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L'intervista a Giovanna: vita quotidiana e disagio psichico |
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R - Non avevo niente e avevo tutto: mentre stavo tranquilla in piedi, cadevo; però senza mai perdere coscienza; diciamo svenimenti ma non lo erano perché non c 'era perdita di coscienza. Venivo meno e poi mi prendeva un tremito convulso, e questo tremito mi ha accompagnata anche dopo il trasferimento a Napoli.
R - Non potevo frequentare nessuno. Facevo casa - scuola e scuola - casa. Il pomeriggio non potevo muovermi, neanche per la spesa perché non avevo nessuno a cui lasciare i bambini, e quindi anche se mi sarebbe piaciuto uscire non potevo e mio marito faceva lui la spesa prima di rientrare a casa. Poi la sera preparavo la cena e via a dormire. Però anche qui c'erano dei doveri ed io in quel periodo mio marito non lo sopportavo proprio! Però stavo zitta e passiva.
R - Mi ritenevo responsabile solo per il fatto che non riuscivo a reagire. Io sapevo di poter cambiare la mia vita però avrei dovuto fare qualcosa di grosso: ecco lasciare mio marito e andarmene! Un colpo di testa.
R - No, io non mi sono mai sentita una persona malata. Perché dentro di me sapevo che lo stress cui mi sottoponevo era enorme. E poi per sottrarmi a quella situazione mi tuffavo nel lavoro e questo mi stancava ancora di più.
R - Non c'era più speranza per me. Per cui dovevo tacere se mia suocera gridava, se mia cognata mi martirizzava. Dicevano per esempio che io ero uno "zero", che come insegnante non valevo niente. Tutta la famiglia di mio marito non mi valorizzava: io per loro non valevo niente.
R - Si sono venuta per dei malesseri fisici. Avevo una stanchezza totale, dovevo stare solo sul letto, se mi alzavo mi venivano dei capogiri, mi sentivo proprio male. Eppure sul piano emotivo, avevo ritrovato la serenità venendo a Napoli, per cui non riuscivo più a spiegarmi questi malesseri.
R - Prima di venire qui avevo un grande spirito materno verso tutto e tutti. Poi discutendo qui é venuta fuori la negatività di quello che io ritenevo una mia caratteristica positiva. Venuta a Napoli avevo sulle spalle mio marito che intanto faceva il pendolare, ma che dopo la trombosi aveva bisogno di cure, mio padre che era anziano e dispotico, perché eravamo andati a stare in casa con lui, i miei figli ed io facevo la mamma a tutti quanti. La mamma anche delle sorelle e dei fratelli, dei ragazzini a scuola e la mamma delle stesse mamme dei ragazzini.
.......c'erano delle cose sbagliate in mio padre, c'erano delle cose sbagliate in mio marito, i nostri rapporti erano per me soffocanti. Io con loro avevo soffocato delle parti di me. Ecco questo senso di protezione e di amore materno che avevo nei loro confronti, e che loro mi richiedevano, faceva stare male me e non aiutava loro che diventavano sempre più egoisti, più prepotenti nei miei confronti. Addirittura si verificavano quasi delle scene di gelosie di mio padre verso mio marito, tensioni tra di loro, ed io stavo sempre in mezzo a cercare di smussare e di attutire gli attriti.
R - Mio marito mi ha sempre dato una mano, non posso accusarlo di questo, ma una mano sbagliata, anche adesso mi ci arrabbio, ad esempio quando torno dalla scuola e lui dice: "Ti ho messo la lavatrice in funzione" ecco questo "ti ho messo" mi da fastidio. Invece prima lo ringraziavo ed ero anche riconoscente. Che significa infatti "mi hai messo la lavatrice in funzione"? La casa é di tutti e ognuno deve fare delle cose. Queste cose io le ho sempre sapute solo che dovevo essere buona, e mi sobbarcavo io tutti i compiti senza protestare o senza pretendere dagli altri la loro giusta parte. Cercavo di essere perfetta, di essere buona, onesta, volevo essere così ma non sempre ci riuscivo. Era una lotta con me stessa per essere più buona, più disponibile.
Il modello di vita e le aspettative
R - No, un modello di donna no, io volevo solo con tutte le mie forze vivere quello che avevo vissuto fino a poco prima del matrimonio. Ero cioé una ragazza spensierata, con amicizie, rapporti sociali abbastanza scorrevoli, cose che con il matrimonio, paft!, sono cambiate, come se si fosse alzata una improvvisa barriera. Volevo solo essere me stessa con quelle cose che mi mancavano in quel periodo. Ecco io non ritrovavo una parte di me stessa: una ragazza spensierata, amicona, che usciva, andava al cinema, teatro, magari qualche volta a sciare; questo lo avevo sempre fatto e non pensavo che con il matrimonio tutto ciò si sarebbe potuto interrompere. .....oggi mi sento libera frequentare le mie amicizie, di ricevere a casa i miei amici. Poi oggi mi sono liberata anche da un'altra cosa: prima ero pazza per la pulizia, volevo a tutti costi far brillare la casa. , poi a mano a mano mi ritrovo ora che dico: "Basta! Quello che riesco a fare, faccio", poi è successo anche che ho dato un ruolo maggiore agli altri, ho distribuito i compiti che facevo solo io.
R - E sono cambiata anche come mamma soprattutto nei confronti di mia figlia. La dottoressa ha curato la bambina attraverso di me, rivedendo con me il mio ruolo di madre D - Qual' era il problema di sua figlia? Il problema di mia figlia (9 anni) era che perdeva le feci continuamente e poi quando mi avvicinavo si parava per paura delle botte. Non é che io gliele dessi sempre, solo ogni tanto qualche sculaccione, ma lei mi temeva, forse perché il viso che facevo era molto severo. La dottoressa mi ha fatto vedere molte cose di questo rapporto che non funzionavano. Io ero legatissima a questa figlia: se i due maschi si allontanavano, a me non importava, se rimaneva mia figlia con me; se andava via lei mi sentivo svuotata. Pur volendola sempre con me, per ogni cosa me la prendevo con lei, ogni cosa la pretendevo da lei, non l'ho mai reputata come una bambina della sua età, ma sempre più grande, molto responsabile, molto precoce, matura. Con la dottoressa ho visto quanto c'era di sbagliato nel mio atteggiamento, e man mano che cambiavo diminuiva la reazione di mia figlia. Adesso e quasi del tutto scomparsa la perdita di feci , solo raramente capita qualche volta. D - E' cambiato allora il suo rapporto con la bambina? R - Adesso suddivido i compiti tra tutti e tre i bambini, non pretendo che sia lei a fare i letti dei fratelli. Prima c'era stato anche il fatto che il ragazzo più grande (13 anni) da piccolo é stato molto malato e quindi lo abbiamo iperprotetto a svantaggio degli altri e soprattutto della femmina. Oggi mia figlia non si fa più imporre le cose e se sono io che qualche volte derogo e le chiedo di fare dei servizi al posto dei maschi é lei che dice: "No mamma, non é giusto che lo faccio", ed io questa volta non mi arrabbio e lascio perdere, lascio che se la vedano tra loro.
I sensi di colpa ed il rapporto con mia sorella
R - Quando non stavo bene attribuivo il mio malessere alla mia debolezza ed incapacità. Avevo poi sensi di colpa verso mia madre, perchè è caduta malata dopo la mia nascita; anzi sapeva che se avesse fatto un altro figlio sarebbe stata danneggiata, ma soprattutto avevo sensi di colpa verso mia sorella. Quando mia madre si ammalò io avevo quindici mesi e lei sette anni, era l'unica donna in casa, mio padre lavorava all'esattoria comunale, e a lei é toccato occuparsi di mia madre. Faceva tutto lei, non é andata a scuola, se lei mancava anche per cinque minuti mia madre stava male. In casa si sono avute donne di servizio ma non andavano d'accordo con mia madre, poi rubavano in casa per cui poi non è più venuto nessuno e si é occupata di tutto mia sorella. Gli altri l'hanno sempre vista come la servetta di casa, e questo mi faceva soffrire molto. Poi il senso di colpa l'hanno ingigantito gli altri: " E si capisce tu sei la figlia, quella che ha studiato!" invece l'altra agli occhi degli altri non era la figlia perché stava in casa, analfabeta, vicino a mia madre. Poi dicevano: "Certo tu sei libera, puoi uscire, andare di qua e di là e tua sorella invece sta sempre in casa". Mi hanno massacrata con questi discorsi con questi confronti, e ancora oggi li fanno. Mia sorella , un anno fa, dopo essersi sposata tardi, ha perso il marito, e la gente: "Sempre la sfortuna perseguita questa poveretta". E che c'é voluto di lavoro con la dottoressa per liberarmi di questo senso di colpa.
Il cambiamento del punto di vista......
R. Io non avevo colpa di niente, avevo quindici mesi, e poi quando sono cresciuta ho trovato questa situazione già bell'e fatta. Mia madre e mia sorella avevano tra loro un grosso legame di complicità, c'era una unione in cui non facevano entrare gli altri. Loro decisero che io dovevo studiare e andare a lavorare (facevo le due cose contemporaneamente). Non certo, o non solo per avvantaggiare me ma per mettere da parte i soldi. Quando mi ammalai e mi ritirai da scuola ricamavo e vendevo i ricami, mia sorella diceva: "Tu non devi fare i servizi in casa, a questi ci penso io, - e infatti non mi permetteva di toccare neanche uno spillo in casa - tu devi ricamare, ricamando guadagni, guadagnando tu, papà può costruire una casa e così un domani io avrò la casa mia". La gente vedeva invece solo il fatto che io uscivo di casa. Ma io uscivo solo per guadagnare. Prima uscivo per imparare il ricamo, poi per consegnarlo. Mia madre e mia sorella mi impedivano letteralmente di occuparmi della casa perché sottraevo il tempo al ricamo. Poi dopo ho voluto riprendere a studiare e mi sono diplomata, ma ho dovuto sempre lavorare e quindi facevo il doposcuola a casa, lezioni private, e lezioni presso una scuola privata e in più anche il ricamo. Poi ciò che guadagnavo lo amministrava mia sorella cui consegnavo tutto e loro mi davano quello di cui avevo bisogno (sempre molto poco). Certo loro avevano delle premure per me: avevo la fetta di carne, la frutta, le cose migliori, mentre loro preferivano fare economie perché dovevo costruire la casa, io invece che dovevo tirare avanti il carro ero trattata bene. La dottoressa mi ha fatto vedere la situazione: prima io pensavo di essere una privilegiata, vedevo le cose con gli occhi della gente dopo ho capito, ri-analizzando la situazione, che loro avevano un progetto su di me: quello di farmi lavorare. In effetti io ero tenuta sempre all'oscuro dei loro piani, la gestione dei soldi non l'avevo io, in effetti mia sorella godeva maggiormente della fiducia di mia madre: era una sua complice. |