Resp.:
dr. E. Reale
La ricerca sui presupposti della violenza alle donne
Vita
quotidiana delle donne: rischi di violenza
Relazione al convegno internazionale: Violenza alle donne e risposte delle Istituzioni, Trieste, 13-14 novembre, 1998
Nell'affrontare il discorso del
collegamento tra violenza e disagio
psichico dobbiamo mettere a fuoco alcuni concetti necessari alla comprensione
del percorso che dalla violenza subita porta spesso la donna nel circuito del
disturbo psichico, della formazione di sintomi e del trattamento psichiatrico e
farmacologico.
Svilupperemo quindi un discorso a tappe che ci permetterà di visitare i
vari ambiti del problema utili alla rappresentazione delle connessioni e delle
intersezioni dei temi affrontati.
Richiamiamo quindi preliminarmente tre ordini di dati che rappresentano
il problema nei suoi vari aspetti quantitativi e qualitativi.
1.I
dati generali nazionali ed internazionali individuano tre tipi di violenza:
-
lo stupro
-
i maltrattamenti
-
le molestie
I
maltrattamenti fisici (le botte) verbali e psicologici sono le violenze più
diffuse tra le donne e si
sviluppano nell'ambito dei rapporti familiari; gli autori pi frequenti della
violenza sono i partners e gli ex-partners.
2.I
dati sulle conseguenze psichiche della violenza.
E' un dato riconosciuto che nelle donne vittime di violenza si producano
sintomi di rilevanza patologica.
I
disturbi psichici evidenziati
dall'OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) come conseguenze della violenza
sono (1):
- depressione e tendenza al suicidio
- paura, senso di vergogna e colpa;
- ansia e attacchi di panico;
- bassa autostima;
- disfunzioni sessuali;
- problemi alimentari;
-
disturbi compulsivi-ossessivi;
-
disturbo post-traumatico da stress;
- abuso di farmaci, alcool e droghe.
3.
I dati sulla maggiore morbilità delle donne in campo psichico.
Le statistiche nazionali ed internazionali indicano che le
donne sono maggiormente a rischio per varie tipologie di disturbo psichico:
ansia, disturbi alimentari (anoressia/bulimia); disturbi ossessivi, depressioni
(disturbi dell'umore).
In
particolare le donne:
-
si ammalano o ricevono una diagnosi di tipo psichico in particolare di
depressione da 2 a 3 volte in pi degli uomini.
-
sono le più alte utilizzatrici di servizi psichiatrici sia pubblici che
privati;
-
sono le più alte consumatrici di psicofarmaci (2).
Sulla
base di questo triplo ordine di dati:
- le statistiche sulla violenza contro le donne,
- le conseguenze accertate a partire da fatti di violenza;
- le statistiche sulla morbilità delle donne ed in particolare sull'alta
frequenza di disturbi psichici;
che
mostra come le donne siano
sovraesposte in tre diversi domìni, abbiamo
esplorato una ipotesi di connessione e contiguità tra violenza e
maggiore frequenza di disturbi psichici.
Partiremo quindi dall'analisi della violenza contro le donne che
definiamo violenza quotidiana perché non ha
esclusivamente caratteri di eccezionalità e non si riferisce solo al
campo della sessualità biologicamente intesa, ma pi spesso
attiene alle relazioni “normali” tra i sessi, inserite cioé nella
routine e nella quotidianità.
Nella
Tabella 1 gli attori, gli oggetti, le modalità e le motivazioni di questa
violenza a tutto campo.
Tab.
1
Violenza
quotidiana
Estraneo
CHIèèèèèèèèèèèè
Conoscente
Familiare
Prestazione Sessuale
COSAèèèèèèèèèèèè
Prestazione lavorativa familiare
Prestazione lavorativa extrafamiliare
Violenza fisica
COMEèèèèèèèèèèèè
Violenza verbale
Violenza psicologica
Provocazione fisica/sessuale
PERCHE'èèèèèèèèèèèè
Provocazione verbale
Provocazione psicologica
La violenza quotidiana definisce un ambito molto vasto di azioni: essa
soprattutto comprende tutte le situazioni in cui una donna nella sua vita
quotidiana può essere prevaricata e indotta con la violenza ad assumere un compito
a svolgere un'azione, ecc.
-
Nel Chi ritroviamo i vari
contesti da cui derivano gli autori della violenza;
-
nel Cosa é indicato
l'oggetto specifico della violenza, l'oggetto di cui il violento vuole
appropriarsi;
-
nel Come si individuano le
modalità , gli strumenti con cui viene esercitata la
violenza: attraverso pressioni fisiche (le botte), pressioni verbali
(ingiurie, minacce), psicologiche ( ricatti, denigrazioni, svalorizzazioni);
-nel
Perché si individua il movente; il perché é celebrato con la ricerca
della provocazione da parte della donna. Il Perché
esplorato dal contesto sociale ed istituzionale
mira alla ricerca della complicità della vittima con il violento o
violentatore, mira a mettere in luce un interesse comune tra vittima e
violentatore. Sul piano del giudizio sociale e della prassi
giuridica la ricerca del movente é in genere la conferma della sussistenza di una colpa, in
questo caso e solo in questo caso la ricerca del movente é finalizzata ad
alleggerire la posizione del
colpevole e spesso ribalta anche la posizione della vittima in colpevole.
Ogni atto di violenza può generare disagi e difficoltà: essi però
consistono in reazioni di breve durata se dalla violenza subita non derivano
ulteriori danni alla donna in termini di svalorizzazione della propria immagine
e di isolamento sociale.
Ciò che crea infatti la differenza tra conseguenze psichiche di breve
durata e conseguenze di lunga durata é la possibilità di attuare forme valide
di riconoscimento della violenza e di avere intorno un contesto di solidarietà
e sostegno.
Ci troviamo di fronte una
situazione paradossale:
la
violenza in sé più traumatica, ma che é più capace di generare solidarietà
e reti di protezione intorno alla vittima, é anche quella meno implicata
nella produzione a lungo termine di un disturbo psichico;
viceversa,
la violenza quotidiana, cronicizzata, che non fa rumore e che meno desta allarme
sociale é quella che ritroviamo maggiormente implicata in patologie più gravi
(ad esempio la depressione grave) proprio perché ha difficoltà ad essere
riconosciuta e ha minori possibilità di creare
contesti di solidarietà intorno alla vittima.
Differenziamo pertanto, ai fini della nostra trattazione sulle
conseguenze in termini di disagio e disturbi psichici, la violenza in due
sottotipi: la violenza sessuale e quella di genere (Tab. 2).
Tab. 2
Due sottotipi di violenza
ò violenza
sessuale |
ò violenza di genere |
ò rapina
sessuale: lo
stupro |
ò asservimento e sfruttamento
delle capacità femminili nell'ambito dei "normali" rapporti tra i sessi |
ò estraneità
occasionalità eccezionalità |
ò familiarità abitualità normalità/quotidianità |
ò imposizione
fisica, aggressioni, sequestro,
minacce e ricatti |
ò denigrazione,
aggressioni verbali, minacce e ricatti, maltrattamenti
fisici, psicologici e
sessuali |
I due sottotipi evidenziano
le diverse e specifiche caratteristiche della violenza:
-
la violenza sessuale ovvero l'appropriazione di una prestazione direttamente
sessuale con le caratteristiche della “rapina e dello scippo” da parte di
estranei.
-
la violenza di genere cui sono soggette le donne nell'ambito dei rapporti
familiari, lavorativi, amicali: essa si verifica ogni volta che una donna viene
maltrattata , denigrata, molestata, anche sessualmente
violentata, ma all'interno di relazioni così dette “normali” di conoscenza,
di frequentazione, di condivisione di spazi e di abitudini.
Quando parliamo di violenza sessuale più spesso
intendiamo un concetto di violenza più ampio di quello legato all'esercizio del
potere nella sfera sessuale in senso stretto; più spesso intendiamo una
violenza a tutto campo, caratterizzata dal fatto che è esercitata da un singolo
uomo o da un contesto maschile su una donna e che ha come scopo l'asservimento
ed il dominio. A questa violenza si addice meglio la definizione di violenza di
genere vale a dire di un genere (quello maschile ) su un altro genere (quello
femminile).
E' questa la violenza più diffusa, meno
riconosciuta e che arreca maggiori danni alla salute sia in termini fisici che
psichici perché facilmente tende ad inserirsi nelle pratiche abituali del ruolo
femminile orientate a tollerare, comprendere, gestire, controllare
(l’orientamento al To Cope tipico
del ruolo materno) ed a
cronicizzarsi.
Questa differenziazione tra violenza sessuale e violenza di genere
riporta il discorso della violenza contro le donne all'interno di un universo più
ampio che investe le relazioni a tutto campo tra i due generi maschile e
femminile.
Il
versante delle differenze di genere, le differenze cioé socialmente attribuite
ai sessi sulla base della primitiva e naturale differenza biologica ci consente
di aprire il discorso sui ruoli sociali e sulle attribuzioni agli uomini e alle
donne di modelli pre-stabiliti.
Questi modelli hanno il compito di indirizzare
la scelta e l'assunzione di comportamenti “maschili” e
“femminili” radicalmente differenziati e rappresentati come le due metà di
una mela.
In effetti anche in questa rappresentazione delle due metà di una mela
vi é tutto il mito, l'ideologia
neutralista “della differenza uomo donna”.
Come vedremo questa famosa complementarità di fatto si sostanzia di una
disparità tra le due parti: vi é infatti da un lato un quasi intero che
é la rappresentazione sociale dell'uomo e dall'altro solo uno spicchio
che é la rappresentazione della donna. In definitiva la teoria della
complementarità dei ruoli e delle due metà di una mela non rappresenta
assolutamente la realtà sociale ed i modelli cui la donna é chiamata ad
adeguarsi. Nel rapporto tra i sessi allora abbiamo una persona rappresentata
come manchevole in molti campi
tranne che in uno (la competenza affettiva della cura) ed un'altra per converso
ricca in tutti i domìni tranne che in uno.
Questo gioco delle parti presente sulla scena sociale non favorisce le
donne che ne traggono una percezione soggettiva di svantaggio, di manchevolezza,
di unilateralità nella costruzione
della propria personalità.
Le carenze
femminili attraverso la
rappresentazione sociale
carenze
in vari campi: ·
forza, piano fisico ·
attività, piano sessuale ·
logica, piano intellettuale ·
resistenza, piano produttivo |
§
espressività,
affettività, curatività |
ò bisogno
di un tutor, mediatore con la vita sociale
produttiva |
ò bisogno
di oggetti su cui riversare
la sovra-produzione di ricchezza |
ò carenza
e ricchezza alleati nel definire e rappresentare la donna come
bisognosa degli altri ed incapace a prendersi cura di sè |
La donna si percepisce carente in vari campi: dal piano fisico (la
mancanza di forza) al piano mentale (la carenza di un pensiero astratto,
carenza di sintesi, ecc.) passando per il piano sessuale (mancanza del pene) e
per quello produttivo ( mancanza di resistenza alla fatica).
Queste supposte carenze
e mancanze inducono nella donna il bisogno di un tutor, di un mediatore nel
rapporto con quegli aspetti della
vita sociale e produttiva che
richiedono le caratteristiche sopra
elencate di cui ella si ritiene priva
o carente.
Su un altro versante, della vita familiare e riproduttiva, la donna é
rappresentata ricca, ricca di capacità di cura, ricca di espressività ed
empatia: ma anche per tutta questa ricchezza ha bisogno degli altri, ha bisogno
degli altri a cui indirizzare le
sue cure ed attenzioni.
In definitiva carenze e ricchezze sono alleate nel definire e
rappresentare la donna come bisognosa degli altri ed incapace di avere una
propria autonomia.
Ogni teoria della carenza, della debolezza sociale ha per converso la
necessità di una teoria e pratica
della protezione, del tutoraggio sociale compensativo. La rappresentazione di
una mancanza ovvero di un soggetto debole e di uno forte, fondato sulla
rappresentazione di carenze storico-naturali, crea un rapporto di dipendenza
unilaterale: della donna dall'uomo.
Ma non é soltanto questa la dipendenza della donna.
Ecco allora come si costruisce per la donna una situazione di doppia
dipendenza: da un lato la sovra-produzione di cure per altri, portato del ruolo
materno, dall'altro l'esaurimento di energie per sé con la carenza e la povertà
di iniziativa nella realizzazione di obiettivi personali.
La
doppia dipendenza (tabella 3) si individua in:
-
la dipendenza nei fini, ovvero il mettere al servizio della realizzazione dei
fini e degli obiettivi altrui le proprie competenze, capacità e risorse;
-
la dipendenza nei mezzi ovvero la dipendenza che si crea nell'acquisire da
qualcun'altro qualcosa di essenziale alla propria sopravvivenza ma di cui si é
privi o di cui ci si suppone privi o non in grado di acquisire direttamente(3).
Tab. 3
La doppia dipendenza
dipendenza
dai fini altrui nel lavoro di cura familiare ò |
dipendenza
dalle risorse altrui nel rapporto con l'esterno ò |
La donna si prende
cura degli altri, si occupa di tutti tranne che di sé;
attende alla realizzazione dei bisogni degli altri da quelli
materiali, a quelli
psicologici e morali, ò |
La donna si muove con difficoltà nel mondo esterno: sempre divisa
e orientata alla soluzione di problemi interni/familiari, che le gravano
come una seconda pelle ò |
La donna percepisce se stessa capace, ma risolve la sua capacità nel metterla a disposizione degli altri per finalità estranee a quelle personali. ò |
La donna percepisce se
stessa come incapace e priva di risorse: "non so fare, non so agire, non
so comportarmi" vale a dire, non ho le capacità, le risorse per essere
nel mondo da sola, ovvero senza il rapporto con un uomo. ò |
La donna sperpera il suo patrimonio di risorse e capacità, lo esaurisce nella dimensione del lavoro "per altri"; se ne trova priva nella dimensione del "per sé" e del suo rapporto con il sociale e con la produzione. ò |
la donna chiede all'uomo l' aiuto nella sfera esterna: aiuti materiali, aiuti psicologici di supporto, incoraggiamento, mediazione, gratificazione. ò |
Risultato
finale é la non conoscenza del processo che determina: da
un lato il depauperamento della
donna nella dimensione “per altri”;
dall'altro
lato la mancanza di risorse personali per la sfera del “per sé”.
|
Alla fine la pratica e la teoria del ruolo femminile, con il
depauperamento della donna e l'asservimento all'uomo delle sue capacità e
risorse, si connettono perfettamente con l'idea e la pratica della violenza
creando un continuum esperienziale responsabile di quel fattore di rischio per
la salute psichica che é il non riconoscimento o la difficoltà a riconoscere
nella violenza il carattere di violazione del diritto alla libera espressione
personale.
Un concetto generale di violenza che trova corrispondenza nel concetto di
ruolo femminile, così come lo abbiamo delineato fin qui, é
l'asservimento di una persona a bisogni
diversi dai suoi, la sostituzione degli interessi personali con gli interessi ed
i bisogni altrui.
Infatti scopo finale di ogni violenza é: ridurre in stato di dipendenza
e schiavitù l'altro, ottenere cioé che una persona neghi le proprie origini,
l'appartenenza al proprio mondo (di cultura, interessi e progetti) e sposi altri
interessi, divenendo alla fine altro da sé ed essendo sempre disponibile alla
crescita di interessi altrui (4).
Nel ruolo femminile troviamo gli stessi obiettivi realizzati attraverso
il richiamo a modelli, rappresentazioni sociali, ideologie sulla costituzionale
tendenza psico-biologica delle donne a prendersi cura degli altri, a posporre o
negare i propri bisogni rispetto a quelli altrui, a negare la propria identità
per far posto alle identità degli
altri.
Richiamiamo alcuni concetti del ruolo che
chiariscono gli obiettivi di sudditanza delle donne
nel rapporto con gli altri.
-
fare per altri come fare per sé;
-
farsi carico (to cope) di tutto considerando la stanchezza come
illegittima;
-
svalutare le proprie capacità, restringere i propri spazi, disconoscere le
proprie competenze in quanto sono d'intralcio nell'attendere alle esigenze
altrui (5).
La connessione tra violenza
ed organizzazione strutturale del ruolo femminile
porta con sé per le donne non solo un elevato rischio di incorrere nella violenza ma anche un elevatissimo rischio,
quando vi si incorre, di non riconoscerla.
Non riconoscere la violenza significa non attribuire ad essa quel valore
necessario di torto ingiusto
o di danno subito.
Ed é proprio nel fattore del non
riconoscimento - fattore che
abbiamo visto legato alla rappresentazione e all'esercizio del
ruolo femminile -
che rintracciamo una delle cause che determinano la produzione e/o lo sviluppo
di quei disturbi psichici identificati dall'OMS come conseguenze della violenza
.
Vediamo quindi quest'altro collegamento necessario alla comprensione pi
ampia del fenomeno della violenza e soprattutto di quella “strana
resistenza” che la donna mostra nei contesti in cui é vittima di violenza.
Si é detto che nella nostra società accanto alla violenza contro le
donne avanza anche un altro fenomeno che tocca pi donne che uomini: la
diffusione e l'aumento delle patologie psichiche.
Anche qui troviamo una sospetta connessione interna tra disagio psichico
e donne: troviamo patologie che esistono solo al femminile e sono quelle che la
psichiatria mette in relazione esclusivamente con il ciclo biologico
(depressioni e psicosi catameniali, post-gravidiche e post-partum); e con
il ciclo alimentare (anoressia al 95% femminili) ed infine troviamo anche altre
tipologie “miste”, maschili e femminili, come disturbi ossessivi, paranoie,
attacchi di panico, disturbi d'ansia, depressioni, ma anch'essi con una
prevalenza di incidenza tra la
popolazione femminile.
In questa sede non possiamo soffermarci sulla critica alle impostazioni
di tipo biologistico tipiche della scienza
psichiatria e delle altre scienze umane, ma
rimandiamo per un approfondimento ad altri lavori specifici sulla
differenza di genere ed il disagio psichico (6).
Se esaminiamo ora una
particolare patologia psichica, la depressione, considerata la pi tipica delle
patologie femminili, con una prevalenza di donne da due a tre volte pi degli
uomini, troviamo una connessione
strettissima tra caratteristiche della personalità depressiva così come
descritte nei manuali di psichiatria e caratteristiche della personalità
femminile.
Scrive Arieti nel suo trattato sulla depressione: “Un tipo di
personalità che si associa alla depressione é caratterizzato dalla necessità
di piacere agli altri e di agire secondo le aspettative altrui... é incapace di
entrare in contatto con se stesso, quando ha una sensazione di infelicità, di
mancanza di gioia tende a credere che non sia colpa degli altri” (7).
Per converso rivediamo i valori femminili tradizionalmente attribuiti
alla donna nella ideologia dominante:
a.
riferimento all'uomo per supporto concreto e per statuto sociale;
b.
vita attraverso gli altri e per altri: le
donne sono incoraggiate a
realizzarsi in modo mediato (attraverso marito e figli);
c.
proibizione ad esprimere ed affermare se stessa, di essere aggressiva e di
cercare posizioni di potere;
d.
enfasi sulla bellezza fisica come strumento di seduzione ed unica attribuzione
di potere sul maschio (8).
Ci troviamo così di fronte ad un'altra coincidenza: quella
tra i fattori di personalità associati alla depressione ed i valori della
femminilità presenti nei modelli socialmente riconosciuti.
Abbiamo così raggiunto l'obiettivo
di mettere in relazione i
tre fenomeni che interessano la vita della donna (attività di cura nel ruolo
femminile, violenza, depressione) e che appaiono solidali nel creare quel
fattore indispensabile a che la violenza, non riconosciuta e non combattuta, si
cronicizzi e deteriori la salute delle donne, ma anche indirettamente la salute degli altri soggetti che sono
in stretta connessione con le
donne.
Al centro del circolo vizioso vi é sicuramente il ruolo femminile - che
abbiamo visto in connessione con la
violenza e la depressione - e che può essere rappresentato come un incubatore
di eventi di violenza e di depressione (tab. 4).
Tab. 4
Il ruolo sociale femminile come
incubatore di eventi di violenza
e vissuti depressivi
il
versante soggettivo |
il
ruolo sociale |
il
versante oggettivo |
la depressione: |
il modello della identità femminile: la
esclusività e centralità della cura degli altri |
la
violenza: l'imposizione
dei propri bisogni ed interessi sugli altri |
ò il nascondimento della violenza ad opera del modello di ruolo ò ovvero: l'assenza
della coscienza di un torto subito, di una ingiustizia non motivata, la
presenza di una attribuzione personale di responsabilità genera depressione ovvero: svalutazione
delle proprie capacità nel prevenire la violenza,
nel
reagire alla violenza, nel soddisfare in modo adeguato i bisogni altrui |
Il ruolo femminile entra così nella formazione del circuito della
violenza in due momenti:
-
ante-factum: quando pone la donna nell'atteggiamento di colei che cerca
di soddisfare il bisogno altrui (attività di cura), e la presenta come
disponibile ad ogni richiesta;
-
post-factum: quando riduce le capacità di reazione
attraverso il dubbio sulle responsabilità personali e l'auto-riflessione
sulle colpe derivate da compiti e richieste non soddisfatti o ignorati.
Passiamo ad analizzare in dettaglio nella vita quotidiana della donna stretta dai modelli di ruolo tutti i fattori del non riconoscimento:
-
la scelta relazionale: l'aver scelto la relazione con l'uomo violento
-
l'interesse alla relazione: avere interesse al mantenimento della
relazione
-
il comportamento sanzionabile alla luce del ruolo femminile: poter
sempre rintracciare una mancanza nel proprio comportamento di cura
-
la responsabilità della vittima: essere sempre sensibili alla
chiamata di corresponsabilità
-
la mancata o debole reazione alla violenza: la difficile
identificazione del valore ingiusto del sopruso e del diritto conculcato
-
la ricerca di protezione: il
sentirsi incapace ed esposta
-
l'isolamento: non avere contesti e reti di solidarietà
Questi fattori si compongono e presiedono al mantenimento e al processo
di cronicizzazione della violenza: la donna entra in un circuito in cui: pi é
in relazione con la persona
violenta, pi non riconosce la violenza, pi ha difficoltà a sottrarvisi.
Da questo trend a permanere nella relazione di violenza
derivano altri fattori: l'abbassamento della autostima, la percezione di
incapacità, ed infine l'attribuzione a se stessa di ogni colpa e responsabilità.
Per affrontare il fenomeno della violenza familiare, che abbiamo
individuato intimamente connesso con il ruolo come ante-fatto e con la
depressione come post-fatto, sono necessarie una serie di misure che coinvolgono
in sequenza successiva: il contesto sociale, la donna e l'uomo.
La tabella successiva sintetizza questa azione sociale a tre fasi che
investe il problema nella sua complessità così come si é profilato dal
discorso fin qui condotto.
Tab. 5
L'azione sociale ed il
riconoscimento della violenza
Non vi é soluzione di continuità
tra:
i compiti di ruolo, la
strutturazione della personalità femminile, la soggezione alla violenza
sessuale
E' necessario che l'azione sociale abbia una forte valenza di rottura della continuità e contiguità
tra
i vari aspetti della vita della donna, tra l'aggressore e la vittima.
ò
I vari piani di Azione del
contesto sociale osservatore e/o giudice della violenza
ò
AZIONE
I: il contesto della
violenza -
attestazione della violenza, -attestazione di non colpevolezza della
vittima; -
differenziazione del ruolo del
violento, aggressore e della vittima -
censura e condanna del
comportamento violento -
solidarietà e sostegno alla donna maltrattata -
azione di riparazione del danno ò |
|
AZIONE
II: la
donna maltrattata -
il contesto della soggezione agli altri -
l'incapacità a riconoscere la violenza -
le relazioni di dipendenza -
l'azzeramento dello spazio di autoaffermazione |
ò AZIONE
III: l'uomo violento -
il contesto del ricorso alla violenza -
l'incapacità a sostenere il confronto con punti di vista diversi -
le reazioni di sopraffazione -
lo straripamento dello spazio di autoaffermazione
|
I vari piani si svolgono in tempi modi e luoghi differenziati.
Il 1° atto garantisce che la
vittima non abbia ulteriore danno oltre alla violenza subita
ed il 2° e 3° atto danno luogo a misure pratiche di prevenzione dalla violenza
sia dal punto di vista femminile che maschile
Vogliamo dare ora un contributo specifico al chiarimento del rapporto
violenza-depressione sulla base della esperienza clinica e di ricerca maturata
all'interno del Centro Prevenzione Salute Mentale della Donna della Azienda
Sanitaria 1 di Napoli.
Il Centro ha competenza sul disagio psichico in generale, ma nella
maggioranza di casi si occupa di depressione, che come si é detto é la
sindrome a maggiore impatto tra la popolazione femminile.
Nella casistica clinica del nostro Centro
troviamo che nell'80% di casi di donne
depresse si evidenziano situazioni pregresse di violenza psicologica,
violenza verbale, denigrazione e svalorizzazione;
e nel 30% - 40% dei casi vi é anche ricorso alla violenza fisica abituale ed ai
maltrattamenti.
Il contesto della violenza sia fisico che psicologico non appare
immediatamente: la donna che arriva
ad un Servizio di psichiatria o di psicologia
ha in qualche modo “rimosso” la violenza e porta soltanto
all'attenzione del tecnico il personale malessere scollegato dagli eventi
quotidiani.
La storia di vita di queste donne ci ha indicato
che nella assoluta
maggioranza dei casi si tratta di
violenza e maltrattamenti fisici e
psicologici all'interno dei rapporti di coppia . Autore é sempre l'uomo e il
contesto della violenza é l'educazione al ruolo che la donna ha avuto nella sua
adolescenza e nel suo rapporto con la coppia
genitoriale. Spesso infatti la relazione tra
i genitori é improntata a quei
criteri di violenza e dipendenza che
verranno riprodotti dai figli e dalle figlie nelle loro relazioni
con i partners.
Lavorare quindi con donne che presentano disturbi psichici richiede una
specifica competenza ed allenamento alla individuazione del processo di
copertura ed accantonamento della situazione di violenza: occorre che su questo
terreno gli operatori siano adeguatamente formati allo sviluppo di adeguate
capacità di ascolto ed intervento.
Per la formazione degli operatori diviene centrale
il lavoro di riconoscimento della violenza e del suo percorso di
formazione nella vita della donna.
Il percorso dalla violenza al disagio psichico può essere
rappresentato in fasi e tappe di
progressiva strutturazione che conducono la donna dalla soggezione alla violenza
fino all'espressione di un disturbo psichico:
-
in una prima tappa si
individua l'evento ed il contesto della violenza, là dove la violenza non é
riconosciuta né dalla donna né dal
contesto sociale;
in questa prima tappa ritroviamo i fattori, già precedentemente evidenziati, che determinano il contesto della violenza e la sua tolleranza.
-
In una seconda tappa, si individua l'isolamento ed il prevalere
dell'ottica familistico-maternalistica che
approfondiscono il meccanismo
della tolleranza, e
producono svalorizzazione, depressione. Il
non riconoscimento della violenza subita si cronicizza e si trasforma in
mancanza di forze, esaurimento di risorse,
rappresentazione di disvalore, debolezza ed incapacità personale.
Se é “connaturato” al ruolo femminile far prevalere gli interessi dell'altro e/o degli altri, e come tale il ruolo é generatore di situazioni esistenziali depressive, il contesto della violenza, che spesso accompagna l'esecuzione dei dettami del ruolo femminile, é un pi potente generatore e amplificatore di sintomi depressivi in termini di durata, gravità, intensità.
-
In una terza tappa si individua la richiesta di aiuto della donna al
tecnico. L'esperienza clinica ci ha indicato che un contesto di violenza
particolarmente grave é da presupporre ogni volta che una donna ha difficoltà
a rappresentare il suo quotidiano, a entrare nello specifico della sua vita di
relazione; quando la donna “non
rivela i segreti” delle ingiustizie patite, vuol dire che é pronta al
sacrificio estremo: la perdita totale di sé nella malattia.
A.
La prima tappa : la formazione
del contesto della violenza e la violenza tollerata
-
L'uomo violento é stato scelto, rappresenta una parte di un progetto di vita
(coppia, amico, ecc.).
-
Questo progetto può essere rafforzato da aspettative della donna: dimostrare
agli altri di saper fare, saper stare in rapporto, saper meritare
riconoscimenti e compensazioni di valore, ecc.
-
Il progetto sulla cui base si sceglie un uomo trae origine dalla fase
adolescenziale ed é supportato dall'addestramento e dall'educazione al ruolo.
Esso é in rapporto con le
aspettative dei genitori, e con
quanto ha vissuto la donna-adolescente in termini di deprivazione della propria
sfera di libertà personale nel rapporto con la madre ( la madre si presenta
sulla scena della vita dell'adolescente figlia come bisognosa di supporto
materiale e psicologico, spesso é essa stessa vittima di un partner violento e
disconoscitivo).
La
scelta del partner é caricata di un significato che affonda la sua
radice nella strutturazione della identità personale. L'altro, il partner, dopo
che la donna ha avuto una vicenda adolescenziale di tipo supportivo nei
confronti della famiglia (ruolizzazione precoce) assume un doppio ruolo: da un
lato compensativo risarcitorio, dall'altro dimostrativo delle proprie capacità
di scelta ( del partner giusto) e della
capacità di stare in relazione con l'uomo (9).
Il significato compensativo
- risarcitorio della relazione con il partner é rintracciabile da un lato nella
percezione di “non aver avuto attenzioni
e riconoscimenti” dai genitori e nella famiglia;
dall'altro lato nella necessità di formulare un progetto alternativo a quello
familiare in cui sia prevista, diversamente da quanto successo nella relazione
tra i genitori, un rapporto con il proprio partner soddisfacente e
riconoscitivo.
I vissuti soprattutto delle giovani donne che “soffrono” di incapacità
alla separazione (dipendenza) da partner disconoscitivi e/o violenti, fanno
riferimento ad un bisogno di conferma di amore e di valore da parte del partner, che crea una dinamica di richieste continue che creano
nell'altro atteggiamenti opposti a
quelli desiderati.
Emerge così un desiderio di approvazione e riconoscimento che é quasi
sempre “caricato” del bisogno della madre: si tratta spesso di un impegno a
realizzare un progetto per “ conto di altri”.
In definitiva dietro la tolleranza alla violenza, dietro la permanenza
nella relazione con l'uomo disconoscitivo e/o violento troviamo due elementi
fondamentali della storia
della donna:
-
un carico progettuale (un progetto caricato di aspettative altrui) derivato
dalla vicenda adolescenziale così come l'abbiamo definita;
-
una educazione al ruolo che fornisce alla donna strumenti impropri nella
relazione con l'uomo: definisce
regola naturale
il rapporto dispari improntato alla cura dell'altro, e
considera la reciprocità della
cura qualcosa che la donna deve guadagnarsi, contrattare e chiedere all'altro.
Fin qui le vicende educative ed adolescenziali che determinano
il terreno ed il contesto favorevole alla tolleranza della violenza.
Sullo sfondo dell'addestramento al ruolo si innestano i compiti attuali e
concreti che la donna si assume all'interno della famiglia: ogni azione della
vita quotidiana della donna può dare luogo ad una deroga al ruolo, o un venir
meno al patto relazionale sull'assunzione di un atteggiamento di cura,
disponibilità, accoglienza, vicinanza fondato sui modelli di ruolo del
proprio genere.
Sulla pluralità dei
compiti, sul loro avere come obiettivo il gradimento dell'altro,
si apre lo spazio della quotidiana e comune violenza familiare. La
violenza maschile viene percepita dalla donna come comportamento
comprensibile e giustificabile, in quanto determinato e motivato da un
comportamento improprio, imprudente, illegittimo, ingiusto della donna: una
motivazione alla violenza dell'uomo é sempre rintracciabile nel mare
magnum del “dover essere” femminile e della specifica competenza alla
cura degli altri.
Il riconoscere, il rintracciare la motivazione,
fornisce un alibi potente all'uomo violento (presunta legittimità della
violenza) che coinvolge
direttamente la donna. La donna infatti nel momento in cui
rintraccia la motivazione tende a percepirsi interna al meccanismo di
produzione della violenza, e quindi a sentirsi responsabile e colpevole.
Questo dato della motivazione che, una volta individuata,
torna a danno della vittima trasformandola in presunta colpevole, é un
meccanismo estraneo al contesto civile e giuridico della nostra società.
Si pensi solo al fatto che nel mondo giuridico vale il principio opposto:
se non viene riconosciuta e
prodotta una motivazione, difficilmente un delitto sarà punito, ovvero sarà
identificato il colpevole.
Nel caso della violenza contro la donna vige il principio che:
maggiori motivazioni sono fornite, pi la posizione del colpevole si
alleggerisce fino addirittura a capovolgersi completamente ed a coinvolgere la
vittima che, solo in questo specifico caso (della violenza sessuale), ha un alto
tasso di probabilità di divenire essa stessa colpevole.
Se questo é il meccanismo perverso presente in maniera anomala nella
cultura e nella ideologia sociale, é chiaramente presente anche nel vissuto
soggettivo della singola donna:
questo meccanismo porta la donna soggettivamente ad accettare (a non
disconoscere attivamente) e a rimanere nella violenza.
Ma il permanere nella situazione di violenza non é senza rischi: esso ha
conseguenze psicologiche tutte
molto gravi.
La violenza fiacca e riduce
progressivamente le capacità di reazione, restringe in generale gli spazi
vitali, le relazioni con gli altri, l'attenzione e l'interesse verso di sé;
riduce il campo dei diritti personali, ed amplia a dismisura il
campo dei diritti dell'altro.
La prima tappa: la violenza
tollerata
à La
scelta relazionale e l'interesse alla relazione |
L'uomo
violento è stato scelto, rappresenta una parte di un progetto di vita
(coppia, amico, ecc.). Questo
progetto può essere rafforzato da aspettative della donna: dimostrare
agli altri di saper fare, saper stare in rapporto, ecc. e ricevere
riconoscimenti e compensazioni di valore |
à Partecipazione
della donna: la provocazione |
Ogni
azione della vita quotidiana della donna può dare luogo ad una deroga al
ruolo, o un venir meno al patto relazionale sull'assunzione di un
atteggiamento di cura, disponibilità,
accoglienza, vicinanza fondato sui modelli di ruolo del proprio genere. |
à L'attribuzione
di responsabilità alla donna |
Il
comportamento violento è presentato o riconosciuto come ammissibile, non
sanzionabile, in quanto collegato ad un comportamento improprio,
imprudente, illegittimo, ingiusto della donna,
sempre rintracciabile nel mare
magnum del "dover essere" femminile e della specifica
competenza alla cura degli altri. |
à I vissuti
di colpa e la mancanza di risposta alla violenza |
Il
riconoscimento di una motivazione (presunta legittimità della violenza)
coinvolge la donna che tende a percepirsi interna al meccanismo di
produzione della violenza, generando attribuzioni di responsabilità e
sensi di colpa. Questo
meccanismo porta la donna soggettivamente ad accettare (non disconoscere
attivamente) e a rimanere nella violenza.
|
à La
violenza tollerata genera riduzione
di capacità, risorse, stima e quindi
di autonomia |
La
violenza fiacca la donna in due direzioni: -
la porta ad ampliare i diritti dell’altro e a ridurre i propri
attraverso l’aumento del carico di cure per gli altri e la riduzione di
cure per sé (aumento del lavoro e delle responsabilità, riduzione degli
spazi personali); -
le riduce la stima di sé, la fiducia nelle proprie capacità, il senso di
sicurezza personale, sviluppa la dipendenza ed il bisogno di affidamento
ad altri. |
|
|
La seconda
tappa inizia con l’isolamento e la perdita delle risorse personali, messe al
servizio degli altri; termina con
la percezione di essere diversa, di essere diventata cioè incapace, priva di
risorse e di qualità, bisognosa di appoggio e con l’attribuzione del
cambiamento ad un evento patologico esterno: “la malattia, la depressione”,
ecc.”.
B. La
seconda tappa: la violenza cronicizzata
Nel momento che si é innescato il meccanismo della tolleranza verso la
violenza per i motivi complessi sia oggettivi che soggettivi, appena delineati,
si passa alla tappa della convivenza con la violenza vale a dire della
necessità di trovare strategie di adattamento utili alla sopravvivenza nel
contesto ambientale sfavorevole.
Tollerare e vivere in una
relazione violenta richiede una concentrazione di energie rivolta al controllo
dell'altro che induce a raddoppiare
quelli che sono i ìnormali orientamenti alla curaì del ruolo femminile
(l'attenzione e vigilanza su tutto, il controllo su di sé e gli altri,
ecc).
Se le attività di cura creano isolamento sociale e dipendenza, la
situazione di violenza diviene potente mezzo di amplificazione di queste
caratteristiche del ruolo. Essa crea sia tempi insufficienti che caduta delle
motivazioni per le relazioni esterne. Un altro
deterrente rispetto alle relazioni con l'esterno é costituito dai
vissuti di vergogna e colpa che la donna prova nei confronti della situazione
subita (“non so farmi rispettare, non sono capace di meritare rispetto”).
Nella situazione di violenza le donne
tendono ad allontanarsi ed ad auto-emarginarsi dal contesto sociale, a
ridurre lo spazio della espressività soggettiva, nascondendo e celando agli
occhi degli altri la situazione che subiscono.
Per tutti questi meccanismi diretti ed indiretti di induzione
all'isolamento la donna che per anni mantiene un rapporto con un uomo violento
é una persona che non ha o che é stata privata di supporti e reti di
solidarietà, relazioni positive con gli altri.
Questa riduzione di socialità si trasforma da effetto e
conseguenza della violenza in fattore
di rischio per il perdurare della
violenza stessa.
Riducendosi infatti le
relazioni sociali e mantenendosi come unica relazione quella
con l'uomo violento aumenta il rischio di esposizione alla violenza
attraverso il meccanismo della
dipendenza: colui che é violento é anche l'unica fonte che può soddisfare il
bisogno di relazione della donna. Questo meccanismo
crea la cosiddetta dipendenza secondaria tipica della relazione
aguzzino-vittima in un contesto di mancanza
di protezione e di totale
isolamento sociale (sindrome di Stoccolma).
La esposizione alla violenza con la quasi esclusività della relazione
con il violento determina anche pi facilmente la assunzione del punto di vista
del violento e delle sue ragioni: se la violenza é giustificata, meritata, vuol
dire che io sono una persona priva di diritti, di capacità, di positività,
vuol dire che io sono una persona senza valore che merita disprezzo ed ingiurie.
Corollario della violenza é la riduzione della stima di sé perché la
violenza sempre e comunque comporta denigrazione, disconoscimento mancanza di attribuzione di valore.
Tolleranza, non riconoscimento della violenza, isolamento sociale,
dipendenza socio-emotiva dal violento, riduzione della stima
sono i potenti fattori alleati
di una percezione di impossibilità ad uscire dalla situazione di soggezione e
di violenza.
Quando tutte le strade appaiono bloccate, quando il problema appare
irrisolvibile, quando la donna non percepisce via di scampo alla situazione che
spesso é la relazione con l'uomo violento,
si apre la strada
della malattia, della depressione, come segnale di un disagio che non si
può dire e come richiesta di aiuto e solidarietà sotto la veste di richiesta
di cure mediche.
Seconda
tappa: la violenza cronicizzata |
||
à Dalla
violenza non riconosciuta e tollerata all'isolamento e alla percezione di incapacità
|
La
seconda tappa del percorso è la cronicizzazione della violenza: dalla non
risposta di contrasto, dalla tolleranza, determinata dal meccanismo
precedentemente messo in luce, ci si avvia in una seconda fase. Il permanere nella violenza richiede una concentrazione di
energie sulla relazione violenta raddoppiando quelli che sono i
"normali orientamenti alla cura" del ruolo femminile (l'attenzione e vigilanza su tutto, il controllo su di sè
e gli altri, ecc). Se
le attività di cura creano isolamento sociale e dipendenza, la violenza
diviene potente mezzo di amplificazione di queste caratteristiche del
ruolo. Essa
crea sia tempi insufficienti e caduta delle motivazioni per le relazioni
esterne sia deterrenti come i vissuti di vergogna e colpa nei confronti
della situazione subita (non so farmi rispettare, non sono capace di
meritare rispetto) che tendono ad allontanare le donne dal contesto
sociale ed a ridurre lo spazio della espressività soggettiva. |
|
à La
violenza ha come correlato
l'isolamento della vittima da un contesto di solidarietà |
La
donna che per anni mantiene un rapporto con un uomo violento è una donna
che non ha o che è stata privata di supporti e reti di solidarietà,
relazioni positive con gli altri; paradossalmente,
riducendo le relazioni sociali e rimanendo come unica relazione quella con
l’uomo si aumenta il
rischio di esposizione alla violenza attraverso il meccanismo perverso
della dipendenza: nello stesso modo come si crea la dipendenza secondaria
dal torturatore in un contesto di totale isolamento sociale (sindrome di
Stoccolma). |
|
à Il
vissuto depressivo |
Tolleranza, svalorizzazione e disistima, isolamento, dipendenza socio-emotiva dal violento sono i potenti fattori di una percezione di impraticabilità di ogni strada di uscita dalla condizione di soggezione alla violenza.
Tutte le volte che si presenta la chiusura della soluzione al livello della vita quotidiana e delle relazioni, si apre la strada della malattia come segnale di un disagio che non si può dire e come richiesta di aiuto e solidarietà sotto la veste di richiesta di cure mediche. |
|
Quando la situazione di violenza é seppellita sotto il malessere del
corpo e della mente, la donna
chiede aiuto al tecnico e la sua domanda nasconde spesso una
realtà di soggezione e
violenza. La richiesta di aiuto é la seguente: “non sono in grado di... , non
sono capace, non mi riconosco più, sono una nullità, sono confusa, non riesco
a fare pi niente, non riesco a fare
più le cose di prima....” la donna dice e cerca
spiegazioni scientifiche
nella malattia, spiegazioni che la
portano lontana da quel contesto angoscioso da cui proviene.
A questa domanda di aiuto la risposta del tecnico può essere duplice:
a.
guardare ai sintomi senza andare
oltre nella ricostruzione del percorso di ingresso nella malattia, e nella
individuazione di specifiche condizioni di vita;
b. al contrario ascoltare i
sintomi come segnali di un percorso di vita dentro cui é molto probabile
trovare i nessi tra disagio, ruolo femminile, dipendenza e violenza.
Nel primo caso la situazione apparirà come una malattia da curare con
gli strumenti classici della medicina e della psichiatria .
Nel secondo caso il tecnico
dovrà addentrarsi nella vita quotidiana della donna,
approfondire le tappe del percorso di formazione del malessere e dei suoi
collegamenti con la vita quotidiana.
Per poter fare ciò, l'operatore sociale e sanitario deve essere preparato a:
1.
riconoscere la situazione di violenza dietro il sintomo, dando attenzione alla
vita quotidiana e al tipo di relazione con il partner.
2.
Essere solidale con la donna dandole senza riserve il ruolo di colei che ha
patito una ingiustizia; alleggerire il senso di vergogna e di colpa che la donna
si porta per aver subito violenza, lavorando sulla decolpevolizzazione e sul
riconoscimento degli atti di violenza subiti.
3.
Cogliere i legami e la dipendenza della donna dall'uomo violento tracciando le
caratteristiche della sua storia di donna connotata da tappe di progressivo
isolamento, rinuncia alla libera espressione di sé, adesione al modo di essere
e pensare del partner o dell'”altro”.
4.
Riformulare un progetto di vita che contenga la realizzazione personale al di
fuori della relazione con l'uomo violento.
Per uscire dalla violenza é
necessario: riconoscere la violenza anche all'interno di rapporti familiari ed
affettivi, non tollerare, e disconnettere i percorsi che portano alla
dipendenza.
La necessità che gli operatori sanitari siano formati per
leggere e decodificare dietro il disagio psichico e la depressione
situazioni di violenza é stata sottolineata in un Meeting
dell'OMS (Organizzazione Mondiale
della Sanità) nel dicembre 1997 a Copenaghen, dove sono state prodotte anche
linee-guida di indirizzo alla pratica clinica e sanitaria
(10).
NOTE
1.
WHO Consultation (1996), Violence Against Women, Women's Health
Development, Family and Reproductive Health (a Cura di), World Health
Organization, Geneva .
2.
Kastrup M.
(1989), “Mental Health of Women an Overview of the European and Extraeuropean
Situations”, in Reale E. (a cura di), Atti del 1¡ Seminario Internazionale
sul Disagio Psichico della Donna, CNR,
Roma.
3.
D'Amico R., (1989), “Dipendenza e disagio psichico femminile”, in
Reale E. (a cura di), Atti del 1¡ Seminario Internazionale sul Disagio
Psichico della Donna, CNR,
Roma.
Reale E. ,(1998), “Dall'avere al dare, dall'autonomia alla dipendenza:
le tappe fondamentali dello sviluppo femminile”, in Chiti E. (a cura di), Educare
ad essere donne ed uomini, Rosemberg & Sellier, Torino.
4.
Reale E., Sardelli V. (1989)
« La santé mentale des femmes liée à la violence », in Actes
du Colloque sur la violence à l'égard des femmes, Ginevra.
5.
Reale E. (1991), “Disagio psichico della donna: principi metodologici e
aspetti dell'intervento di salute mentale”, in Arcidiacono C. (a cura di), Identità,
genere, differenza, F. Angeli, Milano.
6.
Leonardi P. (1994), Curare nella differenza, F. Angeli, Milano.
Romito P. (1992), La depressione dopo il parto, Il Mulino,
Bologna.
Reale E. (1985), “Il posto
della donna nella storia della psichiatria”,
in Devianza ed
Emarginazione, anno IV n. 8, Editiemme, Milano.
Reale E., et al. (1982), Malattia
mentale e ruolo della donna, Il Pensiero Scientifico, Roma.
7.
Arieti S., Bemporad J. (1981), La depressione grave e lieve,
Feltrinelli, Milano.
8.
AA.VV. (1983), L'intervention Féministe, Editions Saint-Martin,
Montréal.
9.
Reale E, et al. (1993), “I fattori di rischio nella patologia psichica
dell'adolescente, risultati di una indagine su un campione di utenti del SSN”,
in Spazi della Mente, anno V, fasc.11.
10.
WHO, Family and Reproductive Health (1998), “Recommendations of the
working group on health services” in European Strategies to Combat Violence
against Women, Copenhagen.