DIPARTIMENTO
PARI OPPORTUNITA'
Atti del gruppo di lavoro "Medicina Donna Salute "
Presentazione di Katia Bellillo
già MINISTRO PER LE PARI OPPORTUNITÀ
Contributi di: Terri Ballard, Giuseppina
Boidi, Adriana Ceci, Laura
Corradi,
Irene Figà Talamanca, Daria
Minucci, Maria Grazia Modena,
Giovanni Muscettola, Nadia Pallotta, Elvira
Reale,
a cura di Elvira Reale
Perchè una salute a misura di
donna?
Elvira Reale, referente
del progetto
Il
volume raccoglie i punti di vista di alcune donne che hanno ruoli di dirigenza
nell'organizzazione sanitaria italiana e che, all'interno della loro pratica, si
sono rese conto della insufficienza e della inadeguatezza degli strumenti
tecnici di cui erano in possesso; strumenti
non sufficientemente adatti a intercettare e a rispondere al bisogno di
salute delle donne. Si sono accorte inoltre del gap esistente tra un progressivo accumulo di evidenze degli ultimi
anni, costituito soprattutto da dati e studi epidemiologici internazionali e la
pratica sanitaria nel nostro paese che procedeva come se quelle evidenze non
avessero alcun peso e valore.
Prescindendo
dalle patologie esclusivamente femminili, che riguardano cioè la cosiddetta
"salute riproduttiva", è
il caso della cardiologia, della psichiatria, della medicina del lavoro, della
gastroenterologia, della oncologia e
di tutte le altre branche, non ancora attraversate da una osservazione coniugata
anche secondo la differenza di genere.
La
spinta all'aggregazione che ha messo in moto il gruppo è venuta quindi da un
sentire comune che è stato quello di far
emergere a 360 gradi, nell'analisi delle patologie per così dire
"miste":
-
la sottovalutazione dei bisogni di salute della donna all'interno
di una ricerca medica che è
centrata sul maschio e sulla sua realtà biologica e sociale, e che impedisce di
leggere le diversità e differenze;
-
la disparità di trattamento presente nel pregiudizio scientifico
che assegna ai processi morbosi, questa volta in omaggio ad un male inteso
principio della differenza sessuale, diversi e spesso ingiustamente contrapposti
percorsi eziopatogenetici: alle donne percorsi di prevalente derivazione
biologistica-ormonale; e agli uomini quelli di prevalente derivazione
socio-ambientale e lavorativa.
Un esempio evidente della presenza del pregiudizio in campo
medico è stato fornito da una ricerca nel settore cardiovascolare, citata da
Maria Grazia Modena. "A questo proposito è interessante lo studio di
Birdwell e coll. i quali sottoponevano a tre gruppi di cardiologi una paziente
sofferente per frequenti episodi di dolore anginoso tipico : in realtà la
paziente era un’attrice che recitava il medesimo copione atteggiandosi a donna
in carriera dinanzi al primo gruppo di cardiologi, o a donna insicura ed
impacciata dinanzi all’altro gruppo; il terzo campione di medici valutava la
sintomatologia in forma scritta, senza cioè essere influenzato dalle
caratteristiche della paziente. Veniva messo in evidenza come le indicazioni ad
approfondire il caso con l’ausilio della coronarografia risultassero
sensibilmente più elevate nel primo gruppo di cardiologi e in chi leggeva
l’intervista, ciò ad indicare come lo stile di presentazione di un dato sia
in grado di influenzare profondamente il medico nella scelta diagnostica".
Il lavoro comune è stato finalizzato alla costruzione un punto di vista di genere qualificato sull'insieme delle patologie che interessano le donne. Esso ha mostrato come in ogni settore la scienza medica percorra le medesime strade erronee: non riesce a coniugare gli obiettivi di salute secondo i due generi, e non sa ancora sviluppare specifiche strategie di ricerca, necessarie per combattere le malattie sia a livello dei presidi terapeutici che della prevenzione primaria, terreno quest'ultimo dove si gioca la sfida più importante per migliorare la qualità della vita delle persone e ridurre il carico di malattia.
La diagnosi della malattia
coronarica nella donna:
un rebus irrisolto per
la medicina
Direttore
della Cattedra e della Divisione di Cardiologia del Policlinico di Modena
In
tutto il mondo occidentale esistono evidenze epidemiologiche che la malattia
cardio-vascolare sia il killer numero
uno per la donna e che superi di gran lunga tutte le cause di morte
(fonti del National Institute of Statistics USA 1995, dati Ansa Europei
1998, non ancora pubblicati; dati italiani ISTAT 1994).
Nel
World Health Report del 1999 si evidenzia come l’Hischaemic
Heart Disease sia la principale causa di morte per le donne in tutti i
paesi, con un tasso di mortalità lievemente superiore a quello maschile; ed è
la prima causa di morte per le donne di età compresa tra i 44 – 59 anni.
La
Medicina è impreparata di fronte a questa evidenza: per anni questa malattia è
stata considerata una malattia maschile collegata al lavoro produttivo e
soprattutto alle "fatiche" delle attività manageriali.
Questa
impreparazione è evidente nelle tecniche attuali che si presentano con livelli
di efficacia soddisfacente rispetto al maschio ma che sono del tutto
insoddisfacenti nel fronteggiare diagnosi e
trattamenti quando riguardano le donne.
La
diagnosi
II dolore toracico rappresenta la manifestazione clinica più frequente
dei pazienti affetti da CI (cardiopatia ischemica), ma nella donna la corretta
valutazione di questo sintomo si presenta assai problematica. Esiste, in
particolare, un tipo di dolore toracico (che definiamo per l’appunto
“tipico”) che tutti i sacri testi di medicina associano ad
un’insufficienza coronarica. Nel sesso maschile, infatti la presenza di
un’angina certa si associa ad un riscontro di coronaropatia superiore
all’80%. Questo dato risulta non realistico nelle pazienti: infatti
quand’anche una paziente ci racconti un dolore “tipico” siamo certi, 4
volte su 10, di incorrere in un errore se diagnostichiamo una coronaropatia.
La medicina mostra così come il concetto di angina “tipica” sia
correttamente più tipica nel maschio che nella femmina, mentre
mancano linee-guida per la
definizione dei sintomi tipici per l'infarto nella donna.
La diagnosi di CI con l'ausilio di tutti gli altri tests diagnostici
(prova da sforzo e test di imaging)
non dà maggiore sicurezza per la valutazione della patologia nella donna: essi
infatti sono creati sul modello maschile e risultano meno efficaci nelle donne.
Il trattamento
Dal
punto di vista del trattamento va
sottolineato che tutti i trials
disponibili sono stati confezionati sul modello maschile; ciò vuol dire che gli
interventi farmacologici (ad esempio i trombolitici) non adeguatamente dosati
rispetto alla superficie corporea della donna (a parità di peso corporeo)
comportano maggiori complicanze emorragiche; ed ancora, che la pratica
interventistica (by-pass e angioplastica coronarica) non testata sui vasi
e le arterie coronariche, più piccoli nelle donne, ha comportato tassi
più elevati di insuccesso terapeutico e maggiore rischio di morte.
I fattori di rischio e la prevenzione
Il
principale fattore di rischio biologico nelle donne è l'ipertensione, ad esso
si accompagnano altri fattori di rischio quali il diabete, l'obesità, l'ipercolesterolemia.
Questi
fattori di rischio non sono oggetto di campagne di prevenzione adeguate
collegate agli stili di vita delle donne. Mentre
negli uomini ad esempio il collegamento tra patologia cardiovascolare,
fattori di rischio biologici e
stress lavorativo è ben studiato e valutato, rendendo fertile il terreno della
prevenzione primaria, questo collegamento per le donne è ignorato del tutto o
non sufficientemente indagato e valutato: venendo così a mancare per le donne
la prospettiva e la possibilità di una prevenzione sul terreno della vita
quotidiana. Nell'ottica della prevenzione primaria, mancano quindi o sono
insufficientemente studiate misure per il
controllo dei fattori di rischio presenti nella vita quotidiana (alimentazione,
movimento, lyfe style).
La
ricerca medica negli ultimi anni si è orientata, diversamente da come opera nel
campo maschile, a individuare come complessivo
responsabile dell'aumento dei fattori di rischio per la patologia
cardiovascolare nella donna una tappa di vita: la menopausa.
L'intervento
per così dire "preventivo" si rivolge in questo modo
al potenziamento chimico-farmacologico del così detto scudo ormonale
quando esso è in fase di naturale decremento, con l' implicazione, non ancora
valutata attentamente, di una forte esposizione della donna ad altri fattori di
rischio.
Citiamo
a questo proposito due studi: come primo, lo storico Nurses’ Health Study, un
titanico studio che ha dimostrato benefici oltremodo significativi: una
riduzione del rischio di morte per tutte le cause nelle pazienti in trattamento
con TOS (terapia ormonale sostitutiva) ma,
in diverse pubblicazioni un
inquietante incremento di cancro al seno. Un secondo studio di proiezione sul
rapporto tra uso della TOS e aspettativa di vita in diverse popolazioni europee
e nordamericane di un noto epidemiologo italiano, Salvatore Panico. Da
quest’analisi, a tipo simulazione a 20 anni, emergerebbe che l’effetto a
lungo termine varia a seconda delle nazioni; in alcune, come Italia, Francia e
Spagna, in cui si ha un trend in ascesa del cancro della mammella, l’utilizzo
della TOS avrebbe un effetto deleterio.
Gli
effetti complessivi
La
medicina nel nostro paese sembra non aver ancora preso coscienza delle evidenze
epidemiologiche e delle evidenze relative ai bias diagnostici e di trattamento che riguardano l'approccio ai
problemi cardiovascolari delle donne.
Le
donne così non sono informate e preparate a leggere i segnali giusti per
individuare il problema, al di là del generico passaggio all'età della
menopausa che viene presentato come "il buco nero", ovvero il
contenitore indifferenziato di tutti i rischi per la salute della donna.
Effetti complessivi sono: la generale sottostima della diagnosi di cardiopatia ischemica nella donna, la diagnosi in stadio più avanzato di malattia rispetto al maschio, la prognosi più severa nelle pazienti rispetto ai maschi di pari età, il maggior tasso di esiti fatali alla prima manifestazione della malattia.
La depressione nella donna:
una palestra del pregiudizio medico
Primario
Psicologo, Responsabile del Centro prevenzione Salute Mentale Donna, ASL Napoli
1
Le statistiche internazionali (World Health Report 2000 Database)
mostrano che le patologie psichiche (depressione maggiore, disturbi d’ansia,
disturbi alimentari) sono prevalenti ed in crescita tra le donne all’interno
della popolazione generale. Le statistiche nazionali (Istituto Superiore della
Sanità) confermano questo trend.
La depressione
in particolare costituisce la principale causa di disabilità tra le donne di età
compresa tra i 15 ed i 44 anni. I tassi di prevalenza per depressione nelle
donne sono da 2 a 3 volte superiori a quelli negli uomini; per i disturbi di
panico le diagnosi che le donne ricevono sono in un rapporto che varia da 3-4:1
rispetto ai maschi.
I tassi di prevalenza per la depressione nelle donne rispetto agli uomini
si evidenziano in crescita a partire dalla prima adolescenza: le adolescenti
femmine incorrono più facilmente nel rischio di patologia depressiva ed inoltre
sono soggette a patologie, come i disturbi alimentari, dove il rapporto
maschi/femmine è di 1:9 (le femmine rappresentano il 90% della totalità dei
casi).
Le
donne sono al primo posto nel consumo di psicofarmaci: in Italia i dati
ISTAT del 1994 parlano di 5,5 milioni di consumatori di psicofarmaci
(tranquillanti ed antidepressivi), tra questi le donne sono 3,7 milioni e gli
uomini 1,7 milioni.
Da
queste evidenze statistiche sotto gli occhi di tutti, non discendono
raccomandazioni, linee guida, studi mirati che orientino ad affrontare quella
che è una e vera e propria emergenza che colpisce le donne nel pieno dell'età
produttiva e riproduttiva.
Questa
disattenzione è evidente in vari ambiti istituzionali nazionali e non:
Ÿ
nell'OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità),
il piano della Agenda 2000 che lancia l’allarme “incremento dei tassi
di depressione nel 2020”, non menziona in alcun modo il livello di
implicazione del genere femminile;
Ÿ
in Italia ed in Europa nel campo della prevenzione e
dell'organizzazione dei Servizi mancano piani e programmi mirati sulle donne e
sui rischi di patologia psichica nelle varie fasce di età.
La
rimozione di un dato così macroscopico è allora attribuibile alla eziologia
speciale di cui questa patologia
nella donna soffre rispetto a quella maschile
Dalla
prima psichiatria di Charcot si è mantenuta fino ad oggi la valutazione della
differenza maschio-femmina affidata soprattutto alle variazioni ormonali del
corpo femminile. La donna è
infatti considerata come presenza di variazione e l’uomo erroneamente come assenza
di variazione. Questa eziologia, centrata quasi esclusivamente sulla
variabilità ormonale, costituisce un pregiudizio grave per la salute della
donna perchè impedisce di imboccare la strada della ricerca dei fattori di
rischio socio-ambientali e della prevenzione primaria.
Come
infatti si può pensare di prevenire
il rischio depressivo nella donna se esso è interno alla sua costituzione ed
alla sua normale fisiologia?
E'
chiaro che non si potrebbe, come è chiaro allora che l'unico trattamento
considerato dai più come risolutivo è quello della riduzione della variabilità,
riduzione a cui Charcot pensava quando diceva "all'utero bisogna guardare e
solo all'utero", o quando sono state effettuate nell'800 tante insensate
isterectomie per sconfiggere il disturbo psichico.
Oggi
questo intervento "risolutivo" è costituito dal trattamento
farmacologico cui le donne vengono sottoposte
con molta facilità, come stanno ad indicare i dati sull'assunzione di
psicofarmaci; in più vi è da aggiungere che il trend attuale prevede come misura preventiva l'adozione del
trattamento farmacologico in età sempre più precoce (infanzia ed adolescenza).
Questa eziologia poco trasparente è la causa per la quale nel "salotto
buono" della medicina e della psichiatria non si tende a sottolineare la
presenza delle donne quando si parla di disturbo psichico, non si parla nella
depressione di una emergenza per la salute delle donne, nè si approntano piani
mirati almeno per cominciare ad affrontare questa emergenza.
Ma
questa eziologia, consolidata nell'opinione di molti, non è ovviamente
scientificamente fondata: dall'analisi del complesso delle ricerche su eziologia
e fattori di rischio, svolta anche dall'OMS, emergono proprio come più deboli o
scarsamente suffragate da evidenze e da dati statistici significativi le ipotesi
genetiche, ormonali e psico-costituzionali (struttura di personalità).
Il
pregiudizio della psichiatria ha sviluppato un costrutto ideologico che è
partito dalla variabilità ormonale della donna, è passato attraverso la
considerazione della esclusività di questa variabilità, ed è giunto alla
determinazione che questa variabilità fisiologica fosse responsabile
nelle donne di molti degli stati psichici patologici. La psichiatria ha
così posto questa variabilità propria della fisiologia e della normalità di
funzionamento del corpo femminile come primo fattore di rischio e come primo
fattore eziologico nella maggiore incidenza della depressione
e di altri disturbi psichici sulla popolazione femminile.
Per correggere la direzione attuale della ricerca e della clinica,
è necessario:
-
sviluppare la prevenzione primaria implementando le ricerche sui fattori
di rischio psicosociali, già testati come singolarmente significativi per lo
sviluppo della depressione (condizione familiare, ruolo materno, doppio lavoro,
mancanza di supporti, riduzione dell'autostima, eventi di vita stressanti e
effetti della violenza sessuale), e interconnettendoli tra loro in uno schema
complesso di circolarità causale.
-
Sviluppare trattamenti della
depressione, non arroccati sull'intervento farmacologico prolungato e
cronicizzante, ma orientati ad un
uso cauto e ragionato degli psico-farmaci, e affidati maggiormente all'analisi
degli eventi stressanti, alla ricerca di soluzioni di alleggerimento delle
condizioni di sovraccarico e di potenziamento delle risorse personali.
-
Sviluppare l'informazione e con essa il controllo diretto delle
donne sui reali fattori di rischio legati alla vita quotidiana, responsabili di
quella che appare come una vera e propria epidemia.
4.1
La psicofarmacologia e le donne
Direttore
della Cattedra di Psichiatria del Dipartimento di Neuroscienze
e
di Scienze Comportamentali dell'Università degli Studi di Napoli “Federico II”
Le
donne "consumano" psicofarmaci più degli uomini ma per converso le
conoscenze sulla risposta differenziale ai trattamenti farmacologici sono
molto limitate.
Innanzi tutto deve essere considerato che gran parte della ricerca
psicofarmacologica clinica è stata ed è condotta prevalentemente nel sesso
maschile per diverse ragioni. Le fluttuazioni ormonali mensili, i rischi
connessi ad impreviste condizioni di gravidanza, il più rapido declino della
funzione gonadica nella donna, il frequente impiego di terapie contracettive in
epoca fertile e di terapie ormonali sostitutive in menopausa hanno contribuito
ad una più limitata conoscenza degli effetti dei farmaci in generale e di
quelli psicoattivi in particolare nel sesso femminile.
Tali
minori conoscenze possono essere particolarmente rilevanti se si considera che
le donne generalmente utilizzano più frequentemente degli uomini le strutture
sanitarie, assumono più psicofarmaci, da soli o in associazione con altri
farmaci, più frequentemente seguono terapie protratte, in particolare per i
disturbi depressivi.
I
fattori che condizionano le differenze tra i due sessi sono di ordine
farmacocinetico e farmacodinamico, purtroppo molto poco studiati:
In
generale, i diversi fattori farmacocinetici determinano un aumento dei livelli
plasmatici di diversi farmaci antiansia, e dei sali di litio. Relativamente agli
antidepressivi in generale ed a quelli serotoninergici in particolare, le
evidenze sono molto limitate.
Ulteriori
fattori da considerare sono gli effetti del ciclo mestruale, della gravidanza e
delle terapie ormonali sulla cinetica dei farmaci.
E’
stato riportato un aumento dei livelli plasmatici degli antidepressivi
triciclici all’ovulazione e una minore tollerabilità degli antidepressivi
serotoninergici in fase premestruale (in coincidenza con il picco dei livelli
circum-mensili della serotonina).
In
gravidanza è noto come i dosaggi dei farmaci antidepressivi, gli stabilizzanti
dell’umore (litio, carbamazepina ed acido valproico) devono essere aumentati
in ragione dell’aumento del metabolismo
e della clearance di tali farmaci.
In
generale, numerose evidenze di letteratura sembrano anche indicare che le donne
rispondono meno favorevolmente ai triciclici e mostrano una più lunga latenza
dell’effetto antidepressivo.
La
larga diffusione dei farmaci antidepressivi serotoninergici sembra invece essere
particolarmente vantaggiosa per le donne, dal momento che molteplici studi
sembrano indicare una migliore risposta antidepressiva delle donne a tali
composti.
Tuttavia,
deve essere considerato che i farmaci antidepressivi serotoninergici determinano
più frequenti reazioni avverse di tipo sessuale, in misura maggiore nella
donna.
Appare pertanto fondamentale acquisire attraverso
studi mirati un maggior approfondimento clinico e di ricerca sulle diverse
classi di psicofarmaci nel sesso femminile.
La
schizofrenia, una patologia sottodiagnosticata nelle donne
Primario
Psichiatra, Dipartimento Salute
Mentale, ASL 3 GENOVA
Nella
schizofrenia, disturbo considerato tra i più gravi ed invalidanti ed oggetto di
numerosissime ricerche, le variabili correlate al sesso non sono
sistematicamente esplorate.
Quindi il profilo di malattia, su cui
sono costruite le ipotesi di ricerca e le indicazioni per le linee guida di
trattamento, è prevalentemente legato alle caratteristiche della popolazione
maschile.
In
molti casi la schizofrenia femminile, presentando condotte adattative più
consone al ruolo tradizionale (ritiro, passività), e più sintomi depressivi di
accompagnamento rischia di essere sottodiagnosticata.
L'importanza
delle variabili legate al genere, pur dimostrata in molti studi,
non trova rappresentatività nè nelle sperimentazioni sui farmaci, nè
negli studi su decorso ed esito, nè nella manualistica e nella letteratura
sull’organizzazione dei servizi.
Riassumiamo
i principali problemi che scaturiscono dalla mancata assunzione di una
prospettiva di genere:
§
Il
fatto che siano poco considerate nella diagnostica le differenze
sintomatologiche maschio-femmina. E’ più frequente che i maschi tendano ad avere sintomi
negativi e deficitari con ritiro sociale, appiattimento affettivo e maggiori
comportamenti antisociali; mentre le donne più facilmente mostrano sintomi
affettivi come ansia, depressione, disforia, esplosività.
Sulla base di queste differenze le donne tendono a ricevere una diagnosi
corretta in un numero minore di casi.
§
Il
fatto che le donne siano poco rappresentate nei trials
clinici o farmacologici impedisce di mettere in evidenza le specificità della
malattia e le differenze nella risposta al trattamento. Le donne sono più soggette ad esclusione negli studi clinici
controllati: siccome i maschi hanno condotte disadattive meno tollerate
dalla società, è più facile che siano ospedalizzati e quindi inseriti negli
studi epidemiologici. Questa esclusione non solo si traduce in un gap
di conoscenze rispetto all’appropriatezza e all’efficacia di un determinato
trattamento ma di fatto determina la messa in ombra o la non considerazione di
quelle variabili psicosociali specifiche per i due sessi, che influenzano la
risposta al trattamento. Si osserva inoltre, per quanto riguarda la
sperimentazione di nuovi farmaci, come essi siano testati prevalentemente sui
maschi e di conseguenza risultino
più efficaci nel combattere i sintomi quali, il ritiro sociale e
l’isolamento, comuni nei maschi ma pressoché assenti nelle donne.
§
Il
fatto che non si tenga conto della diversa risposta ai farmaci, quando
esiste una chiara evidenza di una diversa farmacocinetica nei due sessi (per
differenze di peso, distribuzione del tessuto adiposo, influssi ormonali). Ciò
si ripercuote: a. sui risultati in termini di miglioramento; b. sul rischio di
sviluppare spiacevoli effetti collaterali, molto più comuni nelle donne, come
l’aumento di peso o i disturbi del ciclo mestruale; c. sul rischio che dosi
inappropriate siano più facilmente somministrate alle donne, con la conseguenza
di favorire altri gravi sintomi
collaterali quali le disregolazioni endocrine e le discinesie tardive; d. sulla
mancanza di protocolli di trattamento farmacologico in gravidanza con rischio
elevato di interruzione di gravidanza.
§
Il
fatto che le donne prendano contatto con i servizi specialistici spesso molti
anni dopo l’esordio implica un ritardato accesso al trattamento. Alcune ricerche hanno
messo in rilievo il fatto che le donne, che tendono ad avere un comportamento
adattivo e pur malate mantengono il ruolo di moglie o di madre, vengono in
contatto con i servizi di cura molto più tardi dei pazienti maschi, con forte
rischio di cronicizzazione.
§
Il
fatto della minor offerta di trattamenti mirati alle donne. Le
donne quando sono in carico ai
servizi, tendono ad avere una minor
offerta di risorse, sia in senso quantitativo che qualitativo; vengono meno
inserite nei programmi di riabilitazione e di socializzazione e non si
privilegiano strategie terapeutiche più efficaci come ad esempio le terapie di
gruppo.
§
Il
fatto che le donne schizofreniche siano in un terzo dei casi mogli e madri non
induce gli operatori a predisporre programmi mirati per aiutare le donne nei
compiti familiari. Solo in alcuni paesi nel mondo esistono programmi di supporto
alle donne sofferenti di disturbi psichici e che hanno figli piccoli. I servizi
psichiatrici, infatti, sono organizzati in modo tale da rispondere
prevalentemente ai pazienti maschi, portatori di problemi considerati
impropriamente di maggiore gravità.
.
Sulla
base di quanto riportato, risulta evidente la necessità di identificare e
correggere eventuali disparità e svantaggi
che nascono dall’appartenere ad un sesso e che possono creare,
mantenere o esacerbare l’esposizione a fattori di rischio o influenzare
l’accesso alle risorse.
Fondamentale
è iniziare da subito ad effettuare
studi e ricerche che permettano di comprendere meglio le diverse esigenze di
uomini e donne e sensibilizzare gli operatori sanitari ad un approccio gender
oriented.
Riteniamo
utile quindi prospettare una integrazione delle attuali Linee guida del
trattamento della schizofrenia con le seguenti proposte:
¨
considerare
significativi solamente i risultati delle ricerche che utilizzino campioni
caso-controllo, che reclutino pazienti dei due sessi e che correlino le diverse
variabili al campione diviso per sesso.
¨
Adottare
politiche di prevenzione che promuovano uno specifico addestramento degli
operatori della primary care al
riconoscimento delle differenze di presentazione del disturbo nei due sessi.
¨
Predisporre
protocolli di trattamento farmacologico specifici per sesso.
¨
Predisporre
linee guida per il trattamento integrato, farmacologico, psicologico e
riabilitativo, che incontrino i bisogni di donne schizofreniche. I trattamenti
riabilitativi, in particolare, devono prevedere uguali opportunità per uomini e
donne di inserimento lavorativo e di gestione del tempo libero.
¨
Predisporre
specifici programmi per le donne madri. Deve poter essere previsto uno speciale
supporto alla madre sia sotto forma di aiuto domestico sia sotto forma di
sostegno emotivo al ruolo parentale.
L'abuso chirurgico nelle patologie
dell'utero
Direttore
Servizio di Oncologia Ginecologica e Citodiagnostica dell'Università di Pavia
La
medicina basata sull'evidenza ci obbliga a valutare efficacia ed appropriatezza
degli interventi medici e a ricercare percorsi diagnostici e taerapeutici che
tengano conto della salute come benessere globale della persona e della qualità
della vita. Questo tema nella medicina, ma in particolare nella ginecologia,
deve fare ancora molta strada.
L'isterectomia è un intervento ginecologico molto diffuso, con incidenza
molto diversa tra paese e paese, che alla fine degli anni ottanta andava da
160/100.000 donne in un anno in Norvegia a 550/100.000 negli Stati Uniti.
L'isterectomia
è uno strumento terapeutico usato per "risolvere" situazioni cliniche
molto diverse tra loro. Vi è evidenza clinica
che una parte rilevante di isterectomie non risponda a criteri di
appropriatezza ed efficacia.
In Italia oggi, dove l'incidenza delle isterectomie si aggira intorno
alle 400/100.000 donne, con un trend in aumento in alcune regioni, mancano:
-
le indicazioni assolute e relative rispetto alla necessità
dell'intervento
-
le indicazioni per definire l'appropriatezza dell'intervento
conservativo;
-
le indicazioni per definire le situazioni affrontabili con la sola
terapia medica;
-
l'adeguata attivazione della ricerca per definire le indicazioni
appropriate per ogni situazione clinica.
Alla
base di tante carenze e/o ritardi, miopie e
sottovalutazioni possiamo segnalare tra tutti la presenza di un pregiudizio
della medicina che considera l'utero e spesso l' intero apparato ginecologico,
una volta terminata la funzione riproduttiva come non più utile,
e per ciò stesso non essenziale per l'integrità della persona e per la
sua qualità di vita.
Da
siffatto pregiudizio derivano come effetti:
-
l'aumento dei rischi chirurgici per le donne, non compensati da
reali benefici;
-
l'aumento dei rischi psicologici che riguardano la percezione di
una lesione corporea;
-
l'aumento di esposizione a rischi di patologia, non appieno
valutabili, per altri apparati ed organi relativamente
al cambiamento improvviso di un equilibrio bio-psichico;
-
l'aumento dei costi sanitari relativi ad interventi chirurgici non
indispensabili.
I rischi delle attività lavorative
sono misurati esclusivamente sul lavoratore maschio
Professore
di Igiene Industriale dell'Università di Roma
"Chi
lavora è maschio". La medicina del lavoro da sempre ha preso in
considerazione esclusivamente le caratteristiche bio-psichiche e
socio-economiche del lavoratore maschio. Della donna si parla solo nel periodo
della gravidanza in rapporto esclusivamente ai rischi del nascituro.
Se
le statistiche generali e quindi generiche riferiscono che nell'uomo le malattie
professionali e gli infortuni sono più frequenti, e ciò appare evidente se
confrontato con il tasso di occupazione femminile che è molto più basso di
quello maschile; le statistiche di settori, in cui la presenza delle donne è
maggiore (settore alimentare, alberghiero, della ristorazione, sanitario),
mostrano un capovolgimento delle statistiche tradizionali con un rischio di
malattie professionali e di infortuni per così dire "a vantaggio"
delle donne.
Inoltre
il trend osservato nel periodo 1994-97
su infortuni e malattie professionali ci mostra che tra gli uomini sono in
discesa gli infortuni (9,8%) mentre per le donne sono in aumento (8,4%).
Vi
sono poi specifiche malattie professionali che riguardano le donne ed il loro
tipo di impiego prevalente, che non sono tenute in dovuta considerazione dalla
medicina. Queste patologie professionali più frequenti tra le donne rispetto
agli uomini sono:
-
le dermatosi, causate da irritanti quali acidi, alcali, sali
metallici, solventi organici;
-
i disturbi muscoloscheletrici che comprendono i disturbi agli arti,
(tra cui la sindrome del tunnel carpale dovuta a professioni che provocano la
ipersollecitazione funzionale del polso) al collo, alle
spalle e alla schiena. Essi sono dovuti principalmente a fattori di
rischio biomeccanico quali posture incongrue, prolungata posizione eretta,
sollevamento ripetitivo di pesi con
fatica muscolare localizzata.
Se
scarsa attenzione è data dalla medicina e dall'organizzazione sanitaria alle
malattie professionali delle donne, ancor minore o nessuna attenzione è data
agli eventi patologici connessi con il lavoro domestico. In ambito domestico si
presentano tutti i problemi di salute già citati a cui vanno aggiunti gli
infortuni domestici che ammontano a più di un milione all'anno, un numero tre
volte maggiore degli infortuni sul lavoro, e che colpiscono essenzialmente donne
e bambini[1].
La
medicina non presta sufficiente attenzione neanche al campo delle differenze
uomo - donna che si riferiscono alla diversa risposta biologica ai comuni rischi
lavorativi quali: il lavoro fisico/pesante, il lavoro a turno, la
tossicocinetica (le differenze di assorbimento e ritenzione, metabolismo ed
escrezione di sostanze nocive presenti nell'ambiente di lavoro).
In
conclusione la presenza di bias, legati alla mancata lettura delle differenze di
genere, è molto forte nella medicina del lavoro perchè l'attività lavorativa
è misurata principalmente se non esclusivamente sull'uomo ma anche perchè essa
è scarsamente valutata nella eziologia di molte patologie femminili.
Lo stress patologico è associato esclusivamente al lavoro
produttivo[2]
Uno
dei fattori di rischio psico-sociale, che maggiormente colpisce le donne,
è ampiamente trascurato dalle ricerche e dagli interventi di
prevenzione: si tratta dello stress che le donne subiscono più degli uomini per via del doppio
carico di lavoro (familiare ed extra-familiare).
Le
ricerche sullo stress hanno finora dato poco peso alla variabile di genere.
Ciò è conseguenza di un circolo vizioso: gli studi sullo stress sono
tradizionalmente collegati all'evento considerato più significativo della vita
quotidiana e ritenuto di maggior peso: il lavoro produttivo. La minore presenza
delle donne in quest'area o comunque una presenza di minore peso e qualità
(lavori di minor valore e responsabilità decisionale, lavori in prevalenza
subalterni), ha fatto sì che le donne "naturalmente" non entrassero
sulla scena di questo settore della ricerca, o la loro presenza, se ci
entravano, fosse poco significativa.
Tutto ciò fino a quando gruppi di ricercatori e ricercatrici di vari
paesi non hanno iniziato ad illuminare il circolo vizioso costituito
dall'assioma: stress = lavoro produttivo; lavoro produttivo = lavoratore
maschio.
Per questi autori, l'analisi dello stress non può prescindere
dall'analisi del lavoro familiare che è individuato come principale fattore di
stress per il genere femminile.
Dagli
studi internazionali esaminati che prendono in considerazione la condizione
femminile risulta una sufficiente concordanza nell'affermazione che il lavoro
familiare con le sue specifiche caratteristiche si impone come fattore
principale di stress per il genere femminile, determinando anche una maggiore
vulnerabilità delle donne allo stress che si sviluppa nel
lavoro extra-familiare.
Questa
nuova evidenza di uno stress non solo legato al lavoro produttivo ma anche e
soprattutto, per il genere femminile, legato al lavoro familiare, impone la
revisione e l'ampliamento delle prospettive di ricerca sui fattori eziologici e
di rischio di molte patologie che interessano le donne, tra cui in primis
le patologie cardiovascolari e quelle psichiche.
Efficacia,
sicurezza e qualità dei
farmaci:
un diritto negato alle donne
Responsabile
"Centro per la Farmacovigilanza e la Farmacoeconomia"
Dipartimento
di Farmacologia, Università di Bari
Storicamente
per lo sviluppo di studi clinici di
primo impiego di nuovi farmaci vengono reclutati soggetti adulti di sesso
maschile.
Sfortunatamente
se un farmaco non è espressamente testato nelle donne non esiste modo di
conoscere quali saranno le reali condizioni di efficacia e sicurezza nelle
donne.
Infatti
la efficacia e la sicurezza di una sostanza farmacologicamente attiva si
misurano a partire da parametri di farmacocinetica, farmacometabolismo,
distribuzione, escrezione, specifità tissutale, ecc che sono fortemente
correlati ad alcuni fattori noti tra cui il sesso.
Esistono
recenti evidenze che l’esclusione di donne dalla conduzione di studi clinici
orientati alla differenza di genere agisca ancora in maniera fortemente negativa
nei confronti della popolazione femminile. Due esempi possono essere utilizzati:
1)
le donne sono rimaste escluse dal più ampio studio di popolazione mai
condotto, l’Aspirin-study disegnato
per valutare l’impatto dell’aspirina sulle malattie cardiovascolari;
2)
i farmaci ipocolesterolemizzanti, una volta immessi sul mercato, hanno
dimostrato una efficacia nei confronti della popolazione femminile
drammaticamente inferiore di quella documentata negli studi clinici e nella
popolazione maschile. Ciò a causa del fatto che la popolazione sperimentale non
corrispondeva alle caratteristiche delle donne affette dalla patologia sensibile
a tale trattamento.
Mentre
nel 1998 l’FDA (Food and Drug
Administration) ha finalizzato una nuova Linea guida richiedendo che:
i soggetti inseriti in studi clinici
vengano caratterizzati ogni volta in base al sesso;
vengano possibilmente esaminati
separatamente i dati;
gli studi differenziati per genere
comprendano tutte le fasi dello sviluppo di un nuovo farmaco compresi gli
studi di farmacocinetica, farmacometabolismo e biodisponibilità;
l'UnioneEuropea,
da cui discendono le disposizioni relative alle norme da seguire anche per
l'Italia, non presenta analoghi interventi volti a ridurre questo particolare
tipo di esclusione. In particolare si nota l’assenza di una specifica
normativa o Linea guida diretta alla ‘Differenza di genere nello svolgimento
di sperimentazioni cliniche’ laddove analoghe iniziative sono state prodotte
per ridurre le disparità riferite all’età
(esistenza di due Linee guida per gli studi in età pediatrica e
nell’anziano).
La prevenzione del tumore al polmone
è gender-blind
Terri
Ballard, epidemiologa,
Istituto Superiore di Sanità
Laura Corradi, sociologa
della salute, Università della Calabria
Il
fattore più importante per la prevenzione del tumore del polmone è il
cambiamento delle abitudini al fumo. Se guardiamo alle campagne contro il fumo
di tabacco, promosse nel nostro paese durante l'ultimo ventennio, è facile
notare che esse sostanzialmente sono gender
blind. In altre parole, la prevenzione in Italia non vede (è cieca) la
differenza di genere mentre osserva in maniera sensibile la variabile età.
E'
evidente questa affermazione analizzando
i messaggi rivolti alla prevenzione di:
-
associazioni di ex-fumatori;
-
organizzazioni di mutual aid
quali Alir (Associazione di lotta alla insufficenza respiratoria);
-
le associazioni di volontariato quali la Croce Rossa Italiana (Es.,
“Gruppo giovani non fumatori della Cri”);
-
i gruppi virtuali (Es., “Tanica: tabacco chi é contro”,
“Mani Tese Boycott Marlboro”);
-
le campagne "Pubblicità Progresso" (e simili, come i
francobolli emessi contro il fumo di tabacco);
-
diverse associazioni di medici, pneumologi, psicologi, e sportivi.
Inoltre,
tra i messaggi contenuti nei documenti della Organizzazione Mondiale della Sanità
(documento della Giornata Mondiale senza tabacco e Messaggio del Direttore OMS
"Crescere senza Tabacco") non compare alcunchè riguardo al genere, nè
compaiono le donne come genere, rese invisibili anche dal linguaggio,
rigorosamente declinato al "neutro" maschile.
Vi
è evidenza che:
q
Il fumo è altamente correlato al tumore del polmone;
q
la prevenzione secondaria di questo tumore (esami radiologici e
citologici) non ha dimostrato
benefici in termini di riduzione della mortalità.
q
le statistiche dicono che sia il fumo che la mortalità per tumore
del polmone sono in aumento tra le donne mentre si evidenzia un trend in discesa
del fumo e della mortalità tra gli uomini.
Tutto ciò sta ad indicare che la prevenzione primaria di questo tumore,
cioè la riduzione dell'esposizione al fumo, non è finora stata in grado di
intercettare il soggetto donna. Una
prevenzione primaria del cancro deve tenere conto delle donne e della loro realtà.
Le motivazioni per iniziare a fumare e per non smettere sono diverse per le
donne e per gli uomini, questo indica che programmi standard contro il fumo che
non tengono conto di queste differenze hanno meno efficacia nel prevenire
l'abitudine al fumo fra le donne. E' necessario che nel nostro paese, come negli
altri paesi che l'hanno già adottata con risultati interessanti sul piano
dell'efficacia, vi sia una prevenzione
primaria del cancro orientata al genere.
La prevenzione del cancro al seno è
individual oriented
Il
gruppo di lavoro
Il
carcinoma mammario è un tumore con incidenza pressoché esclusiva tra
le donne (circa il 100%), inoltre questo tumore è la terza causa di
morte tra le donne di tutte le età nei paesi high-income
(World Health Report, 1999).
Il
tumore mammario, essendo una patologia “di genere femminile” gode di
un’ampia attenzione con risposte sanitarie appropriate nella donna in
post-menopausa – a cui si consiglia una mammografia annua. Per le giovani
donne sarebbe opportuno implementare programmi di autopalpazione del seno e
fornire maggiori informazioni sull’uso di termografia ed ecografia - in quanto
tecnologie alternative alla mammografia (che comporta una esposizione a raggi
X).
Purtroppo
la prevenzione del carcinoma mammario è quasi esclusivamente secondaria, ovvero
mirata alla diagnosi precoce e al
trattamento.
La
prevenzione primaria è alquanto lacunosa e si concentra su fattori eziologici
ereditari e su quelle che vengono considerate “scelte personali”. In altri
termini la prevenzione del cancro al seno è fortemente individual-oriented
giacchè è basata soprattutto sulle influenze genetiche e sulle scelte di lifestyle.
Solo
molto recentemente, anche per i tumori femminili è stata studiata
l’esposizione a fattori chimici e fisici nell’ambiente di vita e di lavoro
(per i tumori maschili ciò tende a costituire la regola).
In
generale vi è evidenza, nell’ambito delle patologie tumorali che riguardano
le donne in via esclusiva o meno, di una sottovalutazione dei rischi collegati
all’ambiente, alle attività lavorative sia domestiche che extra-domestiche.
Vi
è inoltre da sottolineare come non sia approfondita fino a tutt'oggi la ricerca
sulle interconnessioni tra trattamenti mirati alla prevenzione di alcune
patologie (protezione ad esempio del rischio cardiovascolare) nella donna e
l'aumento del rischio di carcinoma mammario.
L'incremento della diffusione di HIV
tra la popolazione femminile:
la sottovalutazione di specifici
fattori di rischio
sociologa
della salute, Università della Calabria
Dalle
recenti statistiche mondiali sulla mortalità da HIV emerge che le donne hanno
raggiunto gli uomini nei tassi di
mortalità. Il World Health Report del
1999 (anno di rilevazione:1998) indica
che nella fascia di età 15- 44 anni l’HIV è la principale causa di morte per
donne ed uomini (rilevazione complessiva sui paesi membri del WHO) Nel World
Health Report del 2000 (anno di rilevazione: 1999), le donne hanno superato
gli uomini nella mortalità per causa da HIV.
Questo
notevole incremento tra la
popolazione femminile (principalmente dei paesi Low
Income) indica che vi è stata una sottovalutazione
del rischio di diffusione nella popolazione femminile e soprattutto una
sottovalutazione delle cause di diffusione che vedono oggi
le donne come categoria a più alto
rischio di contagio.
Tre
ordini di fattori sono stati finora scarsamente studiati e messi al centro di
adeguati programmi di prevenzione, che individuano nella donna maggiori rischi
rispetto all'uomo:
-
fattori biologici: la maggiore area di mucosa esposta al contagio, il
maggiore tempo di esposizione della donna al contagio sessuale attraverso il
deposito di sperma in vagina, la maggiore concentrazione di HIV nello sperma più
che nel secreto vaginale.
-
fattori psicologici: vi è una titubanza femminile nella richiesta di un
rapporto protetto ad un partner spesso incurante o resistente a comportamenti
preventivi; inoltre molte ragazze alle prime esperienze cedono alla richiesta di
rapporto sessuale dopo pressioni psicologiche o ricatti affettivi;
-
fattori sociali: la maggiore esposizione delle donne alla violenza
sessuale; l'OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) cita tra le conseguenze
più tipiche e frequenti della violenza sessuale le "malattie sessualmente
trasmesse, incluso l'HIV".[3]
-
fattori culturali: le proibizioni di carattere confessionale rispetto
all’uso del preservativo non solo come contraccettivo ma anche come mezzo di
prevenzione del contagio.
I disturbi cronici gastrointestinali
e la ricerca orientata al genere
Nadia
Pallotta, Gastroenterologa
Dipartimento
di Scienze Cliniche, Policlinico "UmbertoI", Università di Roma
I disturbi cronici gastrointestinali sono molto frequenti
nella popolazione e colpiscono soprattutto le donne. Studi epidemiologici
effettuati in diversi Paesi hanno rilevato un’alta prevalenza (30-60%) di una
storia di violenza sessuale e/o fisica subita nel corso della vita nei pazienti
con disturbi cronici gastrointestinali, che frequentemente non hanno alcuna, o
solo parziale giustificazione in riscontri obiettivabili.
Indipendentemente dalla diagnosi medica, tanto più la
violenza subita è grave tanto più severi sono i sintomi, minore è la risposta
alla terapia e peggiore è la qualità della vita.
I primi dati italiani indicano che la prevalenza dei
maltrattamenti fisici e/o sessuali nei pazienti afferenti ad una struttura
specialistica per disturbi cronici gastrointestinali è pari al 32%, confermando
i dati epidemiologici degli altri Paesi.
La violenza sessuale e/o fisica subita durante l’età
adulta si riferisce esclusivamente al sesso femminile, quella subita durante
l’infanzia è rivolta contro entrambi i sessi. L’analisi della relazione tra
violenza e stato di salute induce a ritenere che la violenza subita, in presenza
di un disturbo cronico, aggravi lo stato di sofferenza con deterioramento dello
stato psicologico e sviluppo di “un alterato comportamento da malattia”, cui
può far seguito un’amplificazione dei sintomi e/o della sofferenza, con
scadimento delle condizioni generali di salute.
Dal punto di vista medico, data la frequente associazione
tra maltrattamenti subiti e disturbi cronici gastrointestinali, sempre più si
rende necessario nella gestione clinico-terapeutica di questi pazienti
considerare ed indagare in maniera corretta gli aspetti psicosociali.
La
comunità medica è quella che insieme con il sistema giudiziario più
frequentemente viene in contatto con le vittime, rappresentando un primo filtro
nel riconoscimento e nella gestione del fenomeno.
A
tutt’oggi però a fronte del ruolo che il medico può esercitare nella
prevenzione e nel trattamento delle conseguenze che la violenza ha sulla salute
c’è una rilevante carenza di informazione.
La violenza sessuale:
principale fattore di rischio in
numerose patologie
Psicologa,
Università di Trieste
La
violenza è un evento frequente nella vita delle donne. Una ricerca italiana ha
mostrato che, in un campione di utenti di diversi servizi socio-sanitari, una
donna su 10 aveva subito violenze fisiche o sessuali nei dodici mesi precedenti
l’inchiesta. Gli autori di queste violenze erano quasi sempre uomini che la
donna conosceva bene: partner (marito, compagno, fidanzato) o ex-partner; padri
e fratelli; compagni di scuola e colleghi di lavoro.
Le
violenze – che si tratti di violenza sessuale nell’infanzia o nell’età
adulta, di maltrattamenti dal partner, di molestie sessuali sul luogo di lavoro
– possono avere conseguenze anche gravi sulla salute delle bambine e delle
donne.
Oltre
le lesioni fisiche che possono rappresentare il risultato immediato della
violenza fisica e sessuale, sono state evidenziate finora effetti sulla salute
che riguardano: diverse forme di sofferenza mentale (depressione, disturbi
d'ansia e attacchi di panico), i disturbi dell'alimentazione (anoressia e
bulimia), le dipendenze (alcool, droghe), i disturbi sessuali e ginecologici, le
malattie sessualmente trasmissibili, i problemi gastrointestinali e
cardiovascolari[4].
Altre
ricerche hanno mostrato che le donne che hanno subito violenza usano più spesso
delle altre i servizi sanitari: medico di base, servizi di psichiatria e per le
tossicodipendenze, pronto soccorso. Si può dire che la violenza rappresenti un
fattore di rischio importante per la salute delle donne, di cui il personale
sanitario dovrebbe tenere conto.
Le
risposte sanitarie rispetto a questo problema sono però carenti: manca
l’informazione dei medici di base e degli specialisti, mancano protocolli di
intervento e linee guida per far emergere il collegamento tra la violenza e
problemi di salute.
E’ necessario quindi sviluppare interventi orientati sull’analisi della violenza come fattore di rischio in molte patologie che si evidenziano nelle donne.
E le statistiche sanitarie in Italia
ci parlano
dello stato di salute delle donne?
Paola
Vinay,
sociologa
Il
nostro gruppo di lavoro ha voluto verificare quali dati biomedici e sanitari
distinti per sesso sono disponibili nel nostro paese. A tal fine ha incontrato
dirigenti e ricercatori del dipartimento programmazione del Ministero della
Salute per valutare insieme a loro la presenza/assenza dei dati che riguardano
le donne nei vari flussi informativi che fanno capo al Ministero. In
sostanza è emerso che in Italia è mancato finora un sistema informativo
strutturato a copertura nazionale in grado di cogliere le differenze tra i sessi
nella salute. Se si escludono i dati sulla mortalità, si registra ancora oggi
una scarsa attenzione alla differenza di genere nella ricerca medica e
nell’analisi dei dati biomedici e sanitari. Le principali fonti informative
sono descritte di seguito.
Ministero
della Salute
La
principale banca dati nazionale che prevede la variabile sesso, è
fornita dalle Schede di Dimissione Ospedaliera (SDO) inviate semestralmente al
Ministero. Questo sistema
di rilevazione riguarda tutti i reparti ospedalieri escluso il Pronto Soccorso.
La scheda di dimissione indica il sesso e l’età della persona dimessa, ma
l’informazione epidemiologica è limitata. Un problema di questa fonte
informativa è l’incompletezza e l’imprecisione dell’informazione: alcune
schede sono complete per certi aspetti e carenti per altri e l’errore è
difficilmente valutabile; si stima che l’informazione relativa al sesso sia
presente mediamente nel 70% dei casi. Se manca l’informazione relativa alla
diagnosi principale la scheda non viene inserita nella banca dati del Ministero.
Per ogni ricovero viene compilata una scheda, quindi è possibile che per lo
stesso utente vengano compilate più schede. Le elaborazioni tratte dalle schede
SDO fanno riferimento ad un universo limitato e fortemente caratterizzato,
l’utenza in ricovero ospedaliero, e quindi non possono fornire alcuna
informazione riferibile alla salute della popolazione nel suo complesso.
I
dati provenienti dalle schede SDO sono riportati in sintesi nel “Compendio
del Servizio Sanitario Nazionale” e nel sito internet
http://www.sanità.it/sistan/sdo.htm;
mancano dati disaggregati per sesso che tuttavia è possibile ricavare
dall’attuale banca dati.
I
dati degli osservatori epidemiologici regionali
non arrivano al Ministero: ogni osservatorio ha proprie linee e settori di
raccolta. I dati epidemiologici sono organizzati dalle Regioni con propri
sistemi informativi (accessibili via internet
attraverso links con il Ministero
Salute). Arrivano al Ministero – Dipartimento Prevenzione dalle Regioni solo
flussi informativi speciali regolati da normativa specifica, come i dati sulle
malattie infettive che sono disaggregati per sesso e per età.
Dati delle Aziende Sanitarie
I
dati delle singole ASL, raccolti in modelli approntati dal Sistema Informativo
Sanitario del Dipartimento Programmazione del Ministero (Modelli di rilevazione delle attività gestionali ed economiche delle
Unità Sanitarie Locali e delle Aziende Ospedaliere) sono riferiti al numero
di prestazioni o di utenti, ma non sono disaggregati per sesso. In particolare i dati dell’assistenza
territoriale specialistica, raccolti dalle ASL con il modello STS.21, indicano
solo il numero di prestazioni per ciascuno specialismo. Un problema anche in
questo caso è la mancata distinzione tra nuove utenze e carico delle utenze.
Mancano sistemi centralizzati cui far affluire da ogni servizio i dati
relativi al numero/anno di primi assistiti, sesso, età, diagnosi e tipo
di trattamento, nonché le informazioni socio-demografiche di base. Inoltre, vi
è una notevole diversità nella raccolta dei dati da presidio a presidio e da
Regione a Regione. I CUP (centri unici di prenotazione), qualora
adeguatamente funzionanti, potrebbero costituire un’altra fonte
informativa su età, sesso e prestazioni richieste, ma il ricorso a questi dati
non è diffuso.
Più in generale nei servizi sanitari
territoriali sono carenti interventi formativi rivolti agli operatori sulla
necessità di raccogliere e analizzare dati disaggregati per sesso ad ogni
livello di indagine.
Istituto
Nazionale di Statistica
L’ISTAT
costituisce un’importante fonte di informazione. Tra l’altro conduce
periodicamente un’indagine con interviste personali sulla percezione di salute
e il ricorso ai servizi sanitari della popolazione. Si tratta di un’indagine
campionaria, l’ultima delle quali è stata condotta nel 1999/2000 su un
campione rappresentativo di 52.300 famiglie per un totale di 140.000 individui.
Dall'indagine emerge che rispetto agli uomini le donne vivono in peggiori
condizioni di salute. In particolare dai dati forniti dall’ISTAT emerge che:
-
una percentuale più elevata di donne che di uomini ha una
percezione negativa del proprio stato di salute; tale percentuale tende ad
aumentare con l’età;
-
una quota maggiore di donne dichiara di soffrire di almeno una
malattia cronica: si registra una prevalenza delle donne per 23 delle 28
patologie considerate;
-
il ricorso a visite mediche generiche, specialistiche e a esami
diagnostici è più frequente per le donne e aumenta con l’età;
-
per la maggior parte delle fasce di età le donne risultano
svantaggiate rispetto agli uomini in tutti i tipi di disabilità considerati, la
loro più frequente disabilità quindi non è attribuibile solo alla maggiore
longevità;
-
il divario tra uomini e donne nella speranza di vita libera da
disabilità si riduce drasticamente con l’età fino ad annullarsi dopo i 75
anni.
Conclusioni
e proposte del gruppo di lavoro
Le evidenze gender based
Le
problematiche che lo studio ha evidenziato sono in sintesi
le seguenti:
·
la carenza di interventi di prevenzione primaria;
·
la mancanza o la carenza di ricerche sui fattori eziologici e di
rischio con un focus sulle condizioni
di vita delle donne: in particolare
sulle condizioni di lavoro (intreccio tra lavoro produttivo e riproduttivo) e
sulle varie forme di violenza sessuale;
·
le pratiche
diagnostiche e terapeutiche sviluppate
sul modello maschile ma applicate anche sulle donne senza tenere conto delle
dovute differenze bio-psicologiche e sociali;
·
l'assenza o l'inadeguata presenza delle donne nei clinical
trials, con il risultato che nuovi farmaci vengono valutati quasi
esclusivamente sui maschi ma poi utilizzati per ambedue i sessi, con conseguenze
ben evidenti nella pratica clinica di una minore efficacia o di maggiori effetti
indesiderati;
·
l'assenza di dati statistici disaggregati per sesso (escludendo
i dati sulla mortalità), che riduce notevolmente la possibilità di
costruire profili di rischio per le
donne e di valutare appieno l'entità
della presenza delle donne nell'utilizzo dei servizi sanitari;
·
il ritardo nell'identificare i fattori di rischio occupazionali o
ambientali per alcune patologie femminili considerate principalmente ad
eziologia ormonale. Esempi presentati includono:
tumori al seno o all'utero, patologie mentali, patologie cardiovascolari;
·
la mancanza di attenzione e di risposte sanitarie adeguate ai
bisogni di salute delle donne nell’organizzazione dei servizi sanitari
·
la mancanza di programmi di formazione medica sui temi della
differenza di genere.
Tutte
le evidenze segnalate rinviano
sostanzialmente a due
inappropriati criteri di
approccio ai problemi di salute delle donne:
A. la mancanza di attenzione alla differenza sessuale
nella complessiva valutazione del bios
(non limitato quindi alla sfera riproduttiva).
La
maggioranza dei contributi ha segnalato, ciascuno per il suo settore, come
l’uomo e la biologia maschile siano stati presi come unico riferimento negli
studi clinici.
Ciò
costituisce evidentemente una procedura metodologica inappropriata che nasconde
la specificità della biologia femminile presente in ogni osservazione clinica,
e che inficia la prassi sanitaria, la validità di molte ricerche, l'utilità di
molte statistiche e che arreca infine un gravissimo danno alla salute della
donna.
B.
La disparità di trattamento
nell’osservazione delle patologie maschili e femminili. Esistono molti dati
sulla emergenza sanitaria "al femminile" (sulla depressione, una vera
epidemia femminile; sulle violenze e le loro conseguenze sulla salute; sulle
morti da HIV; sulle morti da patologie cardiovascolari e da tumore, sulle morti
per infortuni domestici, ecc.), ma essi sono sottovalutati, non vengono presi in
adeguata considerazione dalla struttura sanitaria e dalla ricerca scientifica, e
non vengono trattati come emergenze.
Il
senso di tutto ciò, si è visto, si riferisce ad una percezione del fenomeno
patologico nelle donne che, associato alla eziopatogenesi di tipo
prevalentemente biologico, viene considerato un "evento naturale" e
perciò stesso poco modificabile e poco rispondente ai presidi della prevenzione primaria.
La
disparità di trattamento è quindi ampiamente evidente nel dare scarsa o nulla
rilevanza scientifica, nell'analisi delle condizioni di salute della popolazione
femminile, ai fattori di rischio socio-ambientali, lavorativi e psico-sociali,
fattori determinanti per definire strategie e obiettivi della prevenzione.
contenuti di una
programmazione sanitaria orientata al genere
¨
la definizione delle procedure
per l’inclusione del criterio della differenza di genere nella raccolta e
nella elaborazione dei flussi
informativi centralizzati e periferici;
¨
la elaborazione di Raccomandazioni e Linee-guida su: prevenzione,
osservazione diagnostica, trattamento e riabilitazione in un'ottica di genere;
¨
la individuazione dei settori della ricerca da investire sulle
tematiche della prevenzione e dei fattori di rischio collegati ad alcune
patologie emergenti tra la popolazione femminile (patologie cardiovascolari,
patologie psichiche, ecc.);
¨
la promozione di una Banca Dati per raccogliere le ricerche e le
esperienze dei servizi sanitari con una ottica di genere;
¨
la elaborazione di alcune Raccomandazioni, da rivolgere alla
Comunità Europea, sulle procedure di selezione dei campioni nelle
sperimentazioni dei farmaci (inclusione delle donne nei trials clinici, differenziazione dei risultati
per sesso, indicazioni di genere sugli effetti collaterali correlati ai
prodotti farmaceutici);
¨
la raccolta di raccomandazioni da indirizzare alle Regioni, per lo
sviluppo di criteri rivolti alla promozione di servizi sanitari o di attività
sanitarie gender sensitive;
¨
l'organizzazione di raccomandazioni
per le istituzioni formative (Università, Centri di ricerca) perchè sviluppino
progetti di Woman
Medical Study, come strumento per dare visibilità e incremento a
filoni di ricerca applicata alle donne, e per integrare la formazione con una
prospettiva di genere;
¨
la progettazione di un Ufficio o Commissione
interministeriale (Salute, Affari Sociali, Pari Opportunità) sul modello
degli Stati Uniti (Office on Women Health - OWH), che abbia inizialmente una funzione
culturale e di indirizzo nel promuovere: "comprehensive and culturally appropriate prevention, diagnostic and
treatment services for women at the lifespan, as well as the integration of
culturally sensitive practices in medical education and research.” E che
giunga alla definizione di attività sanitarie orientate
secondo un "women friendly health system”.
[1]
Secondo una stima dell’ISTAT nel corso del 1999
si sarebbero verificati nel nostro paese 3 milioni e 672 mila incidenti
domestici (ISTAT 2001); il 79% di essi riguardano donne e il 76,5% degli
incidenti accaduti a donne adulte (cadute, tagli, ustioni ecc.) sono
capitati durante lo svolgimento dei lavori domestici, le attività di cucina
e l’utilizzo di utensili (coltelli, pentole, forni e fornelli,
elettrodomestici ecc.).
[2] E. Reale e P. Vinay: Gli studi sullo stress ed il lavoro familiare, cap.6 par.1
[3]
: Women's Health Development, Family and Reproductive Health (1996),
Violence Against, in WHO Consultation,
World Health Organization, Geneva
[4] Health Consequences of violence against
women
Ø
Injury (from lacerations to
fractures and internal organs injury)
Ø
Permanent and non permanent
disabilities
Ø
Unwanted pregnancy
Ø
Gynaecological problems:
inflammation of the ovaries or uterus, urethiritis, vaginal infections,
menstrual pain, pelvic pain, irregularities of the menstrual cycle.
Ø
STDs including HIV
Ø
Chronic Headaches and chronic
backaches
Ø
Gastrointestinal problems, irritable
bowel syndrome
Ø
Cardiovascular problems (
Hypertension, broken heart)
Ø
Asthma
Ø
Self-injurious behaviours (smoking,
alcohol abuse, unprotected sex)
Source: Women's Health Development, Family and Reproductive Health
(1996), Violence Against, in WHO
Consultation, World Health Organization, Geneva.