoro inerente la funzione riproduttiva
paterna è totalmente compreso nel lavoro sociale: infatti mentre lavora
l'uomo adempie indirettamente anche ai compiti di accudimento e di mantenimento
della prole. Per la donna le cose stanno diversamente: al ruolo riproduttivo
femminile competono di fatto compiti e mansioni lavorative specifiche e
diversificate - quanto a tempi, luoghi e contenuti - dalle mansioni
inerenti il lavoro sociale-produttivo.
Il ruolo sessuale femminile è cioè l'unico che prevede per la propria
realizzazione l'adempimento di compiti materiali e sociali specifici valutabili
e giudicabili oggettivamente nel rapporto con le esigenze di una determinata
organizzazione e struttura familiare. Solo per la donna allora la deroga dal
ruolo sessuale significa la deroga
da un preciso ruolo lavorativo socialmente necessario. Questa estensione del
ruolo femminile, che occupa senza soluzione di
continuità un campo che va dal naturale al sociale, determina la
predominanza di questo ruolo all'interno dei rapporti familiari. Vengono in
questo modo a intrecciarsi il
destino sociale della donna come colei che occupa la scena dei
rapporti naturali, affettivi, familiari, privati; e la funzione sociale
della psichiatria come funzione di contenimento delle deroghe private e
familiari. Dall'estensione del
ruolo femminile deriva quindi l'interesse della psichiatria
per la vita e la condizione della donna, e in particolare per l'analisi
della sua devianza. Se infatti la
psichiatria è la scienza che si occupa di specifiche deroghe non sanzionabili
giuridicamente, suo interlocutore preferenziale non può
che essere la donna, che per il suo ruolo e la sua posizione occupa il
maggior spazio delle aspettative
sociali radicate in ciò che è definito biologico e «naturale».
La sanzione
psichiatrica
Anche sul piano delle specifiche sanzioni
psichiatriche ritroviamo il legame preferenziale della psichiatria con la donna.
La sanzione che accompagna l'intervento di controllo della psichiatria sui
comportamenti deroganti si concretizza in quello che è il suo effetto: il
disconoscimento di responsabilità rispetto all'atto derogante, e per ciò
stesso rispetto all'individuo in tutto il suo complesso. Attraverso
l'affermazione dell'esistenza di una malattia o di un comportamento malato la
psichiatria decolpevolizza, ma anche priva di responsabilità l'individuo.
L'atto diagnostico consiste allora in una definizione sostanziale di in- capacità
e irresponsabilità dell'individuo e dei suoi atti. La definizione di incapacità
e irresponsabilità che la psichiatria attribuisce all'individuo «da curare»
costituisce per la donna solo un'estensione di un principio giuridico che
nell'Ottocento la vedeva come incapace e irresponsabile nei vari campi (penale,
civile, lavorativo, etc.) (Manfredi e Mangano, 1983). Questa incapacità che la
psichiatria assume nella interpretazione del comportamento deviante femminile è
cioè ben presente ancor prima e al di là della psichiatria: il giudizio di
incapacità ha accompagnato la storia della donna costituendo uno degli elementi
sociali della sua subordinazione. E nella storia della psichiatria è ancora ben
visibile come per la donna a giudizio di incapacità preesista e accompagni il
giudizio di malattia. Dalla particolare costituzione fisica delle donne, dalla
particolare funzione materna, dai particolari compiti che la donna deve assumere
nel sociale, la psichiatria ricava il quadro di tutte quelle limitazioni della
natura femminile che saranno poste alla base del giudizio e della
interpretazione della malattia mentale della donna.
La richiesta di
cura
Il legame tra condizione femminile e psichiatria è
risaltato ai nostri occhi di tecnici donne sia in forma qualitativa sia in forma
quantitativa, tanto nel lavoro manicomiale, tanto nel lavoro territoriale (Reale
et al., 1982). Sul piano della qualità si è constatato che i motivi che hanno
indotto l'istituzione manicomiale a segregare le donne originavano dalla
necessità di controllare la sessualità e il lavoro riproduttivo come luogo di
formazione del ruolo femminile contro ogni tipo di devianza (vagabondaggio
sessuale, turpiloquio, rifiuto del lavoro domestico-familiare, rifiuto
all'accudimento dei figli, rottura o messa in discussione «anomala» del
rapporto di coppia). In maniera diversa, i motivi del ricorso al ricovero per i
maschi originavano direttamente dalla sfera del lavoro produttivo e
dell'economico (mancanza di lavoro, vagabondaggio, mancanza di casa, mancanza di
mezzi di sostentamento, violenza sociale, etc.), oppure dalla violazione di
altre norme (penali). Sul piano della quantità, il ricorso alla struttura
psichiatrica sia pubblica sia privata ha visto un'affluenza massiccia di donne.
I dati della nostra esperienza, a partire dall'applicazione della legge 180,
parlano di prevalenza netta dell'utenza femminile. Anche i dati di altri
territori e di altre città (Arezzo, Bologna, Roma, Trieste) indicano che
l'utenza dei nuovi servizi di salute mentale sta registrando un ribaltamento
progressivo di quel rapporto che nel manicomio degli ultimi anni in Italia
vedeva una prevalenza di maschi. Questo dato, se messo in relazione con il più
frequente ricorso volontario delle donne alla struttura sanitaria e
psichiatrica, spiega il perché del ribaltamento. Nel manicomio vi è sempre
stato poco spazio per il ricovero volontario: esso è sempre stato una struttura
di controllo violenta, e difficilmente una donna vi si sarebbe rivolta
spontaneamente. D'altro canto anche il ricovero coattivo sulle donne è stato
una pratica meno diffusa in quanto l'istituzione familiare, più facilmente
dalle donne che dai maschi, ha ottenuto il consenso alla cura. Anche questo dato
si è modificato con il tempo: situazioni diverse si sono avute in aree diverse
e in epoche differenti. Ciò che comunque ci preme affermare è che negli ultimi
anni, con la trasformazione dei servizi e della risposta istituzionale, si
registra una presenza di utenza femminile che si va facendo sempre più
pressante. Questa linea di tendenza indica un percorso specifico delle donne
verso la psichiatria, percorso già documentato per altre nazioni come gli Stati
Uniti (Chesler, 1972). Si rileva così una specificità del ruolo femminile nel
maggior ricorso delle donne alla pratica di autodenuncia di malattia e di
richiesta di cura ai servizi di salute mentale.
LA DONNA TRA LAVORO SALARIATO E LAVORO DOMESTICO
Un quadro tendenzialmente più completo del legame
tra donne e psichiatria non può prescindere da alcune annotazioni sulla
situazione economica del mondo femminile nel momento in cui la psichiatria
appare all'interno del panorama scientifico ottocentesco. Il dato che ci appare
senz'altro più evidente è quella complessa articolazione del rapporto tra
donne e mondo produttivo che vede le donne lavorare negli stessi luoghi maschi,
le fabbriche, ma con la pretesa sociale di definire come illegittima questa
presenza. L'aspetto più clamoroso di ciò è la disparità di trattamento
economico rispetto al lavoratore di sesso maschile che appare al tempo stesso
effetto e fondamento di tale definizione di illegittimità. Senza voler entrare
qui nella complessa analisi. del lavoro femminile, ci sembra che all'atto della
modifica dell'assetto economico della società (genesi e affermazione del modo
di produzione capitalistico) la condizione femminile sia stata contrassegnata da
un massimo di frammentazione e separatezza di funzioni lavorative e sociali.
Se paragoniamo brevemente il posto della donna all'interno dell'assetto
sociale precedente a quello capitalistico, vediamo che la partecipazione al
lavoro produttivo sia agricolo sia artigianale non poneva alla donna particolari
problemi di organizzazione del quotidiano. L'uno e l'altro lavoro erano pensati
come prolungamento della vita domestica e non creavano alla donna quelle contraddizioni che si presenteranno invece in epoca
successiva. La donna viveva così una situazione integrata rispetto alle sue due
possibilità esistenziali e alle
sue due funzioni: il lavoro riproduttivo e quelle produttivo. Certo, questa
integrazione delle sue capacità non significa per la donna maggior potere
sociale: poiché rimane sempre vero il dato dell'esclusione della donna
dalla gestione e partecipazione
diretta al potere. Più semplicemente, la partecipazione delle donne al lavoro
produttivo era consentita e prevista all'interno di un'organizzazione societaria
che non attribuiva a esso un valore di ricchezza sociale.
Poi, nel momento in cui, all'interno della società industriale, il
lavoro produttivo diviene asse portante del nuovo assetto economico, la donna
vede mettere in discussione la sua partecipazione al lavoro produttivo in quanto
lavoro contrapposto «da sempre»
alla sua funzione naturale e al suo destino biologico: il lavoro
riproduttivo-familiare.
Con ciò si tende anche ideologicamente
a mettere in ombra e a occultare il dato di fatto che la donna, come
afferma Evelyn Sullerot (1977), ha
sempre lavorato e ha sempre portato il peso di un
lavoro materiale legato alla produzione di beni e alla sopravvivenza.
Con il nuovo modo di produzione capitalistico la donna comincia a
scindere se stessa come individuo
sociale, col suddividere le sue capacità nel momento
in cui si differenziano i luoghi della produzione (casa-fabbrica).
La legittimità
del lavoro domestico, l'illegittimità del lavoro salariato
In questa suddivisione, ciò che viene rivestito di
legittimità è il lavoro familiare, mentre quello esterno alla casa viene
considerato come elemento deteriore della femminilità e come minaccia alla
stessa stabilità dell'istituto familiare. La donna, si diceva, se lavora viene
meno ai suoi doveri legati alla funzione materna. In questo modo essa viene a
trovarsi in una situazione di particolare ricattabilità sociale. Da un lato «non
deve lavorare» per adempiere alle proprie funzioni di madre; dall'altro, se «lavora»
deve sostenere di fatto due attività di cui una non retribuita né riconosciuta
come lavoro, e l'altra retribuita - a causa dell'altro lavoro che la rende poco
disponibile - secondo i valori minimali del salario corrente. «Mentre nell'alto
medioevo i salari maschili e femminili, senza essere gli stessi, non accusavano
scandalose differenze, lo scarto si approfondisce visibilmente a partire dal
quattordicesimo secolo alla cui fine la donna guadagna tre quarti di quello che
guadagna l'uomo. Nel quindicesimo secolo è pagata soltanto la metà. Nel
sedicesimo secolo, proprio quando l'ideologia del lavoro umano si sviluppa e si
arricchisce, la lavoratrice a giornata non guadagna più di due quinti del suo
compagno di lavoro» (Sullerot, 1977, pag. 64). «La rivoluzione industriale è
stata caratterizzata dal passaggio nelle mani degli uomini di quasi tutte le
produzioni che fino ad allora erano state femminili» (Sullerot, 1977, pag. 95).
«Il lavoro della filatura, generalmente eseguito da donne e bambini, era quello
pagato peggio... tra il 1767 e il 1770, il salario di una filatrice era circa un
terzo del salario di un giornaliero» (Mantoux, 1971, pag. 97). Se da un lato la
svalorizzazione del lavoro produttivo femminile poneva la donna come soggetto
svantaggiato sulla scena del mercato del lavoro, dall'altro la propaganda
ideologica colpiva la donna sul piano della censura morale addebitandole
interamente i guasti di una situazione che non aveva certo pro- dotto ma di cui
era essenzialmente vittima. Su questa condizione di vita socialmente disperata
citiamo come esemplificazione alcuni passi di «La donna» di Michelet. «Operaia!
parola empia, sordida, che nessuna lingua possedette mai... Quante donne in
Europa e altrove saranno colpite da queste due terribili fate, dalla filatrice
di bronzo e dalla cucitrice di ferro? Milioni? Non si potrà mai calcolarlo...
Qual è la sorte delle nostre donne? Non fanno molto rumore. Non le vedremo come
l'operaio, coalizzato e robusto, il muratore, il carpentiere, fare uno sciopero
minaccioso e dettare delle condizioni. Muoiono di fame, ecco tutto. La grande
mortalità del 1854 si è abbattuta soprattutto su di loro (l'epidemia colerica
che provocò oltre 9000 morti)... In realtà la donna non può lavorare a lungo,
né in piedi né seduta. Se è sempre seduta, il sangue le risale, il petto è
irritato, lo stomaco imbarazzato, la testa iniettata. Se la si tiene a lungo in
piedi, come la stiratrice, come la compositrice in tipografia, ha altri
accidenti sanguigni. Può lavorare molto, ma variando posizione, come fa nelle
faccende di case, andando e venendo. Bisogna che abbia una famiglia, bisogna che
sia sposata» (Michelet, 1977, pag. 76). Ma la donna non sempre poteva «giovarsi»
della protezione maschile. Una serie di elementi ci indica che la donna molto
spesso si trovava priva di quella protezione familiare che Michelet individuava
nella condizione di donna sposata. Non sempre le donne riuscivano a sposarsi;
alcune volte, pur se sposate, dovevano contribuire al ménage, visto che anche i
salari dell'operaio erano spesso insufficienti a mantenere la famiglia; oppure
spesso rimaneva vedova, o ancora subiva per qualche verso (violenza o altro) la
perdita di quel bene specifico - la verginità - che le sbarrava in modo
irreversibile la strada al matrimonio. Ma proprio da questa indicazione di
Michelet si può riflettere su un dato che emerge in modo specifico nella società
industriale: la particolare dipendenza della donna dall'uomo per quanto riguarda
la possibilità di provvedere autonomamente a se stessa ed eventualmente alla
prole.
La dipendenza
della donna dal lavoro salariato maschile
Il fondamento della dipendenza della donna dal lavoro
maschile lo troviamo nel
presupposto capitalistico dell'organizzazione del lavoro: la libera vendita
della forza lavoro. «Per
trasformare il denaro in capitale il possessore di denaro deve trovare sul
mercato delle merci il lavoratore libero; libero nel duplice senso che
disponga della propria forza
lavorativa come propria merce, nella sua qualità di libera
persona, e che, d'altra parte, non abbia da vendere altre merci, che sia
privo ed esente, libero di tutte le
cose necessarie per la realizzazione della sua forza- lavoro» (Marx, 1867, pag. 201).
Ciò risulta vero per il lavoratore maschio che realmente incarna l'idea
marxiana dell'esistenza sul mercato delle merci di un libero proprietario della
propria capacità lavorativa. Un
tale presupposto non attiene invece alla condizione
della donna: questa appare come l'unica implicante una non completa
libertà nella possibilità di
vendita della propria forza lavoro. La
mancanza di libertà della donna trova fondamento pratico e concreto nell'essere
la donna legata, a differenza del maschio, al lavoro di riproduzione
familiare. La mancanza di una completa disponibilità della donna per il
lavoro di mercato determina così il minor valore dato alla forza lavoro
femminile sul mercato delle merci.
La nuova economia di mercato soppianta quella familiare, entro la quale
la donna aveva sempre avuto un
posto legittimo. E in questo nuovo modello
la donna vede per la prima volta collegarsi la sua condizione di
emarginazione storica dall'area del
potere con la svalorizzazione della sua capacità lavorativa.
Nella nuova economia di mercato, mentre l'operaio dipende dal salario e
dal- le leggi della produzione, la
donna si trova a dipendere legittimamente dal
lavoro e dal salario maschile, siano essi paterni o maritali.
L'ingresso nel
circuito assistenziale
In questa situazione la donna non può contare
direttamente sulla propria forza lavoro per avere un'autosufficienza economica e
per procacciarsi in proprio i mezzi di sostentamento. Quando poi per ragioni
sociali, ambientali o personali
viene a mancare di un'adeguata protezione familiare (paterna o maritale) si
trova nella condizione di dover ricorrere a mestieri aggiuntivi come la
prostituzione, oppure se non in grado di entrare in questo circuito - per età,
malattie, altro - entra nei circuiti dell'assistenza pubblica. Evelyn Sullerot
parla, per esempio, nella sola Parigi e nell'anno 1789, della presenza di un
numero elevatissimo di prostitute, circa 70.000 (Suflerot, 1977, pag. 78).
Gutton, nell'analisi del fenomeno della pauperizzazione in Europa tra il
sedicesimo e il diciottesimo secolo, individua la condizione delle vedove come
particolarmente disperata: «fra le situazioni di miseria dovute all'età le più
numerose, e forse anche le più gravi, sono quelle delle vedove. Non vi è
elenco che non ne contenga, spesso in numero preponderante» (Gutton, 1977, pag.
46). Su questo particolare intreccio di mendicità e ricorso all'assistenza
pubblica l'analisi di Foucault ha tracciato le linee entro cui guardare al
processo di formazione dell'istituzione psichiatrica. In questo ambito trova
anche una sua possibilità di lettura l'altro intreccio: quello tra condizione
femminile, ricorso obbligato ai mestieri meno retribuiti sul mercato del lavoro,
ricorso a mestieri aggiuntivi quale la prostituzione e ricorso al ricovero negli
«asili» come forza di protezione al posto di quella familiare. Come esempio di
questo intreccio riportiamo qui alcuni dati contenuti nel trattato «La medicina
delle passioni» di Descuret (1859) e tratti da un'indagine compiuta da
Parent-Duchátelet nel 1840 in Francia su 5183 donne (tavola I). Da questa
indagine si ricava un quadro sulle cause della prostituzione: al primo posto
l'abbandono e la miseria, al secondo posto le professioni sottopagate e
marginali (tavola II).
Tavola I. Le cause della prostituzione in Francia nel
1840 su 5183 casi
Cause della prostituzione
Eccesso di miseria, indigenza assoluta per pigrizia o altri motivi Concubine abbandonate perdita dei genitori, espulsione dalla casa paterna, abbandono completo Donne condotte a Parigi e abbandonate dai loro amanti (soldati, studenti o commessi) Serve sedotte o scacciate dai padroni Donne venute dalla provincia a Parigi per nascondervici o trovare soccorsi Per aiutare genitori poveri o infermi (tutte nate a Parigi) Figlie maggiori di età, per sostenere frate! e sorelle o nipoti (tutte nate a Parigi) Vedove, per sostentare la loro famiglia (tutte nate a Parigi) Totale dei casi |
Numero
delle prostitute 1441 1425 1255
404 289 280
37 29 23 5183 |
Source: un'indagine di Parent-Duchátelet (Descuret, 1859).
Tavola 11: Professioni esercitiate all'ingresso nella
prostituzione in Francia nel 1840 su 3120 casi
Professioni
Sartore,
venditrici di biancheria, modiste e altri stati
analoghi Erbaiole,
fioraie, fruttaiole Tessitrici
e stati analoghi Lavoranti
di cappello e stati analoghi Venditrici
di bigiotteria e-stati analoghi Artigiane Bottegaie Levatrici Possidenti Totale dei casi |
Numero
delle prostitute 1559 859 285 283 98 23 7 3 3 3120 |
Source: Da un'indagine di Parent-Duchátelet (Descuret, 1859).
Dice Parent-Duchátelet: «Si vede da questo quadro
che la maggior parte delle prostitute esce dalle botteghe, centri di corruttela,
delle quali ammirando le produzioni che somministrano dobbiamo deplorare i
funesti effetti». Il commento di Descuret è il seguente: «Perdono, esposte al
pubblico, quelle infelici creature ogni erubescenza; e udendo discorsi strani,
dovendo tollerare scherzi indecenti, col cattivo esempio perpetuo delle padrone,
di costumi ordinariamente perduti, come devono fare a non prendere una cattiva
strada?» (Descuret, 1859, pag. 370). E ancora: «Dalle osservazioni fatte con
maggior cura dall'Esquirol, risulta che le prostitute somministravano alla Salpétrière
un ventesimo delle pazze» (Descuret, 1859, pag. 377). Ecco in breve
rappresentato uno dei percorsi specifici delle donne verso le istituzioni
asilari: dall'abbandono familiare nelle sue varie forme alle professioni
marginali e mal retribuite, alla prostituzione, alla Salpétrière.
IL PUNTO DI
VISTA DELLA PSICIHATRIA SULLA DONNA
Dalle brevi note sulla storia economica delle donne e
sul ruolo sociale femminile ripartiamo per una rilettura della storia della
psichiatria che dia maggiore visibilità al nesso donne-follia. L'obiettivo è
quello di rendere meno «inapparente» il ruolo che le donne hanno avuto nella
formazione storica sia della teoria sia della prassi psichiatrica.
Ripercorreremo quindi in breve le tappe di questa storia cercando eli
individuare gli atteggiamenti degli psichiatri rispetto al disagio femminile,
così come le loro opinioni e credenze. I momenti essenziali che ci
sembra di dover sottolineare sono:
A.
una fase iniziale da cui emerge con particolare evidenza come la
condizione sessuale della donna sia considerata il luogo naturale e
preferenziale per l'insorgenza
della malattia mentale;
B.
un secondo momento in cui
tende a delinearsi una teoria universale del disagio e della malattia che riduce
l'incidenza delle differenze sessuali sulla genesi della malattia.
Il
passaggio dall'una all'altra fase è scandito da una serie di tappe successive
che in modo graduale tendono a separare i contenuti della vita
quotidiana, in qualsiasi modo
espressi, dalla sofferenza prima e dalla malattia dopo. Queste tappe cui diamo
una prima definizione, costituiscono i momenti generali
del processo di formazione della scienza psichiatrica:
i.
la costruzione del folle-malato separata dall'identità del mendico;
ii.
la separazione del giudizio morale (che coinvolge l'analisi della vita
del soggetto nella sua complessità) dall'osservazione del comportamento
cosiddetto malato che si elabora
solo all'interno dello spazio di internamento;
iii.
la separazione tra i diversi tipi di comportamento che si verificano
all'interno dell'istituzione e che daranno luogo a una gerarchia di
comportamenti definiti come
patologici;
iv.
la separazione del corpo biologico dal corpo sessuato e da quello
sociale: sempre di più il corpo
sarà considerato un insieme di processi chimico-fisici,
all'interno dei quali azioni e reazioni appaiono come neutrali rispetto a
differenze economiche, sociali e sessuali.
All'interno
di queste tappe, il nostro obiettivo è, da un lato, dare rilevanza alle interpretazioni e codifiche del comportamento femminile,
così come si sono succedute nella
storia della psichiatria; dall'altro, rendere visibile come
l'analisi del comportamento femminile sia stato l'elemento centrale e
costitutivo del sapere psichiatrico.
La prima realtà manicomiale: la Salpétrière
Il
primo elemento da sottolineare è la presenza e la rilevanza dell'universo
femminile nell'internamento asilare, nel periodo compreso tra il Seicento
e il Settecento.
Partendo dall'analisi di Foucault, l'internamento asilare
pre-specialistico, fondato sulla reclusione dei mendichi, è l'esperienza di
fondo per la nascita di quella
popolazione omogenea il cui comportamento e le cui caratteristiche da-
ranno poi vita alle prime formulazioni della scienza psichiatrica.
Questo mondo della mendicità costituisce fino alla rivoluzione francese
l'uni- verso della popolazione
internata. ed è composto in gran parte da donne.
Uno sguardo complessivo a questo «universo concentrazionale»
pre-rivoluzionari mette in luce un luogo tra gli altri, la Salpétrière, come
prototipo della realtà dell'internamento asilare. La Salpétrière, che sarà
la fucina della nuova teoria
e pratica psichiatrica (Pinel, Esquirol, Charcot), è un universo femminile.
Intorno al 1670 ospitava circa 7000-8000 donne e bambini ed era il più
grande ospizio d'Europa. Vi finirono «tutte quelle donne che a causa
dell'età, o per le loro infermità, erano condannate al
parassitismo o alla mendicità, come anche quelle che per misura di sicurezza le
autorità ritenevano opportuno
isolare: prostitute, corruttrici, alienate che le prigioni di Parigi, già
piene, non potevano
ospitare» (De Groote, 1973, pag. 146).
Nel
1790,sull'onda della rivoluzione francese, è promulgato l'editto che libera
dall'internamento tutti coloro che non sono pazzi o condannati; nel 1795 Pinel entra alla Salpétrière dopo due anni di
permanenza a Bicétre (ospizio maschile). Inizia così in quest'epoca il
processo di riconoscimento della malattia mentale e la sua codifica: la
formazione cioè della scienza psichiatrica.
Gli
elementi che ci sembra importante focalizzare sono:
1. la rilevanza iniziale che verrà data alla malattia mentale
della donna, e i caratteri
di una sua specificità sessuale;
2. il processo successivo di codifica della malattia mentale
nel quale si tenderà invece a uniformare (e quindi a desessualizzare)
l'esperienza della sofferenza attraverso la separazione tra sofferenza psichica,
legata alle condizioni morali e materiali di esistenza delle donne, e malattia
mentale, vista come il complesso delle alterazioni del comportamento umano
legate a regole generali del funzionamento
psicofisico, ed indagata con l'osservazione oggettiva.
Nel processo di formazione del
'la scienza psichiatrica si osserva infatti una perdita progressiva degli
elementi di osservazione-valutazione legati a fattori concreti: il lavoro, il
reddito, la miseria, il sesso; e un passaggio graduale a osservazioni del
comportamento come elementi parziali dello sviluppo individuale manifestanti una
disfunzionalità essenzialmente biologica. Da interpretazioni morali, ma
comunque legate alla storia individuale e sociale, si passerà quindi
a un'interpretazione biologistica legata a fattori intraindividuali. «Nella
prima fase manicomiale - e questo risulta molto bene dalla registrazione delle
cartelle cliniche nei rilevamenti statistici e nell'archivio
bibliografico - in manicomio ci si va per le circostanze sfortunate
o fortunate della propria vita, per le miserande condizioni di vita, perché
affamati, per i propri vizi, per
gli amori sciagurati, per le gravidanze complicate o indesiderate, per
smodata attività sessuale, per avere partecipato a guerre o a risse, per non
essere riusciti ad accasarsi, per aver voluto indulgere a vita dispendiosa o
sciagurata, a sostanze
eccitanti... Nella seconda fase manicomiale in manicomio si entra
perché si è rappresentanti di una popolazione degenerata e si è
portatori di lesioni
anatomiche o funzionari nel proprio cervello che hanno determinato anche certe esperienze inadeguate di vita... In
questa seconda fase della manicomializzazione cambia come già detto il modello
della tabella caratteristica con cui il malato viene avviato al manicomio,
scompaiono le notizie sulla sua vita personale e familiare, dominano le notizie
mediche, in particolare sull'ereditarietà del comportamento» (Galzigna e
Terzian, 1980, pag. 32).
La
prima fase della psichiatria: il corpo sessuato
La
riduzione dello spazio istituzionale a spazio di reclusione dei folli, di coloro
che vengono definiti incapaci di lavorare, determina l'inizio di una riflessione
sistematica sui modi del comportamento definito «alienato».
Con Pinel (1795) prima ed Esquirol (1802) poi inizia alla Salpétrière
l'osservazione del comportamento delle recluse e la loro catalogazione,
l'analisi delle cause e la ricerca di un trattamento terapeutico capace di
ridurre alla normalità il comportamento alienato. L'osservazione presuppone
l'internamento: è necessario infatti avere davanti un fenomeno nella sua
massima estensione e concentrazione per poterlo esaminare e poi suddividere in
gruppi omogenei. L'osservazione e la catalogazione dei comportamenti alienati
costituiscono il primo atto storico della formazione della nuova scienza e
rimarranno primo atto di ogni
intervento psichiatrico. La
catalogazione va di pari passo con la suddivisione dello spazio istituzionale:
dalla prima differenziazione diagnostica e spaziale dei pazzi furiosi da quelli
tranquilli, fino a suddivisioni più articolate e scientifiche. L'individuazione
di nuove categorie di comportamenti alienati procede quindi con la separazione
spaziale dei reclusi: ciò è quello che accade per esempio con Charcot
e la separazione delle isteriche.
La nuova scienza analizza le cause dell'alienazione:
esse sono da ricercare in due
ordini di fattori: il disordine morale e le condizioni sociali. Il disordine
morale è da un lato un disturbo della volontà che non riesce a tenere
sotto controllo le passioni,
ma è al tempo stesso un disturbo provocato e stimolato
dalle condizioni sociali. Sono queste infatti a creare situazioni di
squilibrio anche individuale introducendo nuovi desideri e
bisogni. Al centro dell'alienazione vi sono quindi le passioni, viste come
elementi della fisicità con una sede
corporea (epigastrica). Contribuiscono alle manifestazioni violente e in-
controllate delle passioni la costituzione individuale e l'ereditarietà.
Questo primo filone della
psichiatria nascente si pone a un tempo come continuità
e come rottura di un sapere: rottura perché propone il riconoscimento di
una specifica condizione
esistenziale, quella del folle, come categoria separata rispetto ad altre forme
di devianza; continuità perché eredita dal passato la concezione morale della
mendicità. L'alienazione, come la povertà, è un disordine della volontà e
dell'intelletto.
Anche
nel trattamento ritroviamo la stessa concezione morale: l'individuo alienato
deve essere affrontato con strumenti che lo aiutino a regolare le passioni: la
convinzione e la ragionevolezza. Strumento importante di tale trattamento
rieducativo è l'allontanamento dal contesto sociale che ha provocato e
stimolato la crescita smisurata delle passioni.
Nell'ambito della protopsichiatria di Pinel ed
Esquirol già appare evidente il legame tra le prime teorizzazioni sulla
malattia e le condizioni di vita delle donne. Queste emergono dal giudizio dei
medici come moralmente precarie e insta- bili, tali da condurre la donna più
facilmente verso quell'eccesso delle passioni che è da loro considerata come
causa principale dell'alterazione mentale. «Le passioni sono più vive, più
animate, più erotiche nelle donne. Così, indipendentemente dalle cause che
derivano dalla loro organizzazione, le donne sono più esposte all'alienazione;
essa ha dei caratteri che sono tipici del sesso, e degli esiti che sono a esso
esclusivi. Gli antichi, e fra di loro Celio Aurelia- no, pensavano che ci
fossero meno donne alienate che uomini: nella nostra Europa, sono in maggior
numero le donne, come ha osservato il professor Pinel... Troveremo la causa di
questa differenza anche nella vita molle, priva di attività e di
applicazione... Tutte queste cause rendono le donne di un'e- strema
suscettibilità e le predispongono a tutte le affezioni nervose, all'alienazione
mentale» (Galzigna, 1982, pag. 68).
Descuret nel suo trattato «La medicina delle
passioni» descrive il libertinaggio e l'amore come cause della follia: «Le
passioni portate all'eccesso riescono nella donna frenetiche
-ancor più che nell'uomo; imperocché esso vive più sotto il dominio
del cervello e quindi della volontà; mentre la donna è sotto l'influsso del
sistema ganglionare, cioè sotto il dominio del sentimento che non ragiona... La
passione dominante nell'uomo è l'ambizione, nella donna l'amore» (Descuret,
1859, pag. 31). E sono queste ragioni «morali e costituzionali» che rendono la
donna agli occhi dei primi medici ottocenteschi più soggetta ai rischi di
follia. Ecco che a questo proposito dice ancora Descuret: «Risulta da' quadri
statistici della Francia e dell'Inghilterra esser più degli uomini le donne
soggette alla pazzia. Ciò sembra dipendere dalla costituzione nervosa che loro
è propria, dalla somma irritabilità che accompagna l'epoche delle ricorrenze,
la gravidanza, i parti, l'allattamento, e finalmente dalla posizione sociale che
le espone a frequenti dispiaceri. Anche l'epoca della cessazione dei mestrui
sembra avere una influenza molto decisa sulla pazzia. Infatti si è trovato che
l'età dai trenta ai quarant'anni è quella che dà più mentecatti tra gli
uomini, mentre per le donne è quella dai cinquanta a' sessanta. Del resto
l'influenza dovuta al carattere morale di ambo i sessi sulla pazzia è
assolutamente la stessa che sulle passioni. Vedemmo già essere negli uomini
passione predominante l'ambizione, nelle donne l'amore. Ebbene! Dopo aver
visitato in Europa i principali stabilimenti di mentecatti, lo Zimmermann trovò
precisamente che, nel massimo numero di casi, le fanciulle erano divenute pazze
per amore, le donne per gelosia; e che gli uomini avevano perduto la mente per
ambizione (Descuret, 1859, pag. 199).
La seconda fase
della psichiatria: il corpo biologico
Nella seconda fase inizia e si consolida
l'orientamento positivistico della psichiatria. La scoperta della base biologica
della paralisi progressiva, da Pinel a Esquirol attribuita all'eccesso delle
passioni, e la teoria localizzazionista di Gall portano al superamento della
teoria delle passioni e delle interpretazioni morali della follia. Si apre così
il capitolo della malattia mentale vera e propria. La follia cioè non è più
l'espressione di un comportamento fuori dalle regole sociali e morali, ma
diviene accidente biologico, espressione di un «organismo che funziona male»
Jervis, 1975, pag. 46).
Vengono così a prevalere sui dati sociali e sulle
teorie personali (storie di eccessi, libertinaggi, cattive condotte morali.
etc.) attinenti alle passioni umane e alla loro entità, i dati della
costituzione, predisposizione ed
ereditarietà. Su questi dati, non più mediati dalle passioni, come
nell'eziologia precedente, trovano una loro spiegazione i fenomeni della
disfunzione biologica. E in particolare acquista centralità nella eziologia
della malattia mentale il cervello come sede materiale della disfunzionalità.
«La dottrina di Gall (fondatore della frenologia) doveva dare una spinta a
tutto il pensiero evolutivo, comparativo e differenziatore: gli psichiatri vi
trovarono un fondamento insieme psichico e somatico per tutti gli stati di
manifesta disintegrazione dell'unità mentale, quindi per i sogni, per il
sonnambulismo, le allucinazioni e per la follia parziale della monomania»
(Dorner, 1975, pag. 219). Sulla strada del riferimento a uno psichico che trova
il suo fondamento nell'organizzazione biofisica della persona e nella
strutturazione e organizzazione delle funzioni cerebrali si pone un'altra
scoperta essenziale per gli ulteriori sviluppi della nuova scienza psichiatrica
e per il destino del disagio femminile: l'«isteria».
L'isteria costituisce il momento della formazione di
un sapere che, avendo ormai rotto con il primo orientamento morale della
protopsichiatria, utilizza il terreno consolidato delle asserite alterazioni
organiche nelle turbe nervose per una lettura dello psichico e dei suoi modi di
funzionamento come causa della malattia, là dove non si sia potuta stabilire
una corrispondenza diretta tra disturbo periferico (sintomo) e alterazione dei
sistema nervoso centrale. L'isteria si trova quindi, nella storia ella
psichiatria, sulla strada dello sviluppo della teoria positivistica della
malattia. In quanto tale essa è fuori dalle interpretazioni volontaristiche: e
morali della protopsichiatria. Il comportamento isterico è tale per cui, non
avendo riferimenti diretti con lesioni organiche, rappresenta una disfunzione
sul piano psichico. Questa disfunzionalità ha peraltro sempre un referente
organico-biologico: si tratta infatti di disturbi psichici che trovano la loro
spiegazione nella costituzione e nell'ereditarietà. Con l'isteria è confermato
il cammino di astrazione del sintomo dai riferimenti della vita personale e
sociale dell'individuo malato. Ancor di più che con Pinel, l'interpretazione e
il giudizio di malattia sono ora affidati all'osservazione minuziosa del
comportamento definito malato così come si articola, o disarticola, sotto gli
occhi dello specialista all'interno dell'istituzione manicomiale.
Vengono così eliminati i riferimenti al «prima»,
al «dopo» e al «mentre» della vita sociale in cui l'individuo è calato. Il
quotidiano e il sociale nella nuova interpretazione della psichiatria non hanno
significato sostanziale nel momento in cui non vi è più necessità del
giudizio morale, implicato precedentemente nell'atto diagnostico.
L'isteria:
centralità del rapporto col disagio femminile
Se l'isteria ha avuto quindi un grosso significato
per lo sviluppo della scienza psichiatrica, ha anche avuto un significato
decisivo per la conferma di quella relazione specifica che si è stabilita tra
sviluppo di questa scienza e caratteristiche del disagio femminile. L'isteria
nasce come un disturbo della funzionalità mentale più tipicamente e quasi
esclusivamente femminile. Sembra che tutti i discorsi fatti sulla maggiore
incidenza della malattia mentale nella donna, per fattori legati alla sua
costituzione biologica, trovino finalmente la loro ragione d'essere
nell'individuazione della diagnosi di isteria. E ciò non si modifica neanche
quando, nel rapporto di 1 a 20 casi, l'isteria maschile troverà il suo spazio
all'interno di questa sindrome. Ciò perché l'isteria maschile sembra avere
agli occhi degli psichiatri dell'epoca tutt'altra origine di quella femminile.
Non affonda infatti le sue radici nella costituzione biologica, ma nell'evento
traumatico: «la cosiddetta isteria traumatica di artigiani e operai vittime di
incidenti sul lavoro con manifestazioni successive di malattie nervose»
(Bourneville e Regnard, in Fontana, 1982, pag. 42).
Il riferimento dominante nell'isteria femminile è il
corpo nelle sue due accezioni: il corpo somatico della psichiatria positivistica
e il corpo sessuato. Il corpo somatico è il corpo non più dominato dalle
passioni e dalla volontà ma dalla costituzione, ereditarietà, organicità
biologica. Il corpo somatico è il corpo del grande attacco isterico, della
convulsione, dei movimenti incontrollati. Esso è la sede organica di una
disfunzione psichica. Esso, in definitiva, è il corpo biologico considerato
come sessualmente indifferenziato. Il corpo sessuato è il corpo unicamente
femminile, segnato dalle tappe dello sviluppo biologico e psichico della donna.
Esso è dato dalla costituzione biologica della donna, dalla sua fragilità
emotiva, dalla sua teatralità, dalla sua mutevolezza, dalla sua
impressionabilità e superficialità. Questi valori del corpo isterico sessuato
forniscono le spiegazioni dei corsi e ricorsi della malattia mentale in rapporto
a: prime mestruazioni, cicli irregolari, gravidanze e parti, cessazione delle
mestruazioni, amori infelici, fantasie erotiche. «Queste indicazioni bastano a
mostrare l'influenza che esercitano le mestruazioni sugli attacchi. Non va
dimenticato però che questi si manifestano anche al di fuori delle
mestruazioni- le contrarietà, i litigi, le diverse emozioni possono provocarne
la venuta» (Bourneville e Regnard, cit. pag. 100). «Dobbiamo aggiungere
inoltre che i rapporti sessuali all'inizio diminuivano le crisi convulsive, che
le due gravidanze ne hanno aumentato il numero, mentre l'allattamento è
sembrato apportare un certo miglioramento» (Bourneville e Regnard, cit. pag.
104). «Tutto in lei annuncia l'isteria: la cura che dedica alla sua toeletta,
l'acconciatura dei capelli, i nastri di cui ama adornarsi. Questo bisogno di
ornamento è così vivo che quando è in periodo di attacchi e si verifica una
remissione, ne approfitta per attaccarsi un nastro alla camicia di forza- questo
la distrae e le fa piacere... Va da sé che la vista degli uomini le è
gradevole, che le piace mostrarsi e che desidera ci si occupi di lei»
(Bourneville e Regnard, cit. pag. 159). «Fino a 17 anni, G. è bizzarra,
capricciosa, soggetta a violente collere, molto impressionabile, in una parola
presenta un insieme di fenomeni che indicano in lei una potenziale isteria. Si
manifesta già nettamente il suo carattere orgoglioso. Una volta insorta (17
anni) l'isteria convulsiva acquista rapidamente una grande intensità»
(Bourneville e Regnard, cit. pag. 102). Corpo somatico e corpo sessuato si
intersecano continuamente. La storia degli attacchi somatici e dei tentativi per
bloccarla (tra essi, tipica è la compressione ovarica) rimanda continuamente a
un'altra storia: la storia dei mestrui, date e ricorrenze sessuali, false o vere
gravidanze, fantasie o realtà di violenze amorose. Essi sono comunque
estraniati dalle vicende reali del sociale e del quotidiano. Le vicende
dell'esistenza delle «isteriche» e i loro rapporti con le persone, le
istituzioni, le cose rimangono sullo sfondo, prive di significato. Le vicende
della vita reale non entrano nella vita artificiale della Salpétrière: di Genéviève
si sa che, nei vari periodi trascorsi all'esterno dell'istituzione manicomiale,
ha lavorato come infermiera, più di una volta è stata licenziata, ha avuto
relazioni d'amore con uomini reali, ha avuto due figli di cui uno è morto a sei
mesi e un altro è stato collocato in brefotrofio. Tutto ciò - la sua storia
concreta di donna, madre e lavoratrice - rimane fuori dalle porte della Salpétrière
non avendo significato nella genesi dei suoi silenzi, delle sue fughe, dei suoi
attacchi.
L'isteria:
modello di sviluppo della psichiatria moderna
Con l'osservazione del comportamento isterico si
pongono le basi dell'intervento psichiatrico con le sue regole e i suoi metodi.
1.L'isteria definisce lo spazio di separazione che si
aprirà tra l'esperienza nevrotica e quella psicotica.
2. La distinzione tra campo dei fenomeni isterici e
campo dei comportamenti alienati è
un prototipo di osservazione scientifica, già sufficientemente stabile e fino a
oggi valido come fondamento della pratica psichiatrica.
3. L'osservazione sulla distinzione dei due tipi di
comportamento, isterico e alienato,
non si basa sulla diversità dei loro caratteri fenomenici. Questi -
deliri, allucinazioni, spersonalizzazioni - rivelano una sostanziale
continuità di modi espressivi. Ciò
che emerge come carattere distintivo è la dimensione
temporale; sono infatti la stabilità e la non transitorietà dei
fenomeni citati che inducono la
differenza tra comportamento isterico e alienato.
4.
Criterio di questa distinzione non è la sofferenza individuale, sempre più
separata dalle storie personali, ma l'osservazione dello psichiatra
maturata al- l'interno dello spazio
di cura manicomiale.
5. Fondamento del criterio di differenziazione è lo
psichiatra, sia come osservatore del comportamento da definire, sia come
curatore di esso. Infatti lo psichiatra
è coinvolto in questo giudizio distintivo, non solo come colui che
guarda il fenomeno da uno specifico punto di vista, la malattia appunto,
ma anche come colui dal quale
dipende la trattabilità del caso. Ciò che infatti
sembra emergere con maggiore significato è che la determinazione di
appartenenza dei comportamenti a una delle due aree dipenda dal trattamento di-
spiegato e dai suoi effetti. Diviene «alienazione» tutto ciò che
resiste alla cura; tutto ciò che sottoposto al trattamento psichiatrico
dimostra la sua immodificabilità, irreversibilità.
6. La diagnosi di alienazione (poi psicosi) è
funzione quindi del trattamento e
della sua estensione temporale, da un lato, dell'immodificabilità e persistenza
del comportamento assunto come malato, dall'altro.
7. L'osservazione di Genéviève può essere assunta
come esempio di questa stabilizzazione
dei fenomeni definiti come malattia a opera del tipo di trattamento effettuato.
Dopo dieci anni di internamento alla Salpétrière si osserva
che «essa è più spesso di un tempo soggetta alla tristezza e agli
eccessi di collera» (F Bourneville e Regnard, cit. pag. 101).
8. Capovolgendo i termini della questione, si
potrebbe dire che sono l'insuccesso dell'intervento, il suo prolungarsi e
dilatarsi nel tempo, l'inadeguatezza degli
strumenti conoscitivi assunti, che producono la stabilizzazione e l'aggravamento
dei fenomeni definiti come patologici. In questo senso il criterio
diagnostico assunto per differenziare i comportamenti isterici da quelli
alienati può avere valore non tanto per individuare la curabilità-incurabilità
della malattia mentale, quanto per
verificare l'efficacia stessa dell'intervento praticato. Il criterio diagnostico
può essere più correttamene assunto come criterio di verifica dell'adeguatezza
degli strumenti usati per il trattamento. Come tale esso illumina il versante dell'operatività
psichiatrica e non quello della qualità soggettiva del disagio. Nascendo come
criterio interno alla psichiatria, il criterio diagnostico non può che
esprimere il punto di vista dell'operatore psichiatrico e le sue capacità di
intervento.
L'isteria: il
percorso da Charcot a Freud
Nel passaggio da Charcot a Freud l'isteria precisa
meglio il suo carattere di
fondamento dello sviluppo della scienza psichiatrica.
La definizione del trattamento psicoanalitico approfondisce e precisa,
sul piano non solo
dell'osservazione (corpo somatico) ma anche interpretativo (meccanismi di
funzionamento psichico), la distinzione tra fenomeni isterico-nevrotici
e fenomeni psicotici. «Le psicosi, gli stati confusionali e la
depressione pro- fonda
(vorrei dire tossica) sono pertanto inadatti alla psicoanalisi, perlomeno così
come viene praticata fino a oggi» (Freud, 1904, pag. 435).
In questa differenziazione si precisa anche meglio il ruolo del
trattamento e della cura. Da esso
dipende essenzialmente l'aggredibilità di uno stato di malessere: «lo ritengo
che non sia affatto da escludersi che, modificando opportunamente il
procedimento (psicoanalitico), si possa superare questa controindicazione e dare
così l'avvio a una psicoterapia delle psicosi» (Freud, 1904, pag. 435).
Un trattamento che possa modificare lo stato definito di nevrosi o di
psicosi, con lo stesso metodo
analitico, seppure opportunamente modificato, porrebbe chiaramente molto meno
l'esigenza della classificazione e distinzione dei
comportamenti. Una supposta unitarietà di metodi di approccio alla
malattia, o degli strumenti usati, tende inevitabilmente a dissolvere la prassi
classificatoria fondata sulla necessità di differenziare il trattamento in base
alla diagnosi. Si
verificano con Freud un'ulteriore articolazione e suddivisione dei fenomeni
precedentemente conglobati nella diagnosi di Isteria. Si precisa come
appartenente al più vasto campo delle nevrosi una serie di sintomi tra cui
quelli isterici. In questa nuova articolazione emerge il dissolvimento del
quadro unitario dei fenomeni psichici, che era stato rappresentato fino ad
allora dalla sindrome isterica.
Compito
storico di Charcot è stato quello di individuare e accorpare insieme
una serie di fenomeni psichici sulla base di due caratteristiche
principali: la mancanza di una corrispondente alterazione organica (lesione) e
l'omogeneità delle manifestazioni somatiche, (gli attacchi). Con l'avvento di
Freud questo compito è esaurito.
Ciò che emerge come
esigenza di ulteriore approfondimento è la differenziazione dei fenomeni
psichici, individuati come appartenenti all'area della nevrosi, sulla base di
un'interpretazione psicogenetica.
Decade così la necessità di un'osservazione
fotografica che ha per oggetto essenzialmente il corpo; cadono così le
descrizioni dei grandi quadri somatici. I disturbi somatici descritti appaiono
ora meno eclatanti e più specifici: si tratta di dolori, anestesie,
contratture, incapacità a camminare (il caso di Elizabeth); oppure tic (il caso
di Emma); oppure l'alterazione dell'olfatto (Lucy); oppure i gravi disturbi
della vista e la paralisi degli arti inferiori (Anna O.). D'altra parte sono
anche cambiate le donne: Genéviève si trova in uno spazio di reclusione che
amplifica le sue reazioni e la pone più direttamente e massivamente alle
dipendenze di un mondo medico che la scruta e la guarda per ottenere da lei
fenomeni eccezionali. Elizabeth e le altre pazienti di Freud rimangono nelle
loro case borghesi dove ricevono il medico e ottengono attenzioni al loro caso
senza dover esibire il malessere sotto forme eccezionali.
Il sintomo,
elemento del corpo somatico
Il dissolvimento dei grandi quadri somatici non mette
però fuori causa la centralità dei sintomo corporeo. E sintomo corporeo rimane
ancora come elemento centrale della
diagnosi. Il privilegiare un sintomo rispetto ad altre indicazioni
provenienti dal contesto di una situazione è chiaramente evidente, per
esempio, nel caso di Emma, ove la stessa sintomatologia appare ben più
complessa del semplice: «inceppamento
spastico dell'eloquio». Questo sintomo è messo
in risalto rispetto ad altri e fornisce la base della diagnosi di
Isteria: « maggio
1889; trovo una donna di aspetto ancora giovanile, sdraiata sul divano,
la testa appoggiata a un cuscino di cuoio. Il suo volto ha un'espressione tesa,
dolorosa, le palpebre socchiuse, lo sguardo rivolto al basso, la fronte
fortemente corrugata, i solchi naso-labiali scavati. Parla come a
fatica, a voce bassa, interrotta ogni tanto da inceppamenti spastici
dell'eloquio fino al balbettio» (Freud, 1892-1895,
pag. 213). E ancora interessante è
l'osservazione di Lucy: «Essa aveva completamente perduto la percezione olfattiva, ed era perseguitata quasi
ininterrottamente da una o due
impressioni olfattive soggettive; era inoltre depressa, stanca, si
lamentava di avere la testa pesante, di scarso appetito e incapacità a
lavorare» (Freud, 1892-1895, pag.
263). La permanenza della centralità
del sintomo corporeo indica che la tendenza
fondamentale della psichiatria è raccogliere il sintomo come espressione
di uno «stato oggettivo» di
malessere, e non come elemento della «percezione soggettiva» del malessere
Il sintomo, con Freud, rimane inalterato nei suoi
significati: esso è e sarà sempre in
psichiatria il sostrato corporeo, testimonianza e manifestazione di una qualche
disfunzionalità, di uno stato patologico. La necessità di individuare
precisamente un sintomo, separandolo e parzializzandolo non solo rispetto al
contesto storico, ma anche rispetto ad altri sintomi o segnali, svolge la
funzione di dare realtà scientifica e oggettiva alla presenza del disagio
psichico. Solo quando la sofferenza si è «incarnata» in un sintomo corporeo
essa diviene possibile oggetto dell'osservazione scientifica e indicatore
oggettivo della presenza di uno stato di malattia.
L'interpretazione
del sintomo, luogo del corpo sessuato
L'interpretazione dei sintomi che integra e
sostituisce in parte l'osservazione, intesa alla maniera di Charcot, ripropone
in modo più dinamico e articolato il rapporto tra malattia, nevrosi e
costituzione femminile. Questo
rapporto preferenziale è presente in ambedue le teorie interpretative
freudiane: quella del trauma e quella dello sviluppo sessuale. Il corpo
sessuato femminile, le sue tappe
biologiche sono nuovamente assunti come cause facilitanti e predisponenti le
nevrosi; essi costituiscono gli elementi di quella maggiore vulnerabilità delle
donne così evidente nella presenza quasi esclusiva di
donne nella «stanza» dello psichiatra-terapeuta.
«Com'è noto - dice Freud - l'età giovanile, dai quindici anni in poi,
è l'epoca in cui per lo più attivamente si manifesta la nevrosi isterica nelle
donne... I primi anni di un matrimonio felice provocano di solito
un'interruzione della malattia;
poi, quando i rapporti coniugali si raffreddano e i ripetuti parti provocano uno
stato di esaurimento, la nevrosi ricompare. Dopo i quarant'anni essa di solito,
nelle donne, non produce fenomeni nuovi, possono però
sussistere i vecchi sintomi, e cause violente possono intensificare la
malattia anche in età avanzata» (Freud, 1888, pag. 55).
E ancora: «L'isteria, affezione determinata dalla passività. sessuale,
più tipica nella donna» (Freud,
1896, pag. 308). «Le fobie con il
loro contenuto di angoscia più tipiche nelle donne» (Freud,
1896, pag. 146). Anche nelle
psicosi Freud trova la base della malattia nella interruzione o nella carenza di
sviluppo del ruolo femminile: «Io non dispongo che di pochissime analisi di
psicosi del genere, ma ritengo si tratti di un tipo di malattia psichica
utilizzato molto spesso, dal momento che in nessun manicomio mancano esempi,
analogamente interpretabili, di madri che, impazzite per la perdita del figlio,
incessantemente cullano tra le braccia un pezzo di legno, o fidanzate respinte
che da anni aspettano in ghingheri- il ritorno del promesso sposo» (Freud,
1894, pag. 133). Quando Freud
abbandona la teoria del trauma legato a eventi di vita frustranti
e tipicizzabili come femminili (gravidanze,, parti, amori infelici,
perdite di figli, fidanzati, mariti, etc.), continua a rivolgersi al corpo
sessuato femminile come causa della
nevrosi.
Egli ripropone in termini più generai - quelli,
appunto, della teoria dello sviluppo
sessuale maschile e femminile - lo stesso rapporto di continuità tra
normalità e patologia che era stato evidenziato nella donna dalla
scienza psichiatrica alle sue origini.
Nell'articolazione dello sviluppo sessuale femminile
che ritroviamo la concezione e l'interpretazione di una specifica malattia della
donna legata a fattori biologici e a esperienze affettive di carenza, di
mancanza e di subordinazione rispetto allo sviluppo sessuale maschile. Sulla
differenziazione tra sviluppo maschile e femminile nella teoria freudiana si è
sufficientemente parlato e argomentato; riportiamo qui solo due riferimenti che
ci sembrano costituire una sintesi chiara di questa posizione: «La sessualità
delle bambine è, per quanto ne
sappiamo, dominata e diretta da un organo di tipo maschile:
la clitoride) e spesso si estrinseca allo stesso modo di quella dei
bambini. Questa sessualità di tipo
maschile deve essere spazzata via dall'ultima ondata dello
sviluppo nella pubertà ... » (Freud, 1913, pag. 235). «Ma alla fine
dello sviluppo l'uomo-padre deve essere divenuto il nuovo oggetto amoroso, vale
a dire che al mutamento di sesso
della bimba deve corrispondere un mutamento di
sesso dell'oggetto. Ci attendono qui nuovi compiti di ricerca, si pongono
gli interrogativi sulle vie lungo
le quali si svolge questa trasformazione, se si compia
fino in fondo o in modo imperfetto, quali possibilità si dischiudano in
questo sviluppo» (Freud, 1931,
pag. 245). In questi termini lo
sviluppo sessuale femminile appare problematico, dagli
esiti incerti e indefiniti, implicato maggiormente nei meccanismi della
rimozione e della negazione, e come tale più denso di rischi e fonte di
disturbi psichici di quanto non lo
possa essere il normale sviluppo della sessualità maschile.
In definitiva Freud, nel tentativo di fornire una teoria generale dello
sviluppo della personalità nevrotica, pone la sessualità femminile e il corpo
della donna come luogo psichico in
cui si concentra e si sviluppa in modo privilegiato l'esperienza del «patologico».
La definizione
del modello psichiatrico
L'ulteriore sviluppo e la sistematizzazione della
teoria e della pratica psichiatrica si realizzano con Bleuler. Bleuler
rappresenta il tentativo di sintesi di esperienze e teorizzazioni che nel campo
della malattia mentale erano state prodotte nel corso della seconda metà
dell'Ottocento. Egli utilizza da un lato lo sforzo sistematico di Kraepelin di
dare razionalità a una descrizione delle sindromi e delle categorie
diagnostiche fino ad allora ancora incerte e provvisorie, dall'altro raccoglie
la lezione freudiana dando alla psichiatria un fondamento dinamico costituito
dall'interpretazione psicogenetica dei sintomi.
Emerge inoltre con Bleuler il nuovo peso dato al
campo dell'affetto nella diagnosi psichiatrica. Essa non si fonda più soltanto
sul sintomo corporeo, sull'espressione somatica (come avveniva con Charcot), ma
anche sull'atteggiamento affettivo dell'individuo nei confronti del mondo. La
diagnosi differenziale di schizofrenia avrà proprio come uno dei maggiori
referenti il richiamo alla valutazione della tonalità affettiva prevalente e
alla congruenza-incongruenza tra affettività e dati della realtà. Anche la
frattura tra nevrosi e psicosi che Freud poneva in maniera problematica,
alludendo all'incapacità ad accedervi da parte del trattamento psicoanalitico,
è ricomposta in un quadro volutamente unitario. Unitarietà che è il segno di
una volontà razionalizzatrice espressa dalla nuova scienza psichiatrica ma che
di fatto non muta il rapporto di separazione esistente sul piano dei trattamenti
che rimangono differenziati.
La psichiatria con Bleuler si pone definitivamente
come scienza della malattia mentale e come futura dispensatrice di ogni tipo e
possibilità di trattamento. In questa acquisita generalità la scienza
psichiatrica pone sullo sfondo le differenze sociali che finora, anche se in
modo ambiguo e tendenzialmente biologico-deterministico, l'hanno accompagnata e
tra queste anche le differenze di ruolo sessuale. Da Bleuler in poi, e fino a
oggi, la nosografia non può peraltro negare riferimenti precisi alla
connotazione sessuale femminile. Ciò è vero per la psicosi maniaco-depressiva
(ma anche per altre forme di depressione) in cui gli autori continuano a trovare
prevalenza di popolazione femminile. Ciò vale a maggior ragione per una
patologia che non può sussistere se non «al femminile»: le psicosi
catameniali, quelle puerperali, le turbe menopausali. Nella interpretazione di
tutti questi quadri domina tuttora il riferimento, talora anche soltanto
euristico a substrati biologici particolari della condizione femminile. Ciò che
si realizza è quindi una linea ufficiale in cui la scienza psichiatrica, nello
sforzo di divenire scienza universale, prende le distanze dagli elementi
concreti della esistenza sociale, e in primo luogo dalle differenze sessuali.
Queste differenze permangono al disotto dell'ufficialità delle teorie, e
costituiscono il sedimento storico su cui si fonda la pratica di lavoro nelle
istituzioni pubbliche e private della psichiatria.
Effetto di questo processo di generalizzazione e di
astrazione è la maggior distanza che si crea per la coscienza sociale e
individuale tra il senso dei proprio malessere e le proprie condizioni, di
esistenza. Effetto per la donna è la maggior distanza che si crea tra il suo
malessere e le ragioni di dissenso dal suo ruolo sociale. In questo quadro di
occultamento degli aspetti di cui si sostanzia il ruolo femminile, la
psichiatria chiude il dissenso della donna nelle maglie di un sapere
tecnico-scientifico neutrale e se- parato dalle sue specifiche condizioni di
esistenza.
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Note
1. A tale proposito rimandiamo a
più recenti ricerche sulla discriminazione sessuale nel lavoro. Aa.
Vv..- «Le sexe du travail», Presses Universitaires de Grenoble;",Grenoble.
2. A proposito di «stato e percezione» di malattia si veda E. Reale e M.L. Pepe: «Donne e follia», Devianza & Emarginazione, 1, 5, 1984.
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Il lavoro è stato pubblicato sulla rivista:
“Devianza & Emarginazione", 8, IV, 1985
Hanno collaborato al lavoro, svolto nell'ambito del progetto finalizzato del CNR «Medicina preventiva e riabilitativa», sottoprogetto «Malattie dei sistema nervoso», obiettivo 32, Rossella Molle e Maria Luisa Pepe, psicologhe volontarie e ricercatrici del Servizio donne di salute mentale di Napoli.