CENTRO PREVENZIONE SALUTE MENTALE DONNA

Responsabile: dr. Elvira Reale

 

Il femminile come modello metodologico e operativo dei servizi:

come fare per evitare il burn-out della "cura degli altri"

 

di

Elvira REALE e Vittoria SARDELLI

 

 

Sulla presenza delle donne nei servizi si fonda oggi un dibattito importante che pone al centro il  significato e gli obiettivi del lavoro di cura .

Questo lavoro, appannaggio delle donne per secoli  deve essere considerato una ricchezza o una limitazione? Qualcosa da rivendicare o da cui fuggire? E' fonte di malessere o di benessere per le donne?

E ancora un altro tema al centro del dibattito: se esistono competenze diverse  nell'uomo e nella donna è giusto battersi per una loro integrazione, lasciando all'uomo la produzione e alla donna la cura? Oppure è giusto promuovere un mescolamento delle competenze a secondo di esigenze e capacità soggettive svincolate dai ruoli,  in un nuovo ambito di parità e di riconoscimenti reciproci?

Per affrontare questi temi, partiremo dalla nostra esperienza pratica  di lavoro con le donne, per poi valutare in una prospettiva più generale i problemi della identità femminile, le funzioni del ruolo, lo spazio della cura nella vita delle donne, fino ad ipotizzare un possibile modo di vivere il rapporto di cura in termini meno svantaggiosi di quelli attuali. 

 

L'identità femminile

E' divisa tra una identità fondata sul ruolo sociale  e quindi eterofondata e una identità soggettiva auto fondata. La prima codificata , legittimata  indica l'insieme di competenze e funzioni che la donna deve svolgere  a partire dalla sua posizione di sesso (la maternità); l'altra non codificata  consiste di un pensare ed un agire sottratto al dominio delle competenze di ruolo e quindi alla maternità come imperativo sociale.

La prima  sancisce la normalità della donna, che ha consenso sociale, l'altra in contraddizione esprime il desiderio femminile, le sue capacità, le sue abilità, tutto ciò che  attraversa la storia del proprio genere, ma non solo, e  che è messa nell'angolo, schiacciata dalla prima. Quando lo schiacciamento è completo sia sul piano fattuale che su quello ideativo (quando cioè la donna fa e pensa come il ruolo prescrive), la donna sta male, entra nel circuito psichiatrico.

 

Le funzioni del ruolo materno.

Al centro delle funzioni materne vi è un concetto quello di cura, un concetto antico e importante che significa  preoccupazione ed occupazione. Con la preoccupazione  si designa  un risvolto soggettivo: l'interesse, l'attenzione, il desiderio; con l'occupazione si designa il lavoro concreto: i compiti che sono molteplici e non frazionabili, l'insieme non separabile di atti concreti rivolti ad uno scopo preciso ma non puntiforme, che in ultima istanza è il benessere degli ospiti, dei malati, degli dei, di sè.

Nell'antichità il concetto di cura (1) non era ovviamente merce di scambio, ma non era  neanche un concetto femminilizzato.

Questo concetto di cura viene trasfuso nel ruolo materno della nostra società ma  privato del significato fortemente positivo di potenziamento di sè  e di pratica sociale, infatti:

a. scompare il concetto di cura di sè, si mantiene solo quello di cura di altri;

b. la cura di altri, separata dalla cura di sè (elemento centrale della cura), non assume più un valore generale, per donne ed uomini, viene relegata al privato e al femminile;

c. nello stesso tempo acquisisce valore sociale tutto ciò che è scambiabile,  che può inserirsi in un mercato, che ha un prezzo e che si trasfonde nella realizzazione di un prodotto materiale;

d. la cura subisce una ulteriore modifica: diviene essere al servizio di qualcuno, perdendo così la relazione forte con  il concetto di autonomia e promozione personale. 

L'attività di cura così trasformata assumerà sempre di più connotazioni negative o di minor valore sociale rispetto all'attività produttiva e di mercato che d'ora in poi le sarà contrapposta. La cura, nella società industriale, diviene sinonimo di attività gratuita, legata al mondo degli affetti e della natura, non contiene l'idea di fatica, sforzo, stanchezza, non è quantificabile come altre attività e non è scambiabile.

La donna quindi svolge per ruolo alcuni compiti e funzioni che le sono assegnati socialmente, ma in questo ruolo manifesta un disagio cui spesso non sa dare  un nome ed un significato.

 

La cura dal mondo familiare al sociale nelle professioni "femminili"

Nel mondo esterno alla famiglia,  i lavori che hanno come oggetto la cura, l'assistenza dei malati, dei disabili, dei ragazzi nella scuola, sono generalmente affidati alle donne, implicitamente considerate portatrici di maggiore competenza in questi ambiti.   Ma questi  lavori seguono la sorte delle attività di cura familiari: sono sottovalutati  e sottopagati.

Per di più queste attività professionali richiedono duplici prestazioni lavorative: una prestazione compatibile con le richieste del mercato e i suoi standars di rendimento; un'altra prestazione  compatibile con modalità di accudimento, disponibilità e dedizione, tipiche della cura familiare. 

Si richiede alla donna che lavora non solo la normale produttività, in genere richiesta ad un uomo, ma anche un qualcosa in più che è un atteggiamento di disponibilità e di attenzione verso l'oggetto delle proprie mansioni, derivato dalla sua naturale propensione a prendersi cura degli altri e dei loro problemi. Tutto ciò costituisce un pesante sovraccarico per la donna, cui non corrisponde certo un adeguato riconoscimento  sociale di valore.

Le persone , infatti, cui si chiede di espletare à cotè di funzioni e compiti definiti anche  atteggiamenti di cura e attenzione generalizzati sono poi quelle più penalizzate e considerate lavoratrici di serie B.

Sottovalutazione, sovraccarico, sono lo scotto delle professioni tipicamente attribuite alle donne.

   

La nostra esperienza di donne che curano donne

 

Il servizio per la salute mentale delle donne

Quando abbiamo iniziato a lavorare sul progetto della creazione di un servizio specifico per le donne, con donne come curanti, non avevamo molte certezze nè strumenti tecnici specifici. Avevamo visto nel manicomio che si trasformava, ad opera del movimento antipsichiatrico, un trattamento che penalizzava le donne e che ritardava il loro processo di liberazione a causa del problema della sessualità.(2)

Eravamo convinte che la psichiatria vecchia e nuova avesse sulle donne una serie di pregiudizi tutti culminanti in una generale affermazione di mancanza di valore e capacità del genere femminile. In effetti la psichiatria riproponeva al suo interno quella pratica discriminatoria contro le donne che era presente (ed è ancora presente) nella società.

L'atteggiamento di svalutazione del disagio femminile, che connotava  la psichiatria   come scienza di parte,   era  presente  nella interpretazione dominante del malessere stesso. Questo era messo in relazione sempre   con vicende di tipo biologico/ormonale che riproponevano quella immagine della donna così "uterina" e priva "di cervello" che la psichiatria, sin dalla sua  prima comparsa come scienza,   aveva  proposto. 

Se pure  la psichiatria aveva fatto sempre riferimento allo specifico femminile, lo aveva ridotto a qualcosa di biologico ed ormonale: i cicli dolorosi, le gravidanze, i parti, per non parlare della menopausa che, contro ogni evidenza statistica, veniva considerata il momento di maggiore impatto della malattia psichica nelle donne.

Così all'inizio del nostro lavoro furono queste le ragioni che ci permisero di individuare la presenza di una "questione femminile"   anche all'interno del trattamento e della cura psichiatrica.

Da un punto di vista soggettivo, non riuscivamo a tollerare l'idea che tutto si riducesse a tappe biologiche, e a caratteri costituzionali quali : la maggiore emotività e fragilità delle donne, la loro vocazione alla dipendenza, la loro oblatività e dedizione nel servizio di cura.

Le donne poi, secondo le statistiche internazionali (3), ammalavano di più degli uomini,  consumavano psicofarmaci tre volte più degli uomini, ed erano quelle più colpite  dalla depressione senza distinzioni particolari tra  classi socioeconomiche diverse.

Allora il nostro interesse fu quello di rendere più chiara e plausibile la relazione tra donna, maternità e disagio psichico, silenziando quello che finora le teorie psichiatriche vecchie e nuove avevano detto  sulle  cause delle malattie femminili, e attuando sul piano operativo una separazione  dal tradizionale contesto  della cura medica.

Costituimmo così nel 1978, in una sola stanza del servizio territoriale di salute mentale della futura unità sanitaria locale n. 39, il Servizio per la salute mentale della donna, cui potevano accedere  tutte le donne, senza distinzione di età, condizione sociale e tipo di patologia, che chiedevano di essere curate nel servizio territoriale.

Questa stanza costituisce lo spazio minimo necessario perchè in autonomia un gruppo di donne-tecnico potesse affrontare il problema del disagio psichico partendo dall'analisi della  storia personale e della vita quotidiana.

Prima di intervenire con la cura che in psichiatria è costituita da: diagnosi, farmaci, ricovero, ma anche colloqui, psicoterapia e assistenza secondo bisogni pre-costituiti, ascoltavamo le donne, sospendendo , per quanto possibile, il nostro giudizio, alla ricerca di una relazione comprensibile tra quel disagio espresso dal sintomo e lo  sviluppo di una storia di vita.

Riportiamo qui in sintesi alcuni elementi  di quelle che furono le nostre "scoperte" sulla genesi della relazione disagio e condizione femminile:

a. la centralità del lavoro di cura nella formazione del disagio. Quando la donna svolge mansioni collegate al suo ruolo di donna e di madre, fa fatica, si stanca ma, non  attribuendo l'idea di lavoro alle mansioni di cura, tende a ritenere patologica le sensazioni di fatica e di stanchezza connesse;   

b. una progettualità femminile  ostacolata o impedita dal contesto attraverso le armi della delegittimazione e svalorizzazione delle capacità e risorse personali; svalutazione funzionale a indirizzare la donna sulla strada della realizzazione di  progetti e desideri altrui anzicchè di progetti personali;

c.   la  percezione  di incapacità che la donna riferisce  come costante dei propri vissuti dentro e anche prima dell'inizio del percorso di malattia. Un percezione di un sè sbagliato, colpevole, messo in crisi dai giudizi negativi del contesto, ed in rapporto con presunte inadempienze che riguardano i compiti di ruolo e in primo luogo la maternità.

Nello spazio del nostro servizio si cominciava a chiarire che vi era una cura di sè  rappresentata da desideri ed interessi personali che la donna a poco a poco , sotto la spinta disincentivante del contesto,  accantonava,   in nome dell'apprendimento di compiti di ruolo che ponevano al primo posto la "cura  degli interessi e dei bisogni altrui ".

Quando la cura di sè  scompariva , scompariva quella che definivamo l'identità personale rappresentativa della donna,  e tutto lo spazio veniva occupato dall'identità di ruolo, che risultava essere soffocante, imprigionante le capacità e le risorse femminili.

Il passaggio, dalla identità personale attraverso l'assunzione della identità di ruolo fino alla malattia diviene inevitabile solo quando   non rimane più alcuno spazio per sè, i propri desideri, interessi, e solo quando la cura degli altri diviene totalizzante. La realizzazione di questo momento, che è ciò che gli altri le chiedono, è anche quello in cui la donna arriva a perdere il rapporto di  certezza con se stessa, e  inizia il percorso  nella malattia  come rinuncia  alla dimensione del per sè. 

La malattia può anche essere interpretata come  ribellione al ruolo, ma ribellione inconsapevole e passiva: la donna vi  arriva per stanchezza quando  rinuncia a lottare per l'affermazione di sè, quando in generale non  vede sbocchi della propria condizione, quando non pensa di avere "chances" e risorse. 

 

Il nodo della cura di sè e della cura degli altri

Cura di sè, cura di altri:  sono i termini in gioco anche nel percorso di ammalamento della donna; quando l'uno è negato a vantaggio dell'altro inizia un percorso di sofferenza percepito come malattia e l'arrivo ad un servizio di psichiatria con  il rischio di una pericolosa trafila di normalizzazione.

Cura di sè e cura di altri: anche il nostro lavoro che si assume l'onere della cura  deve fare i conti con la dimensione del per altri e del per sè; se il prenderci cura delle donne  annulla  la nostra dimensione personale, la nostra progettualità si   profila anche per noi  un notevole rischio  di burn out se non di malattia.

Il problema quindi della cura e delle strade da intraprendere nell'intervento riguardano certamente le donne ma implicano le operatrici nella scelta di una metodologia, che sia per entrambe liberatrice di energie, risorse e messa in campo di progetti di autopromozione ed autonomia.

Curare in psichiatria al di fuori dell'ottica medica e cioè senza lo schermo protettore della lente tecnica tradizionale, comporta  una situazione di presa diretta , di coinvolgimento nelle vicende quotidiane dell'altro soggetto che può determinare un rischio  di annullamento del per sè, un ampliamento dei compiti di cura  con un sovraccarico di problemi altrui.

Un avvicinamento al disagio può comportare un rischio di perdita, soprattutto se quel disagio è esorcizzato sul piano personale con atteggiamenti del tipo:" il mio disagio è diverso, io sono diversa, e aiuto le altre perchè sono più forte, perchè la mia storia è altra".

Se il disagio al contrario viene colto in un'ottica di riconoscimento di una storia comune, che può mettere in campo strumenti e attivare risorse per fronteggiarlo, esso non genera paura, sovraccarico, ansia di fuga dai luoghi di ascolto e di aiuto. 

In definitiva vi è un ascolto, un modo di rivestire il ruolo di tecnici dell'aiuto e della cura, che può essere insieme cura di sè e cura di altri: ciò avviene quando  l' interesse personale, ed in questo caso   l' interesse alla valorizzazione del proprio genere, è fortemente legato all'interesse dell'altra e alle modalità con cui l'altra riconosce  e affronta il suo disagio personale.

Per non diventare sovraccarico con rischio di burn-out per le operatrici, il nodo della cura degli altri va risolto ponendo sullo stesso piano l'esigenza della cura di sè. Il termine di questo processo sarà allora la critica pratica al concetto totalizzante di maternità come pratica esclusiva della "cura degli altri".

Riteniamo che questa critica al concetto  della maternità e  alla pratica della cura possa essere attuata  con maggiore efficacia dalle donne  proprio per la loro posizione di vicinanza con il problema della maternità e della cura.  Inoltre proprio per l'esperienza del malessere, che spesso deriva alla donna dall'esercizio della cura, quando esso supera o valica una determinata  soglia, la donna è maggiormente in grado di segnalare i limiti entro cui va collocata l'attività di cura, affinchè essa possa mantenere caratteri di positività per chi l'esercita e per chi ne deve beneficiare .

 

Il servizio donne  e il suo "metodo di cura"

Nel nostro modello di servizio ciò che ha rappresentato fortemente l'istanza della cura di sè è stata l'attività di ricerca e conoscenza, che abbiamo sempre esercitato, in modo anche formalizzato (4), dandoci in autonomia obiettivi, campi e metodi della ricerca, e nello stesso tempo   partecipando a progetti nazionali di ricerca per inserire in un campo più vasto le nostre tematiche.

La ricerca  ha avuto la peculiarità di unire pratica e teoria sul terreno dell'esperienza clinica concreta.

La necessità di avere strumenti interpretativi più complessivi per il disagio, che non dividessero bisogni delle donne, storie personali e storia del genere femminile, ci ha impegnate in un lavoro continuo in cui si è misurata costantemente la nostra capacità di autonomia, di ragionamento e di soluzioni pratiche con la scienza psichiatrica, con le teorie psicologiche più consuete, con la prassi medica e assistenzialistica che tipicamente dominano il terreno del rapporto di cura tecnico-utente.

Da questo confronto serrato, è emersa come consapevolezza, ai nostri occhi, e agli occhi delle altre donne, la capacità di destrutturare l'impianto biologistico della malattia, mettendo a nudo le fasi di un percorso di vita in cui le donne, pur  ricche di risorse e capacità se ne depauperano mettendole al servizio degli altri, senza alcun guadagno in termini di riconoscimenti sociali.

La pratica clinica che ci ha consentito la ricerca di nuovi obiettivi e metodi si è caratterizzata per:

a. l'ascolto della storia personale, seguendo - nelle varie tappe di vita della donna - la dialettica del rapporto donna-contesto con le sue vicende quotidiane di scontri  tra punti di vista ed interessi contrapposti;

b. il collegamento tra quel sintomo che la donna porta al tecnico,   con la richiesta di espungerlo dalla sua vita, e la storia personale come storia di oppressioni   non riconosciute;

c. il progetto di  recupero e sviluppo di risorse personali volte alla costruzione  di una identità  riconosciuta come rappresentativa del "senso di sè".

Le fasi del percorso clinico hanno avuto come fondamenti teorico- pratici la libertà, l'autonomia e la responsabilità di espressione delle esigenze personali sia delle "curanti" che delle "curate".

Questi principi, se non sono separati nè tra di loro nè in rapporto ai due soggetti della relazione (curato e curante), sono in grado di garantire una giusta "miscela di cura di sè e cura di altri", in modo da tenere lontani i danni e i rischi  conseguenti ad un  ipercarico di responsabilità, ostacolo principale all'esercizio dell'autonomia e della libertà personale.

La nostra ricerca, che si fonda sulla partecipazione della donna alla cura, attraverso il riconoscimento di una limitazione del diritto alla libera espressione della soggettività, non poteva non  riconoscere alla donna stessa, e forse per la prima volta rispetto al suo contesto di vita, capacità di autonomia, e libero  esercizio di  responsabilità.

Se la ricerca e il nostro intervento si fondano su questi presupposti  per la donna utente , a maggior ragione  prevedono gli stessi presupposti per l'agire della  curante, che deve affermare  la sua autonomia  e responsabilità nei confronti di un contesto medico, che impone la cura come ristabilimento di equilibri preesistenti, in ossequio a norme non fondate sulla autonomia dell'individuo.

Lo spazio della cura

L'organizzazione dello spazio di lavoro e cioè del servizio, ha  seguito il senso della attività di cura come ripristino e sviluppo della cura di sè. Lo spazio di cura quindi è stato ed è uno spazio flessibile in cui si svolge tutto quello di cui ciascuna donna, o gruppi di donne, hanno bisogno per ricostruire una propria identità: dai colloqui individuali, ai gruppi di auto-aiuto su specifici problemi, ai gruppi di formazione di specifiche abilità; allo spazio crisi, in cui la donna esprime sotto forma di agitazione corporea il proprio disagio, richiedendo il massimo dell'attenzione e del sostegno. 

Il lavoro di cura  ha così assunto su di sè l'esigenza di offrire alla donne uno spazio terapeutico di libertà in cui poter mettere in discussione una identità percepita come limitante e costrittiva.

Questa esigenza ha necessariamente indotto la scelta di una  modalità di lavoro che avesse  caratteri di libertà, autonomia di gestione, duttilità e flessibilità, capacità di individuare,  progettare e sviluppare attività non predeterminate e predefinite ma modulate  sulla base delle evenienze terapeutiche e dei desideri delle donne.

L' organizzazione del lavoro che ne è risultata ha avuto le seguenti caratteristiche:  un minimo  di forme e ruoli  precostituiti, un massimo di libera espressione ed interazione di capacità, competenze ed esigenze soggettive   sia delle utenti che delle operatrici.

Si è così  verificato  che, nella organizzazione pratica di un servizio,  hanno trovato spazio sia le esigenze di affermazione ed autonomia delle donne operatrici,  sia delle donne utenti. Le donne-utenti  infatti  non più trattate nè come "malate "  (secondo l'ideologia psichiatrica) nè come deboli o incapaci (secondo l'ideologia sessista), hanno avuto la possibilità di vedersi attribuite dalle operatrici le proprie giuste responsabilità, le proprie capacità di autonomia decisionale,  nel momento in cui sono state stimolate a confrontarsi con le ragioni del proprio malessere, a rileggere la propria storia, e a ridefinire  esigenze  e   progetti   alla luce di un interesse personale sottratto all'idea del servizio e della cura per altri.

Le donne-tecnico, alleggerite di un carico di responsabilità improprio, quello appunto di dover fare da "madri" alle altre donne, o ad altri,  hanno potuto investire anche il campo della ricerca, ottenendo da questo gratificazioni e riconoscimenti più a lungo termine.

 

 NOTE

(1)  Per il concetto di cura cfr.: M. Foucault, La cura di sè, Feltrinelli,  Milano 1985

(2)   E. Reale, V.Sardelli, A.Castellano: Malattia mentale e Ruolo della   Donna, Il Pensiero Scientifico, Roma 1982.

(3) E. Reale (a cura di), Atti del 1° Seminario Internazionale sul Disagio Psichico della Donna, CNR, Roma 1989.

(4) Il Servizio Donne di salute mentale della USL 39 di Napoli è stato   Unità Operativa del CNR (Consiglio Nazionale delle Ricerche) all'interno di tre Progetti Finalizzati .