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Responsabile: dr. Elvira Reale
Le violenze come fattori di rischio per la salute mentale *
Elvira Reale
1. Background
Il Centro Prevenzione Salute Mentale della Donna della ASL Napoli 1 collabora dal 1996 con l'Organizzazione Mondiale della Sanità sul tema delle conseguenze della violenza sulla salute mentale delle donne.
Nel dicembre 1997 ha partecipato al meeting dell'OMS di Copenhagen per la stesura di Raccomandazioni agli operatori sanitari per combattere la violenza contro le donne[1].
In altre occasioni aveva partecipato a Seminari internazionali sullo stesso tema (Liegi, 1988; Ginevra, 1989; Amsterdam, 1991[2]).
Dal 1998 insieme ad altre Associazioni di donne, ha promosso in via sperimentale a Napoli, la Rete contro la violenza sessuale. In collaborazione con il Comune di Napoli la Rete ha messo in piedi e gestito l'esperienza del Centro Ascolto anti-violenza.
Nell'ambito dell'attività del Centro ascolto il nostro Servizio di psicologia clinica ha offerto in rete la sua competenza tecnica nel fornire consulenza specialistica e percorsi psicoterapici alle donne che lo richiedevano o che comunque avevano riportato specifici danni psichici.
L'esperienza del Centro in questo campo nasce dall'aver osservato per molti anni il legame che esiste tra problemi psichici (più frequenti nella donna, ed in particolare i problemi legati alla depressione) e condizioni di vita caratterizzate da violenze, maltrattamenti fisici e psicologici.
Il nostro contributo tecnico-scientifico è stato quello da più di 10 anni, di segnalare come la violenza nella sua complessità (dalla violenza fisica a quella psicologica) sia un potente fattore di rischio per la salute mentale della donna.
Ma questo fattore di rischio non è separato da alcuni aspetti della vita della donna: nasce a sua volta dal particolare ruolo che le donne a tutt'oggi svolgono in modo esclusivo o preminente rispetto al maschio, e cioè il lavoro di cura.
Ciò che noi abbiamo individuato nel nostro lavoro clinico e di ricerca[3] è che questo ruolo ed in particolare l'addestramento al lavoro di cura, caratterizzato dall'orientamento e dall'attenzione ai bisogni degli altri, porta con sè anche l'orientamento alla tolleranza della violenza, soprattutto se quest'ultima è agita da coloro con cui la donna sta in una relazione affettiva (marito, partner, figli).
Questa osservazione, derivata dalla pratica clinica, collima perfettamente con i dati statistici nazionali ed internazionali, che individuano come più significativo ed esteso di altri il fenomeno della violenza familiare agita contro le donne da partners ed ex partners. Sono infatti uomini, partners ed ex-partners i violenti ed i maltrattatori più frequenti (in tutte le statistiche la maggioranza dei maltrattamenti denunciati riguarda un partner maschile come autore, ed il luogo ove si manifesta la violenza è la casa).
Queste ricerche individuano anche la difficoltà che le donne hanno a:
- riconoscere la violenza familiare,
- denunciare il partner violento,
- interrompere le relazioni violente.
I Centri anti-violenza indicano abbastanza in modo omogeneo, che la donna prima di attuare un percorso di uscita dalla violenza, passa molti anni in una relazione violenta che la danneggia sul piano fisico e psichico.
Ogni tipo di violenza sia fisica che psicologica, determina un effetto di lesione e di danno sulla salute psichica perchè:
- induce un vissuto di esposizione, inermità, disvalore;
- riduce l'autostima, deteriora l'immagine di sè, induce sensi di incapacità ( il non aver saputo agire, contrapporsi) e di inferiorità rispetto alle altre donne percepite come "rispettate" e indenni da violenza;
- stimola l'isolamento da un contesto "che non deve sapere";
- in definitiva collabora attivamente alla crescita dei disturbi psichici ed in particolare della depressione.
Il più potente alleato nella formazione di un disturbo psichico codificato è il tempo che la donna trascorre all'interno della situazione di violenza: più è lungo il tempo , più il disturbo psichico si espande e si rafforza.
Quanto più la violenza è di breve durata, limitata nel tempo e nello spazio, tanto più gli effetti saranno di tipo traumatico (sindrome post-traumatica da stress) ma risolvibili in breve tempo.
Una violenza di breve durata è quasi sempre la violenza perpetrata da estranei, agita al di fuori della famiglia e del contesto abituale di vita. Questa violenza infatti ha più possibilità di essere riconosciuta immediatamente e di sviluppare intorno alla vittima un contesto di solidarietà. Il riconoscimento della violenza, la solidarietà del contesto, l'assenza di coinvolgimento della donna (mancanza di sensi di colpa) costituiscono validi elementi per una riduzione del danno psichico conseguente al trauma della violenza.
Problemi più gravi da un punto di vista psichico si hanno quando la violenza perdura nel tempo, ovvero quando la violenza non è facilmente e tempestivamente riconosciuta come tale. Il non riconoscimento o la difficoltà al riconoscimento indica generalmente che si tratta di una violenza:
- accaduta all'interno di rapporti familiari, affettivi;
- perpetrata da conoscenti, amici e parenti;
- coinvolgente la donna come corresponsabile ovvero come colei che "l'ha provocata"
In presenza di queste condizioni si verificano i disturbi psichici di maggiore consistenza e durata e soprattutto disturbi psichici che la donna presenta al tecnico senza collegamenti con la violenza subita.
Tra questi disturbi con più frequenza si evidenziano: , i disturbi dell'umore con la distimia e la depressione maggiore; le patologie ansiose con gli attacchi di panico, i disturbi dell'alimentazione nelle adolescenti.
La nostra esperienza clinica del trattamento di casi con pregresso evento di violenza e di abuso mostra che:
l'abuso infantile e la violenza adolescenziale non denunciati, divengono nella donna adulta fattori di rischio per una relazione coniugale violenta e maltrattante: essi cioè aumentano la soglia di tolleranza alla violenza. Essi sono anche responsabili della maggiore severità dei sintomi psichici (depressivi in particolare). Aumenta ancora la soglia di tolleranza alla violenza familiare l'aver avuto una madre a sua volta vittima di un padre maltrattante. In tutti questi casi l'esperienza infantile e quella adolescenziale creano le condizioni per una assuefazione alla violenza stimolando il vissuto di normalità della violenza in famiglia e riducendo le naturali capacità di reazione ed opposizione.
Nella nostra casistica di 1503 casi di donne trattate per disturbi psichici dal 1996 al 2000 si evidenzia come nel 60/70% dei casi vi sia o vi sia stata una condizione protratta di maltrattamento o violenza.
All'interno di questa percentuale si è evidenziato che il maltrattamento familiare è presente:
- al 75% come violenza psicologica (atteggiamento svalutativo e denigratorio continuato del partner maschio) accompagnata da occasionali violenze fisiche;
- al 25% come violenza fisica continuata (botte, minacce, riduzione della liberà di movimento, oppressione economica).
La nostra casistica con alto tasso di incidenza di eventi di violenza nella eziologia dei disturbi psichici e della depressione in particolare è confermata da dati epidemiologici internazionali che riferiscono i seguenti disturbi come conseguenze frequenti della violenza.
Mental Health Consequences of violence against women
- Depression - Suicidality - Fear, feelings of shame & guilt - Anxiety, panic attacks - Low self-esteem |
- Sexual disfunction - Eating problems - Obsessive-compulsive disorder - Post traumatic stress disorder - abuse of medication, alcohol & drugs |
Source: Family and Reproductive Health, Regional Office for Europe (1998) Report of the First Technical meeting "European Strategies to combat Violence against Women", Copenhagen.
In particolare sull'incidenza della violenza nella formazione di disturbi depressivi riportiamo il dato della World Bank che ci sembra più autorevole per rappresentare l' interconnessione tra depressione e violenza sessuale:
Disability-adjusted life years (Daly’s lost) to women age 15 to 44
due to conditions attributable to domestic violence and rape.
Relevant conditions |
Total DALYs lost to women age 15 to 44 (millions) |
Share attributable to domestic violence and rape |
Depression |
10.7 |
50 percent |
Alcohol dependence |
0.9 |
10 percent |
Drug dependence |
1.1 |
10 percent |
Post Traumatic stress disorder |
2.1 |
60 percent |
Suicide |
5.5 |
30 percent |
Dallo schema si vede in particolare come nel 50% dei casi di depressione vi sia una stima di attribuzione causale alla violenza domestica o allo stupro (rape).[4]
Nonostante queste evidenze epidemiologiche, nonostante l'allarme lanciato dall'Oms nel giugno 2000 sull'alta diffusione della violenza contro le donne e sulle conseguenze per la salute, l'istituzione sanitaria internazionale tarda a prendere in dovuta considerazione la violenza nella eziologia di molte malattie.
In particolare la psichiatria nelle sue valutazioni diagnostiche ed eziopatogeniche non prende in considerazione questo fattore; e così nelle sue procedure non viene individuata una eventuale eziologia da violenza sessuale (o altra tipologia di maltrattamento).
A tutt'oggi quindi possiamo individuare due ostacoli al corretto fronteggiamento della violenza contro le donne:
- da un lato le difficoltà di riconoscimento della violenza familiare da parte della donna;
- dall'altro il mancato riconoscimento delle conseguenze della violenza da parte delle istituzioni sanitarie.
Rispetto a questi due ostacoli l'intervento del nostro gruppo di lavoro punta ai seguenti obiettivi:
- definire il processo psicologico che porta la donna alla tolleranza della violenza;
- definire le procedure di un intervento psico-sociale per portare in evidenza le violenze nascoste;
- aiutare la donna a superare le problematiche psichiche correlate alla violenza.
Per raggiungere questi obiettivi il nostro gruppo ha elaborato alcune indicazioni che possono interessare sia le donne stesse che gli operatori del settore coinvolti in programmi di formazione per la prevenzione ed il trattamento dei danni conseguenti alla violenza.
La prima indicazione è di carattere culturale.
Essa riguarda cioè il modo abituale e più diffuso di pensare e valutare la normalità del rapporto uomo-donna.
Questa valutazione culturalmente diffusa e condivisa dalla maggioranza di uomini e donne si riferisce all'uomo (l'essere maschile) come violento per natura, per predisposizione genetica e per converso alle donne come naturalmente deboli, passive. e predisposte ad forzate per converso a percepirsi ed essere percepite come "deboli ed incapaci".
Illuminante è il dato che gli autori delle violenze contro le donne sono uomini e che la violenza riguarda un modo generale di espressione del ruolo maschile: un modo maschile di sentirsi "potenti e capaci" sulle spalle delle donne, Ciò determina quella pericolosa percezione di normalità della violenza domestica che ha come autori gli uomini e come vittime le donne; essa è alla base della scarsa coscienza della rilevanza sociale del fenomeno e dei danni che ne conseguono non solo per le donne ( si pensi alla relazione delle madri con i figli per ampliare immediatamente l'orizzonte del danno).
Le altre indicazioni riguardano sia il processo di formazione dei meccanismi di tolleranza della violenza, sia i comportamenti che i medici, gli psichiatri e gli psicologi devono assumere quando si trovano ad occuparsi di donne a rischio di violenza.
2. Metodi, strumenti di intervento e linee guida al trattamento di donne che non riferiscono situazioni di violenza e che presentano sintomatologia psichica.
In questo percorso di formazione del disagio, il processo di riconoscimento della violenza è complesso, in quanto si tratta essenzialmente di una violenza cronicizzata, chiusa nella relazione affettiva e familiare, non riconducibile ad alcun evento specifico denunciato e di cui la donna sia consapevole.
L’analisi allora dovrà essere a tutto campo e centrata direttamente sulla vita quotidiana della donna e sulle relazioni familiari ed in particolare sulla relazione con il partner.
A. Le conoscenze di base
L'operatore deve essere preparato a compiere un'analisi critica del modello materno che prevede per la donna un "unlimited coping".
Il ruolo materno organizzato intorno al "prendersi cura sempre e comunque degli altri" favorisce i meccanismi della dipendenza e della soggezione ai bisogni degli altri e sfavorisce la presa di coscienza dei bisogni personali ed auto-centrati.
Il ruolo femminile- materno entra così nella formazione del circuito della violenza in due momenti:
a. ante-factum: quando pone la donna nell'atteggiamento di colei che cerca di soddisfare il bisogno altrui (attività di cura), e la presenta come disponibile a soddisfare ogni richiesta;
b. post-factum: quando riduce le capacità di reazione attraverso il dubbio sulle responsabilità personali e l'auto-riflessione sulle colpe derivate da compiti e richieste non soddisfatti o ignorati. Riesce difficile alle donne distanziare l’azione violenta ed il violento, giudicare l’atto violento senza mettere in gioco se stessa e le proprie responsabilità attribuite alla sua specifica attività di cura.
Riconoscere la violenza in queste situazioni di malessere psichico significa quindi per prima cosa essere pronti a criticare il modello abituale del materno.[5]
Alla luce di questa critica la donna non apparirà più come soggetto debole, naturalmente passivo ed assoggettabile alla violenza, ma al contrario come soggetto forte che deve sempre ed in ogni caso: comprendere, sostenere, sopportare e supportare tutto e tutti.
Questa per l'operatore deve costituire una conoscenza di base necessaria che serve a:
- capire come vi sia nelle donne, più che negli uomini la tendenza appresa a tollerare ed a convivere più a lungo con la violenza, andando incontro a fenomeni di de-sensibilizzazione del dolore e/o di cronicizzazione della sofferenza;
- ad avvicinare le donne vittime di violenza, non più come soggetti deboli a cui insegnare la forza, ma come soggetti forti a cui insegnare la debolezza, ovvero le tecniche e le strategie di tutela di se stesse, compresa la fuga dal pericolo e dalla minaccia alla vita ed alla salute.
Solo se l’operatore assume il punto di vista della forza, della resistenza ad oltranza, definita dai dettami del ruolo materno, come conduttore della pratica di soggezione alla violenza, potrà impiegare strumenti e metodi adatti a traghettare la donna fuori dal malessere psichico, prodotto dal meccanismo di non riconoscimento e di non opposizione alla violenza (tolleranza).
B. Le competenze tecniche: la conoscenza del percorso di formazione del disagio psichico a partire dalla violenza
Definite così le conoscenze di base, l’operatore deve strutturare una competenza tecnica specifica che è la capacità di individuare il processo di formazione del disagio psichico che parte da una condizione nascosta di tolleranza della violenza, e le strategie per aiutare la donna sia a superare il sintomo e la patologia sia ad uscire dalla condizione di violenza che sottostà al sintomo.
1° PARTE
Le tappe della prima parte del percorso: la violenza tollerata
1. Il violento rappresenta una parte del progetto di vita della donna (il partner, un amico, un parente
2. La violenza subita dal partner (o altre figure familiari) è facilmente collegabile dalla donna ad una propria carenza nell'assolvimento degli innumerevoli compiti di cura prescritti dal suo ruolo.
3. L'attribuzione di una responsabilità personale nella violenza agita da altri sviluppa nella donna sensi di colpa ("è tutta o in gran parte colpa mia").
4. I sensi di colpa inibiscono e riducono la ribellione sviluppando i meccanismi di tolleranza alla violenza.
5. La tolleranza alla violenza aumenta se vi sono state pregresse condizioni di violenza sia diretta che indiretta (vicende di violenza familiare tra i genitori).
2° PARTE
Le tappe della seconda parte del percorso: la violenza cronicizzata
1. la tolleranza alla violenza determina strategie di fronteggiamento mirate alla convivenza con il violento. Queste strategie prevedono comportamenti orientati a soddisfare le richieste del violento per evitare il ripetersi degli atti violenti interpretati come reazioni.
2. L'attenzione a soddisfare le richieste del violento aumenta le attività di cura, moltiplica gli sforzi e le energie rivolte alla cura degli altri e riduce le energie, i tempi, gli spazi per la cura di sè ovvero per le attività di interesse personale.
3. Conseguenza centrale di questa riduzione di interessi personali è la perdita di relazioni amicali/affettive esterne alla famiglia.
4. La perdita di relazioni può giungere fino all'isolamento.
5. L'isolamento aumenta a sua volta i rischi di esposizione alla violenza; esso produce come effetto secondario la dipendenza emotiva dal violento. La dipendenza significa che la donna concentra nel violento le sue aspettative di benessere: il violento diviene paradossalmente l'unico supporto emotivo, in mancanza di altri supporti.
6. La dipendenza dal violento non è mai, una "dipendenza felice", una dipendenza cioè che rinforza la stima di sè e produce empowerment. Essa al contrario riduce l'autostima e le capacità di autonomia della donna. In questo rapporto infatti la percezione delle capacità del violento si amplia, mentre la percezione delle capacità soggettive si riduce.
Tolleranza, isolamento, dipendenza, percezione di incapacità soggettiva sono co-fattori ma anche indicatori di rischio per la violenza cronicizzata o ripetuta.
3° PARTE
Le tappe della terza parte del percorso: i sintomi e la malattia psichica
1. Tolleranza, isolamento, dipendenza socio-emotiva dal violento, insieme a percezione di incapacità ovvero svalorizzazione e disistima sono i fattori responsabili di una percezione di impotenza ed impraticabilità di ogni strada di uscita dalla condizione di soggezione alla violenza.
2. Tutte le volte che si ha la percezione di non poter accedere ad una soluzione dei problemi personali, si apre la strada della malattia come segnale di un disagio che non si può dire e come richiesta di aiuto sotto la forma di cura medica.
3. La richiesta di aiuto è la seguente: "non sono in grado di... non sono capace, non mi riconosco più, sono una nullità, sono confusa, non riesco a fare più niente, , non riesco a fare più le cose di prima.... " la donna dice e cerca spiegazioni lontane da quel contesto angoscioso da cui proviene la domanda reale.
4. Quando la situazione di violenza è seppellita sotto il malessere del corpo e della mente la donna chiede aiuto al tecnico e la sua domanda può nascondere, e frequentemente la nasconde, una realtà di violenza subita.
La risposta del tecnico può essere duplice:
a. guardare ai sintomi senza andare oltre nella ricostruzione del percorso di ingresso nella malattia, e nella individuazione di specifiche condizioni di vita;
b. al contrario ascoltare i sintomi come segnali di un percorso di vita dentro cui è molto probabile trovare i nessi tra disagio, dipendenza e violenza.
C. Le competenze tecniche: la conoscenza del percorso di uscita dal disagio e dalla violenza
Quando il sintomo psichico si è formato la donna porta il problema ad un tecnico: le risposte del tecnico, come abbiamo visto, diventano cruciali nel senso proprio del termine; esse cioè si collocano ad un bivio: possono cioè parlare di depressione come processo biologico, possono al contrario cercare una eziologia diversa e scoprire la violenza che c'è dietro, aiutando la donna ad invertire il percorso della malattia.
Per uscire dalla violenza è necessario: riconoscere la violenza anche all'interno di rapporti familiari ed affettivi, non tollerare, disconnettere i percorsi che portano alla dipendenza.
Nella donna che ha subito le conseguenze psichiche dalla violenza il percorso di uscita è anch'esso a tappe come a tappe è il percorso di formazione del malessere. Le tappe sono ovviamente di segno inverso a quelle della costruzione del malessere.
L'operatore sociale e sanitario deve essere preparato a:
1. riconoscere la situazione di violenza dietro il sintomo, dando attenzione alla vita quotidiana e al tipo di relazione con il partner.
2. Essere solidale con la donna dandole senza riserve il ruolo di colei che ha patito una ingiustizia; alleggerire il senso di vergogna e di colpa che la donna si porta per aver subito violenza, lavorando sulla decolpevolizzazione e sul riconoscimento degli atti di violenza subiti.
3. Cogliere i legami e la dipendenza della donna dall'uomo violento tracciando le caratteristiche della sua storia di donna connotata da tappe di progressivo isolamento, rinuncia alla libera espressione di sè, adesione al modo di essere e pensare del partner o dell'altro".
4. Riformulare un progetto di vita che contenga la realizzazione personale al di fuori della relazione con l'uomo violento.
Questi quattro orientamenti sono stati organizzati nella pratica clinica in criteri ed in linee di indirizzo più specifiche per quegli operatori che hanno il compito di fare appropriate valutazioni diagnostiche e di trattare le donne con condizioni pregresse di violenza.
Questi criteri, rivolti agli operatori sanitari, indicano i comportamenti appropriati per far emergere la condizione di violenza subita nel procedimento diagnostico, e per guidare la donna fuori da questa condizione nel trattamento clinico.
I CRITERI NEL PROCEDIMENTO DIAGNOSTICO
- Ascoltare i sintomi come segnali di un percorso di vita dentro cui è molto probabile trovare i nessi tra disagio, dipendenza e violenza
- Dare attenzione alla vita quotidiana della donna: i carichi di lavoro, le richieste del contesto, i giudizi , la percezione di sé, gli interessi e gli spazi personali
- Rileggere il quotidiano come sovraccaricante: tutto è sulle spalle della donna e non le consente spazi per coltivare rapporti amicali ed interessi al di fuori del contesto di lavoro familiare ed extra-familiare.
- Riconoscere il collegamento del malessere con la organizzazione della vita quotidiana: dall’isolamento sul lavoro, all’isolamento in famiglia (lasciata sola con tutte le responsabilità).
- Rintracciare le violenze fisiche e psicologiche nella relazione con il partner come strumenti di pressione e di spinta al cambiamento delle modalità personali di esistenza.
- Individuare gli effetti della violenza nello stile di vita isolato e nella percezione deteriorata di se stessa.
- Rappresentare i collegamenti tra malessere e violenza come prodotto di processi la cui responsabilità non è soggettiva: non è addebitabile in primo luogo alla donna, che ne è la vittima.
- Valutare con attenzione l’attribuzione di responsabilità all’uomo: in genere in situazioni di cronicizzazione la donna non è preparata a guardare il partner come negativo se prima non si scioglie il nodo dell’isolamento e della dipendenza. In una prima fase la violenza potrà essere rappresentata come prodotto di processi sociali non addebitabile a persone fisiche ma a ruoli, educazione, modelli sociali.
I CRITERI NEL TRATTAMENTO CLINICO
- Destrutturare ed interrompere la dipendenza dal partner , lavorando sul superamento dell’isolamento e sul recupero di risorse sociali presenti nella vita della donna ma accantonate, e proseguire inserendo nuove risorse esterne di supporto.
- Individuare strategie di alleggerimento del carico di lavoro e della pressione dei compiti di ruolo, condizione materiale primaria per il costituirsi di una situazione di isolamento e dipendenza.
- Strutturare spazi personali di investimento e su questi sperimentare il dissenso con il partner e l’affermazione di sé.
- Formare la donna nell’apprendimento di strategie personali di contrasto all’interno della relazione di coppia: I° regola non sottoporre al giudizio e consenso dell’altro le proprie scelte.
- Elaborare una percezione di sé più realistica, rivedendo e riscoprendo le proprie risorse e capacità ( non perse, ma accantonate), confermandole in relazioni con altre persone più positive e meno critiche, e sperimentandole in attività al di fuori dell’ambito familiare.
- Rivedere un progetto di vita più a lungo temine con la possibilità di pensare e programmare anche la vita senza il partner (superamento della paura di stare sola) da ogni punto di vista (affettivo, relazionale, economico).
- Riconoscere le violenze subite e le condizioni di collusione con la violenza ed il violento (sovraccarico, criticismo, isolamento, mancanza di rete amicale e di spazi personali)
- Liberarsi della percezione di necessità a rimanere con il partner: decidere che fare nella relazione e della relazione.
- Informarsi delle relazioni e delle reti di supporto adatte a sostenere le donne nei percorsi di uscita dalla violenza.
Appendice
il caso di Elisa
Elisa e la normale violenza quotidiana
à Elisa arriva al Centro con una grave depressione |
Elisa ha 39 anni è in cura da un neurologo con antidepressivi ed ansiolitici ad alto dosaggio: non riesce a fare più niente, ha sospeso il lavoro, è bloccata emotivamente, incerta su tutto, ha difficoltà a parlare. Chiede un supporto psicologico ed una psicoterapia. Ha cominciato a star male, quando si è resa conto che non poteva più riuscire a fare fronte alle aspettative contrapposte del marito e della figlia adolescente. L'unico desiderio che ha avuto è stato quello di morire. Precedentemente a questa crisi vi era stata molta stanchezza ma soprattutto incapacità ad esprimere i propri bisogni nella relazione con il marito: "io amo stare con gli altri, lui no; non condivido mai le decisioni di mio marito e continuamente mi sento in colpa". |
à Elisa ed il lavoro esterno |
Elisa lavora ed è sempre stata soddisfatta di quello che fa. Ma da quando ha cominciato a star male il lavoro è diventato pesante, non riesce a fronteggiare i compiti abituali, non riesce a concentrarsi ed a memorizzare anche le cose più semplici. Si è quindi assentata dal lavoro e si vive come fallita ed incapace in tutto: anche il lavoro che era il suo momento di forza, il suo progetto più caro, le è venuto meno. Pensa anche, come le hanno consigliato i medici, di lasciare il lavoro, per migliorare la situazione: questa prospettiva non è però vissuta come liberazione. Sul lavoro Elisa non ha rapporti amicali e di confidenza con i colleghi: non li frequenta al di là del tempo lavorativo, nè approfondisce la conoscenza durante il lavoro: scappa subito a casa, ed è sempre in allarme per quello che succede o può succedere a casa
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à Elisa ed il lavoro familiare |
Elisa ha un figlio di 5 anni ed una figlia adolescente. Il lavoro domestico è tutto sulle sue spalle: non ha aiuti. La situazione si è aggravata con la nascita del secondo figlio: il marito non lo voleva e lei si è sentita in colpa per questa gravidanza . Su questo senso di colpa (aver voluto il figlio) Elisa accetta i ricatti del marito accollandosi tutto il lavoro familiare. Elisa si occupa dei figli e delle loro esigenze e cerca di mediare con il marito di mentalità autoritaria. Elisa teme il marito che per imporre il suo punto di vista ricorre alle mani: quando la prima figlia era piccola, ricorda con terrore che è rimasta coinvolta in un litigio ed è stata portata in ospedale. Allora come in seguito la donna non ha denunciato il marito ma ha sviluppato l’atteggiamento di non contrariarlo per timore delle reazioni anomale. Da quando la figlia è entrata nell'adolescenza le tensioni familiari sono aumentate: Elisa fa sempre la mediazione tra la figlia ed il marito per evitare conseguenze negative (marito impulsivo). La figlia, contrariamente a lei, tiene testa al padre e l'accusa di subire le imposizioni del marito.
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à Elisa prima del matrimonio
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Elisa, dopo un’adolescenza vissuta in difficoltà economiche, in una famiglia dove la madre sottostava ad un marito dispotico, vive finalmente una stagione positiva all’insegna dell’autonomia, e della soddisfazione personale: si iscrive all’università, è contenta, si fa finalmente degli amici, un gruppo, e si fidanza con un ragazzo dinamico di cui è molto innamorata ma che decide di lasciare perchè lui la tradisce. Rimane due anni da sola, si sente bene è inserita in un gruppo, è autonoma, viaggia, poi conosce il marito, l'opposto dell'altro. Nel fidanzamento il futuro marito si mostra remissivo, paziente, accetta che lei continui ad uscire con i suoi amici. Il rapporto con il fidanzato le appare positivo, (improntato alla fedeltà che lei vede come centrale nel rapporto di coppia) anche se lui ha un carattere chiuso. |
à Elisa ed il matrimonio |
Nel matrimonio si evidenzia in tutto il carattere del marito, la parte che non era venuta il luce nel fidanzamento: se in precedenza il marito aveva tollerato la sua autonomia ora la critica, le indirizza epiteti ingiuriosi se desidera stare con gli amici e comincia a divenire violento se lei lo contraddice. Giustifica il marito per il suo carattere ombroso perchè orfano di madre: non ha mai avuto affetti nell'infanzia. Il marito conduce una vita asociale e vuole imporre alla famiglia questo stile. Ma nonostante ciò Elisa accetta il marito ed è legata perchè lui è fedele ed affettivamente affidabile, contrariamente al primo ex fidanzato. Elisa con il matrimonio comincia a tralasciare gli amici, non solo perchè il marito è poco disponibile e violento, ma anche perchè la nascita della prima figlia, e la fragilità fisica della bambina (cresceva poco) le occupano la mente. Il marito stabilisce le regole della vita di coppia attraverso i mugugni ed i musi (non le rivolge la parola per giorni interi) con cui segnala ciò che gli è sgradito. |
à Elisa e la dinamica della violenza
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La dinamica per cui Elisa sottostà alla violenza si può chiarire nel modo seguente: Elisa è messa in discussione dal marito per le sue scelte: gli amici (hai sempre fatto la ….) e le figlie (le hai voluto tu).. I due fatti sembrano corrispondere alla realtà: Elisa riconosce di aver lasciato a casa il fidanzato per stare con gli amici; riconosce di essere stata lei a volere i figli soprattutto il secondo. Elisa assume il punto di vista del marito, di fatto si allontana dagli amici, e si fa carico di tutto il lavoro di cura assumendosi anche il carico economico del mènage familiare (il marito, guadagna di meno e conserva il suo denaro per “eventi eccezionali”) Mentre Elisa rimane così sovraccaricata del lavoro domestico, priva di risorse economiche e di tempo per coltivare i suoi spazi, isolata e priva di supporti, il marito diviene l’unico riferimento: comincia anche la paura di non riuscire a stare da sola e la percezione di essere una persona diversa, inautonoma . Da ora in poi quando Elisa, mostra di resistere alle imposizioni, la minaccerà di lasciarla sola e di andarsene di casa. Il meccanismo di accettare per sensi di colpa, tutto il lavoro sulle sue spalle, pensando di essere in grado di fronteggiare tutto da sola (il to cope materno) produce sovraccarico e riduce energie per gli spazi ed interessi personali. Il sovraccarico comporta stress psico-fisico, percezione di stanchezza, di non reggere più, con conseguenti sensi di incapacità ed inautonomia: “prima mi sentivo in grado di…, ora non so più gestire la mia vita, ho bisogno dell’aiuto di altri per vivere”. Gli altri si sono intanto ridotti solo al marito: il sovraccarico non le lascia spazio per coltivare amicizie; i sensi di colpa sul suo comportamento, alimentati dal marito completano l’opera di isolamento, rendendole difficile una via di uscita.
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* l'articolo è stato pubblicato in francese :"E. Reale : Les violences comme facteurs de risque pour la santé mentale in: Lucienne Gillioz, Rosangela Gramoni, Christiane Margairaz, Colette Fry ( a cura di) ,VOIR ET AGIR - Responsabilité des professionnel-le-s de la santé en matière de violence à l'égard des femmes, Editions Médecine et Hygiène, Collection cahiers médicaux-sociaux; Genève 2003
[1] Reale, E.; Sardelli, V. (1998) The Mental Health Consequences of Violence and the Responses of the Health Sector, in WHO (eds), Family and Reproductive Health, Regional Office for Europe, Report of the first technical meeting " European Strategies to Combat Violence against Women", Copenhagen
[2] Reale, E. et al. La Santè de femmes lieè a la violence, in “Actes du Colloque sur la Violence à l’égard des Femmes”, Département de Justice e Police, Boureau de l’Egalité des Droits entre Homme et Femme, Généve 1989.
Reale, E. et al. Women’s Mental Health: Risk Factors in Female Mental Illness, in “Feminist Diagnosis and Therapy” Actes of International Congress on Mental Health Care for Women, Amsterdam 1991.
[3] Reale, E. et al: ( 1998) Stress e vita quotidiana della donna. Una indagine sperimentale sui rischi di malattia, CNR Progetto Finalizzato " Prevenzione e Fattori di Malattia" CNR, Roma
[4] Heise L. et al. (1994), Violence against Women: The Hidden Health Burden, The International Bank for Reconstruction and Development/ The World Bank, Washington, D.C.
Tipici compiti ed atteggiamenti compresi nel modello materno
Fare per altri come fare per sè.
Confusione tra ciò che spetta a me e ciò che spetta agli altri.
Farsi carico (to cope) di tutto: considerando stanchezza e noia come illegittime |
Solo gli altri sono giudici del mio operato: esso riguarda la soddisfazione dei loro bisogni.
Svalutare le proprie capacità.
Restringere i propri spazi.
Disconoscere le proprie competenze: sono d'intralcio nell'attendere alle esigenze altrui.
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