CNR
SEMINARIO 1- 3 giugno 1988
CONCLUSIONI
E PROPOSTE
Elvira
Reale
Questo Seminario ha segnato il primo tentativo in Italia per organizzare un fronte unitario della ricerca e dell'intervento sul disagio che includa il problema della differenza sessuale. L'esigenza di una iniziativa del genere era fortemente sentita da tutte quelle donne che per la propria professione di psichiatre, psicologhe, sociologhe, infermiere, operatrici sociali si sono trovate a contatto con l'emergere del problema della diversità (di espressione, condizione, ecc.) tra uomini e donne nell'approccio alla salute mentale. Vi è sempre stato un disagio profondo in queste donne rappresentato dal dover svolgere un lavoro nel quale si sentivano particolarmente coinvolte e dal dover usare strumenti estranei alla sensibilità ed alla esperienza femminile. La psichiatria infatti ha costituito per molti (uomini e donne) una prigione della sofferenza.
In
Italia - soprattutto da parte di uomini - si è cercato negli ultimi vent'anni
di scardinare molti degli assunti teorici e delle pratiche di questa scienza.
Tutti abbiamo assistito alla crisi di queste idee: la legge N. 180 è oggi
criticata da più parti. Questa legge aveva
affermato coraggiosamente che la sofferenza è altra cosa dalla malattia
e che essa non va affrontata con strumenti
coercitivi e trattamenti di restrizione della libertà personale. Per spiegare
la sofferenza racchiusa nelle categorie diagnostiche della psichiatria
tradizionale si è ricorso finora alle differenze sociali
ed economiche tra gli individui, vedendo in questo tipo di oppressione la
causa principale del disagio. Finora
però nel discorso dell'alternativa alla psichiatria non si è inserito il tema
di un'altra differenza tra gli
individui, quella appunto riguardante il sesso che è poi la differenza che
colpisce maggiormente le donne: in
quanto su di essa principalmente si costruiscono le ragioni sociali e culturali
della subordinazione e dell'oppressione per il genere femminile.
Non
avendo colto la centralità di questa ulteriore differenza tra gli individui la
psichiatria alternativa in Italia
si è preclusa la possibilità di una migliore comprensione del disagio e di una
più efficace strategia di
intervento su di esso. Questa
insufficienza della critica e della prassi alternativa alla psichiatria è
risaltata evidente soprattutto alle donne, sia tecnici che utenti, che si
sentivano escluse da un approccio che negava loro il diritto
alla differenza e che soprattutto rendeva inapparenti i motivi più
specifici della propria oppressione e quindi
anche del proprio disagio.
Il
Seminario di oggi, che introduce con forza e ampiezza il discorso della
differenza sessuale nella teoria e
nella gestione della salute mentale, dà un contributo notevole al sovvertimento
di pratiche terapeutiche ulteriormente afflittive per la condizione di vita
delle donne.
Si
può cogliere, attraverso tanti contributi fondati sull'esperienza al femminile,
l'inconsistenza della teoria
psichiatrica. Che cosa è la
malattia mentale? Un processo morboso? Una patologia della mente/corpo da curare
con farmaci? 0 non piuttosto un
percorso sociale e familiare caratterizzato dall'esperienza della subordinazione
che attraversa anche la mente ed il corpo?
Questa
idea della malattia, come costruzione di una situazione alla fine di un cammino
sociale nella oppressione, è nata nella riflessione che le donne hanno fatto
sulla somiglianza che esiste tra aspetti del
ruolo femminile e caratteri della depressione e disturbi psichici.
L'idea del percorso sociale porta con sé anche il riferimento alla
storia della vita quotidiana, storia in cui
la donna ha avuto da sempre maggiore esperienza e competenza. Così è
stato ribaltato dalle donne il punto
di vista della psichiatria: non più al centro della riflessione scientifica la
malattia, la catalogazione ed inquadramento nosografico dei sintomi, ma la vita
quotidiana ed i rapporti di subordinazione.
Nei
rapporti di subordinazione a causa del sesso le donne devono ricercare i luoghi
in cui si addensano maggiormente le ragioni e le esperienze di sofferenza per il
proprio genere. Ciò anche in contrasto con ogni ideologia emancipatoria che
pretende sia superata oggi ogni differenza di potere tra i sessi.
Una
comprensione della sofferenza femminile non può essere affidata a tecniche e
teorie della persona e del disagio che hanno come loro assunto, la neutralità e
la negazione di una condizione di oppressione, e come loro obiettivo, il
silenziamento e l'occultamento delle disparità. Tra queste teorie il discorso
psichiatrico con il suo modello di intervento essenzialmente medico e biologico
occupa sul piano scientifico e sociale il maggiore spazio nella cura e gestione
della malattia mentale e del disagio.
Ciò
dipende da vari elementi che occorre sintetizzare:
a. la psichiatria è la scienza che storicamente si forma per la
gestione di una particolare forma di devianza che nasce nel sociale, ma che
trova nell'esperienza dell'internamento asilare una sua identità come studio
dell'alienazione prima e della malattia dopo.
b. E’ dalla sua storia, dalle sue articolazioni, dal
susseguirsi dei suoi interpreti, dalla crescita e modifiche successive delle sue
ipotesi che nascono come filiazioni teorie ed interventi apparentemente
dissonanti. Essa costituisce il referente delle teorie così dette
psicodinamiche, fondandone la possibilità di esistenza. E’ infatti il
rapporto col corpo biologico che la psichiatria positivistica esprime, che
rimane fondante anche per le teorie psicologiche e dinamiche; è ancora il
rapporto con la scienza medica e
fisica che la psichiatria riesce a saldare, che dà legittimità anche alle
teorie e alle prassi psicologiche.
c. La psichiatria può vantare con il suo metodo classificatorio
ed i suoi interventi più strettamente medico-farmacologici una generalità che
altri metodi non possiedono: la psichiatria può intervenire in ogni
circostanza, su qualsiasi persona, anche contro la volontà dell'utente, nei
circuiti pubblici come in quelli privati; è l'unica deputata a gestire le
situazioni di crisi ed è l'unica che garantisce, attraverso il ricorso al
farmaco, o al trattamento "fisico", l'immediato silenziamento della
crisi.
d. La psichiatria d'altra parte può ricomprendere più
interventi di diverso tipo: da quello fisico-farmacologico, che più
strettamente le compete per tradizione, a quello psicologico, a quello
psicoterapico, a quello sociale. Ognuno di questi interventi si esplica sempre
all'ombra dell'intervento medico-farmacologico: come supporto di quello o come
sopportato da quello.
e.
Il suo strumento principale, quella diagnostico, costituisce anche lo strumento
centrale (quindi fondante) di ogni altro tipo di intervento.
Per
queste considerazioni riteniamo indispensabile rivolgere la critica soprattutto
alla psichiatria nel cui alveo si possono ricomprendere anche altre tecniche e
teorie di intervento sul disagio. Vi è anche una ragione in più che riguarda
lo stretto legame tra psichiatria e la donna. Questo legame discende
dall'intreccio tra la funzione sociale della psichiatria come funzione di
contenimento delle deroghe private e familiari e la funzione sociale della donna
come colei che occupa il maggior spazio sulla scena dei rapporti naturali,
affettivi, familiari (come conseguenza degli adempimenti del ruolo materno).
Se la psichiatria ha finora frammentato la sofferenza delle
donne in mille rivoli di patologie e sintomi diversi, se ne ha nascosto il
significato unitario mostrando i profili di situazioni individuali ed isolate;
questo Seminario ha avuto l'obiettivo, che riteniamo per altro conseguito, di
dare unità e ricomporre il quadro del disagio femminile restituendo ad esso le
sue ragioni specifiche radicate nella subordinazione sociale e nella
discriminazione sessuale.
Se
la psichiatria ha usato metodi di intervento capaci
di nascondere e silenziare le ragioni della sofferenza femminile, questo
Seminario ha portato in primo piano il problema della ricerca e della creazione
di nuovi approcci e metodologie di intervento nori oppressivi e non limitanti la
presa di coscienza individuale.
Passiamo
ora ad una sintesi dei temi dibattuti aggregandoli in due filoni principali: la
ricerca sociologica e la ricerca clinica. Intendiamo riferirci, con queste
definizioni (ovviamente parziali e limitate come ogni classificazione), al
duplice impegno delle donne che sono intervenute al Seminario: l'impegno svolto
direttamente nella terapia e nel sostegno delle donne, all'interno delle
istituzioni deputate alla cura o all'interno di circuiti privati, e l'impegno
delle donne nel campo delle analisi e delle riflessioni generali sul rapporto
tra ruolo femminile e sofferenza, all'interno delle istituzioni ufficiali della
ricerca (Università, ecc.).
Un
chiarimento necessario per la comprensione del dibattito riguarda la distinzione
tra i concetti di sofferenza e malattia. Per sofferenza si è inteso il disagio
della donna legato alla sua condizione specifica di oppressione; per malattia il
disagio cui è stato negato il riconoscimento delle sue ragioni. La malattia è
intesa come perdita della consapevolezza di vivere in condizioni disagiate e
acquisizione di un malessere individuale attribuito a disfunzionalità
biologiche (del corpo e della mente).
Quando
si parla di malattia si intende sempre una sofferenza medicalizzata e
biologizzata; quando si parla di sofferenza femminile si intende la condizione
di subalternità sociale che per ruolo appartiene ad ogn donna.
I.
La ricerca di tipo sociologico
Primo
problema che è stato sottolineato riguarda la presenza massiccia delle donne
nei circuiti psichiatrici. E’ stato definito come le donne siano le maggiori
consumatrici di psicofarmaci ed in particolare di tranquillanti minori (S.
Dunbar, Gran Bretagna) e come affollino maggiormente i circuiti dell'assistenza
medica e psichiatrica.
I
dati presentati dall'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS, M. Kastrup)
definiscono un rischio di ammalamento per le donne da due a tre volte maggiore
di quello degli uomini. Questo dato sembra di grande significato perché afferma
l'esistenza di quel rapporto privilegiato - di cui si è già parlato - tra
donne e psichiatria, tra condizioni di vita femminile e canalizzazione della
sofferenza nella malattia.
Altro
dato interessante è che l'organizzazione dei servizi di salute mentale,
prevalentemente usati da donne, non soddisfano le loro esigenze di benessere. Ciò
è messo in relazione al fatto che sono prevalentemente maschi i professionisti
che occupano tali spazi tecnici: essi quindi tendono a dominare con i loro
modelli di salute mentale fondati in genere sulla tradizionale psichiatria ed
impediscono inoltre con la loro presenza massiccia il nascere di nuovi modelli e
nuovi orientamenti di salute mentale.
"Le
donne sono quelle che più utilizzano i servizi di salute mentale ma le loro
richieste non godono di alcuna priorità; i servizi non corrispondono alle loro
esigenze e non prendono in considerazione le loro particolari condizioni di
vita. Le donne si rivolgono più spesso ai medici generici per problemi di
salute mentale; sono più spesso ricoverate in ospedali psichiatrici, sono due
volte più suscettibili di una diagnosi di depressione ed ansia, ed hanno due o
tre probabilità in più che vengano loro prescritti dei tranquillanti
minori" (S. Dunbar, G.B.).
A
questa visione della maggiore incidenza dei problemi di salute mentale sulle
donne corrisponde l'analisi sulle sacche di povertà ed emarginazione il cui
primato spetta purtroppo ancora alle donne. E le donne le troviamo in stati di
subordinazione politica ed economica anche là dove vi è un maggiore sviluppo
economico e sociale.
"Nonostante
lo'status' delle donne sia migliorato, le donne lavoratrici sono mal pagate,
occupano posti di scarsa considerazione e costituiscono una grossa parte della
popolazione mondiale povera, ignorante e diseredata. Inoltre sono poco
rappresentate nei centri di potere politico, organizzativo, didattico e
amministrativo" (M. Xastrup, OMS).
Ed ecco due citazioni, l'una tratta dal Congresso del Cairo
del 1987 organizzato dalla Federazione Mondiale della Salute Psichica e derivata
dalla dichiarazione del Messico nell'anno internazionale della donna (1975):
"Donne provenienti da tutto il mondo, qualunque differenza esista tra loro,
dividono la dolorosa esperienza di aver ricevuto un trattamento iniquo"; e
l'altra è tratta dalla relazione della Conferenza Mondiale di Nairobi tenutasi
nel 1985: "Per le donne in particolare, uguaglianza significa
riconoscimento di quei diritti che sono stati negati a causa di discriminazioni
culturali, istituzionali, comportamentali e attitudinali". (S. Dunbar, G.B.).
Queste citazioni testimoniano delle innumerevoli
manifestazioni dell'ineguaglianza della donna in tutto il mondo e non ultima
l'ineguaglianza della donna per quanto concerne la salute mentale. La
discriminazione sessuale produce effetti molto nocivi sulla salute psicologica
delle donne essa si riverbera anche nell'organizzazione dei servizi psichiatrici
e di salute mentale e qui danneggia in modo specifico la
nostra salute sia come lavoratrici del settore sia come fruitrici
dell'assistenza sanitaria.
"La
depressione colpisce principalmente quelli con minore possibilità di accesso al
potere sociale e con pochissimo
controllo sulle proprie condizioni di vita. Donne, donne con bambini, e donne
appartenenti alla classe operaia.
Le donne di colore sono oppresse in quanto donne e in quanto persone di colore e
hanno un accesso ancora più limitato al potere sociale. Il sesso, la
razza, la classe nella loro interazione costituiscono
un sistema interdipendente di forze oppressive. In Gran Bretagna le donne con
bambini piccoli sono comunemente
soggette all'isolamento sociale". (H. Hunt, G.B.).
La
situazione di oppressione collegata alla produzione di patologia psichica è
documentata negli interventi di Ghita El Kayat (Marocco), Custodia Mandlhate
(Mozambico), e Gabriella Charnes (Cile). Le difficoltà di trasformazione di un
paese, oppure la sua povertà, o ancora un rivolgimento politico sono condizioni
strutturali all'interno delle quali la situazione di vita delle donne si
manifesta come doppiamente segnata
dalla oppressione ed emarginazione.
I
dati internazionali propendono per un collegamento tra condizioni di vita
disagiate e maggiore insorgenza di disturbi psichici e indicano le donne come
categoria maggiormente a rischio. I
dati italiani riportati nella ricerca del Labos (R. Frisanco e M. Lunetta)
appaiono per un certo verso dissonanti. La ricerca su un campione di servizi di
salute mentale (sia di ricovero che ambulatoriali) in Italia
dà come risultato una maggiore presenza di uomini nelle strutture di
ricovero, ed invece una presenza maggiore
di donne nei servizi ambulatoriali. La ricerca svolta presso i medici in base
indica poi una netta maggioranza di donne che si rivolgono al medico per
problemi psichici. L'ipotesi di una minore presenza delle donne nei settori
della degenza è da mettere in relazione con il dato riguardante il tipo di
richiesta che la donna prevalentemente rivolge ai servizi: di essere assistita
individualmente, preferibilmente a domicilio, secondariamente in modo
ambulatoriale, con l'intento di mantenere una certa segretezza e con l'intento
anche di separarsi il meno possibile dal suo specifico luogo di lavoro (la
casa).
L'atteggiamento
di ridurre al massimo il tempo della cura e di evitare allontanamenti dalla
famiglia è in genere condiviso dai familiari (a meno che non vi siano
comportamento altamente disturbanti, il che è
meno frequente nelle donne rispetto agli uomini) i quali tendono a
mantenere, finchè è possibile, il carico di lavoro e responsabilità
domestiche sulla donna.
L'espressione
più tipica del malessere femminile è la depressione. Su questo dato tutte le
statistiche concordano. Concordano
anche gli psichiatri tradizionali: tra questi c'è anche un atteggiamento di
svilimento del malessere femminile che occuperebbe solo gli spazi di patologia
di minore entità e "minore prestigio".
Il tema della depressione diviene così anche il tema centrale
dell'analisi sulla sofferenza femminile; essa
è messa al centro di tutte le ricerche sul disagio come modalità tipicamente
femminile per segna- lare
all'esterno la difficoltà a vivere in un determinato ruolo di subordinazione.
Gli aspetti più tipici della depressione sono messi in relazione con gli
aspetti più rappresentativi del ruolo
femminile: la dipendenza, la debolezza, la mancanza di autonomia ed aggressività,
la scarsa autostima, ecc.
Brigitte
Haller (Monaco) nota, come dato significativo, che i questionari sulla
depressione includono domande sul comportamento che fanno parte delle ricerche
sull'adattamento della donna al ruolo. " Con la
depressione la donna conferma a se stessa e agli altri la sua debolezza,
la mancanza di controllo sulla propria
vita, le sensazioni di inutilità. Di conseguenza la depressione può essere
interpretata come una reazione
costante alle esperienze di mancanza di controllo, oppressione, mancanza di
fiducia nelle proprie capacità. (B. Haller).
Sulla depressione femminile e sulla alta incidenza di questa
anche tra la popolazione generale femminile sono ampiamente intervenute:
Patrizia Romito, Emilia. Costa, Paola Leonardi, Caterina Arcidiacono,
Rita Fichera, Julia Brannen, Jenny Popay, e altre.
L'analisi
sulla depressione corre comunque su due binari paralleli: l'indagine sul ruolo
ed i modelli femminili che tendono a portare la donna verso uno stile di vita
depressivo; e l'indagine sui circuiti medici e assistenziali per analizzare il
tipo di domanda che la donna rivolge alla struttura medica e le risposte più
frequenti di quest'ultima.
In
tutte le ricerche si è evidenziato un maggior ricorso delle donne ad un aiuto
di tipo psichiatrico, anche se poi si è rilevato un alto tasso di
insoddisfazione nelle donne per il tipo di aiuto ricevuto. Su questo maggiore
ricorso delle donne, sociologi e clinici hanno dato interpretazioni diverse.
L'intervento
della sociologa inglese J. Popay inquadra ampiamente questo problema. "In
un recente editoriale del 'British Medical Journal' che discuteva dei tassi di
mortalità diversi tra uomini e donne, Alan Silman conclude che: 'gli uomini
possono morire più giovani perchè vivono in maniera più rischiosa e forse
dovrebbero adottare stili di vita più salutari'. Continua notando che c'è
tuttavia un 'in cauda venenum' sostenendo che molti degli anni vissuti in più
dalle donne sono di cattiva qualità e implicano un grande rischio di isolamento
sociale, povertà, demenza. Ciò non costituisce l'unica sorpresa finale perchè
ci sono prove tangibili che durante la loro vita, indipendentemente dal ritmo
preso in considerazione (un giorno, una settimana, o un anno) le donne vanno
incontro a maggiori problemi di salute definiti in diversi modi rispetto agli
uomini. Questo eccesso di stato patologico delle donne rispetto agli uomini
trova due diverse spiegazioni: le donne per il ruolo sono portate a esprimere e
denunciare maggiormente lo stato di malessere (modello dell'induzione sociale);
le donne si ammalano maggiormente a causa di peggiori condizioni di vita
(modello della causalità sociale)". I dati che ruotano intorno alla prima
ipotesi sono molto contraddittori e non mostrano questa sicura tendenza delle
donne a considerare come malattia determinate situazioni di malessere. E’
comunque difficile operare una distinzione tra una reale esperienza di un
fenomeno (come ad esempio la stanchezza) e la percezione soggettiva
dell'eventuale gravità del fenomeno (J. Popay, G.B.).
Gli
interventi delle ricercatrici convergano alla fine nella individuazione di un
peggiore stato di salute della donna e in particolare un peggior stato di salute
mentale sia per quanto riguarda analisi e ricerche sulla popolazione generale,
sia per quanto riguarda ricerche sulla popolazione dei servizi psichiatrici e
sull'utenza dei medici di base.
Maggiori
difficoltà sorgono poi nella individuazione di specifici fattori di rischio che
giustifichino la maggiore permeabilità delle donne all'esperienza della
malattia. Ogni intervento ha fatto esplicitamente o implicitamente riferimento a
collegamenti significativi tra il disagio femminile e determinate condizioni o
situazioni di vita.
Si
è notato in questo aspetto della ricerca una certa difficoltà a esprimere una
concordanza di opinioni; mentre si è notata maggiore omogeneità di vedute
nella pratica clinica delle donne.
Avanziamo
una ipotesi su questa diversità tra i due ambiti della ricerca: pensiamo che
nella ricerca clinica vi siano essenzialmente donne impegnate direttamente
nell'approccio ad un problema (il caso clinico) e nella necessità di
trasformare vecchie pratiche ed usare nuovi strumenti per dare risalto
all'ascolto della sofferenza femminile; al contrario nella ricerca di tipo
sociologico non sempre è possibile fare un lavoro diretto (pensiamo alle estese
indagini di popolazione) con il fenomeno che si intende analizzare, e ciò
spesso determina un uso non corretto degli strumenti che devono rilevare un
fenomeno al femminile.
E’
un obiettivo di questo Seminario cominciare a dare un quadro d'insieme del
problema e ad avviare una interpretazione unitaria.
Le
prime discordanze riguardano le fasce di età maggiormente a rischio: per alcuni
la fascia giovanile, per altri quella della mezza età, per altri ancora la
terza età. E chiaro che queste discordanze sono relative ai diversi campi
assunti per l'indagine, alla mentalità del ricercatore, alla mancanza di
ipotesi che guidino la ricerca. Vediamo i dati italiani come esempio più
vicino: l'indagine nei servizi (sia di ricovero che ambulatoriali) indica un'età
prevalentemente meno giovanile di quella maschile. Questa età più avanzata per
le donne varia a seconda delle diverse aree geografiche dai '40 a 60 anni.
L'emergere di un tale dato sembra avallare ipotesi (prevalentemente maschili)
che individuano nella perdita del ruolo sessuale e delle capacità procreative
da un lato e nell'allontanamento dei figli dall'altro (sindrome del nido vuoto)
il maggior rischio di ammalamento per le donne. Ma questo dato appare in
contrasto con altre ricerche (Brown Harris, ad esempio) e con molti dati
dell'esperienza clinica.
L'esperienza
nei servizi in cui son presenti operatrici donne come osservatrici del fenomeno,
parla di una presenza di donne giovani come dato più frequente (25-34 anni) e
di una nuova emergenza di giovanissime (adolescenti donne, in un rapporto 9 a 1
rispetto ai maschi-, cfr. ibidem B. Iaccarino). Questa contraddizione fa pensare
a diverse modalità di raccolta dei dati. E’ probabile che le donne sfuggano
da quei luoghi dove sono rappresentate come minoritarie e si addensino in altri.
Già abbiamo visto che la donna preferisce un'assistenza di tipo ambulatoriale a
quella residenziale o semi-residenziale; preferisce staccarsi il meno possibile
dal suo ambiente (o lo preferiscono i familiari), preferisce mantenere la
segretezza e l'isolamento.
Per
questi motivi in Italia è molto più frequente che la donna si diriga nei
circuiti privati prevalentemente ambulatoriali e, a seconda del livello
culturale, ricorra all'intervento medico-farmacologico - come intervento
prevalente - o a quello psicoterapico. Questa linea di tendenza si inverte
quando i servizi pubblici sono attrezzati per rispondere a questa iniziale
esigenza delle donne; oppure là dove si sono costituiti servizi specifici
(Napoli ad esempio) si assiste ad un incremento della richiesta di aiuto al
servizio pubblico a discapito del circuito privato. Se da un lato è necessario
valutare prima quali siano i circuiti preferenziali scelti dalle donne,
dall'altro è anche importante non raccogliere solo il dato "età"
desumendolo dal 1° contatto col servizio.
Molto
spesso infatti le persone che si rivolgono alla struttura pubblica hanno già
compiuto un percorso medico e psichiatrico in altri luoghi (le strutture
private, i medici di base, ecc.) e quindi l'età dell'inizio dei disturbi non
coincide con l'età di arrivo alla struttura su cui si svolge l'indagine.
Effetto di questo tipo di raccolta dati sarà ovviamente l'elevazione delle
fasce di età delle persone che presentato problemi di salute mentale. Questa
interpretazione sembra corretta se guardiamo i dati riportati nella stessa
ricerca (Labos, R. Frisanco e M. Lunetta) sulla richiesta ai medici di base.
Qui
il campione prevalente inviato dai medici ai servizi specialistici è quello
femminile di età adulta e di livello socio-culturale medio. Da questa visuale i
dati raccolti mutano: prevalenza netta di donne come portatrici di disturbi
psichici e prevalenza di età medie, ma non certo di fasce di età avanzata.
Queste contraddizioni valgono come esempio di una indagine all'interno della
quale non sono stati ben rappresentati i luoghi e le modalità delle richieste
di aiuto delle donne. E’ necessario per il futuro che la ricerca sociologica
si attrezzi con strumenti e con metodologie che nella loro impostazione tengano
conto, nell'attualità storica e geografica di ciascun paese, delle differenti
condizioni di vita tra le donne e gli uomini.
Vi
sono anche dati diversi per quanto riguarda il maggior rischio di malattia per
le donne. Alcuni ricercatori individuano una linea di tendenza che va verso
l'omogeneizzazione della sofferenza maschile e femminile. Paola Leonardi cita
alcune ricerche nelle quali si evidenzia un aumento della depressione tra gli
uomini, ed un aumento di disturbi psichici in generale. Una prima ipotesi
riguarda la possibilità di un cambiamento nella lettura e nell'inquadramento
del disagio in generale: sarebbe cioè in atto una tendenza a leggere il disagio
psichico in modo meno deterministico e parcellizzato (tale comportamento- tale
sintomo-tale disagio) e maggiormente collegato a più complesse condizioni di
vita. Una seconda ipotesi, che riguarda eventuali tendenze al superamento del
primato femminile in tema di disagio, può essere fatta in relazione sempre a
una insufficiente differenziazione degli strumenti di raccolta dei dati: si può
supporre sempre, fin quando i ricercatori non metteranno in evidenza la
specificità dei loro strumenti rispetto al sesso, che i canali
dell'informazione e formazione dei dati siano stati poco rappresentativi delle
condizioni di vita di un sesso o dell'altro.
Passiamo
ora ad analizzare altri aspetti di questi studi: i fattori e le cause
determinanti il malessere femminile. Tralasciamo qui le ipotesi di tipo
biologistico che sono state definite insoddisfacenti da tutte le ricercatrici, e
valutiamo invece i dati che riguardano le condizioni sociali delle donne, il
loro status ed il loro ruolo. Molte delle ricerche riguardano l'individuazione
di questo o quel fattore o più fattori presenti nella storia della donna che
giustificano e spiegano l'incorrere nella esperienza della malattia. Elenchiamo
alcuni di questi fattori/situazioni che rappresentano anche le linee di tendenza
della ricerca attuale.
Il
matrimonio si evidenzia come fattore di rischio per le donne e fattore di
protezione per gli uomini; il casalingato =
fattore rischio; il lavoro esterno = fattore di protezione; il doppio
lavoro (lavoro familiare e lavoro extradomestico) = fattore di rischio; l'avere
tre figli al di sotto dei 14 anni = fattore di rischio; mancanza di sostegni e
supporti amicali = fattore rischio; mancanza di una relazione confidenziale con
il partner = fattore di rischio. (P. Leonardi, C. Cappelletti, R. Fichera, P.
Romito, J. Popay, J. Brannen, e altre).
La
condizione economica e la differenza di classe costituisce in tutte queste
ricerche un corollario per gli altri fattori: esse possono dare (ma non
necessariamente) un maggior peso a questo e quel fattore; per altro
l'appartenenza ad una classe svantaggiata non è direttamente correlata per le
donne alla produ-zione/manifestazione di disagio psichico.
Per
gli uomini le cose stanno diversamente: le ricerche nella loro generalità
attestano la presenza di una correlazione tra classe, condizione
economico/lavorativa e disagio psichico (M. Caredda, A. Pitoni).
Rimandiamo
alla lettura dei singoli interventi
la complessità di questo dibatto: qui intendiamo evidenziare soltanto una linea
per un possibile sviluppo della questione. L'individuazione di un singolo
fattore rappresentato da una situazione o un'altra (matrimonio, ecc.) non appare
soddisfacente e non dà ragione della contraddizione esistente tra i molti
ricercatori e ricercatrici. Se l'attenzione si sposta sulla ricerca di una
condizione unitaria possiamo dare all'interno di questa, un posto e una ragion
d'essere a ciascuno dei singoli fattori individuati come rischiosi per la vita
della donna. Avremo così risolto la contraddizione tra ricercatori
attribuendola a diversi punti di vista da considerare come parziali più che
realmente confliggenti.
Questa
condizione unitaria è a nostro avviso adeguatamente rintracciabile nella
struttura del ruolo femminile organizzata intorno al concetto della maternità.
"I
ruoli femminili sono costruiti in modo che la loro vittoriosa approvazione
costringe la donna ad una vita di abnegazione" (H. Graham in J. Popay).
"Le
caratteristiche della maternalità sono un attributo della identità di genere e
non specificamente di chi ha figli. Immediatezza femminile, orientamento ai
bisogni, maternalità sono espressioni e concettualizzazioni diverse ma
equivalenti che descrivono l'attenzione delle donne alle persone ad esse
circostanti" (C. Arcidiacono).
"Il
modello della maternità è un modello di comportamento sociale in virtù del
quale è previsto l'accantonamento delle esigenze personali e vantaggio dei
bisogni altrui. La maternità costituisce il prototipo di un rapporto di
dipendenza e tutela, all'interno del quale colui che è definito socialmente
dipendente e bisognoso di tutela viene richiesto di una serie di compiti, non
considerati come lavoro ma come prestazioni fornite nell'interesse di una
realizzazione personale" (E. Reale, P. Orefice, V. Sardelli).
Jennie Popay indica, nel suo intervento, tre aspetti
interessanti dei ruoli sociali e sessuali che sono correlabili con la quantità
e la qualità del disagio psichico: lavoro, responsabilità, aspettative.
"Il lavoro materno - in tutte le ricerche svolte sui ruoli - appare come
quello più stressante, che implica un maggior senso di responsabilità non
confrontabile con quelli inerenti ad altri tipi di lavoro né con quello
relativo al lavoro paterno; infine anche le aspettative non sono confrontabili
con quelle relative ad altri lavori e ruoli: "le madri sono quelle donne
che riescono sempre a farcela " (J. Popay).
Le
aspettative rispetto a questo ruolo sono quindi non precisamente definibili, e
possono assumere dimensioni esagerate. Alla mancanza di regole definite fa
riscontro la tendenza, nelle donne, a costruire regole rigide e rispetto ad esse
si produce la sensazione e l'esperienza dell'esser manchevole, incapace. Il
materno si configura complessivamente come un rapporto di servizio (Romito,
Reale, e altre) che, non avendo definizioni e delimitazioni quanto a suoi
obblighi, si struttura come disponibilità totale, come "essere disponibili
sempre a soddisfare i bisogni altrui". Nel ruolo materno troviamo anche la
possibilità di comprendere la strutturazione della particolare dipendenza
femminile che si caratterizza come situazione in cui la donna pur non essendo,
originariamente priva di risorse personali, ne rimane priva in quanto la mette
al servizio della formazione e del potenziamento delle risorse altrui. (Cfr. La
discussione sulla formazione del concetto di dipendenza in R. D'Amico). Le
peculiari caratteristiche del lavoro materno indirizzano il comportamento
femminile (atteggiamenti, processi cognitivi, modalità di rapporto sociale e
affettivo, ecc.) anche al di là della sfera ristretta dell'accudimento dei
figli e dell'accudimento delle figure più tipiche del contesto familiare.
La
particolarità del lavoro materno e la sua centralità per la vita della donna
(esso definisce i criteri della norma e della devianza femminile) forniscono una
spiegazione all'instaurarsi di determinate condizioni di rischio per la salute
mentale. Consideriamo ad esempio la mancanza di supporti amicali, relazioni di
sostegno, di un rapporto di confidenza con il partner, fattori che sono stati
messi in relazione con il disagio femminile, essi non sono da considerarsi
eventi occasionali o accidentali della vita di una donna ma sono da valutare
come situazioni richieste e volute socialmente per un corretto adempimento delle
funzioni materne. Queste situazioni (denominate come fattori di rischio da molti
ricercatori e ricercatrici) non si verificano solo in determinati contesti
socio-culturali particolarmente deprivati, ma anche in contesti sociali
avanzati, quando ad esempio, pur essendovi le possibilità oggettive di avere
relazioni e sostegni, le donne tendono a privarsene.
Consideriamo
ancora un altro fattore: la mancanza di un rapporto di confidenza col partner.
Questa situazione non è imputabile soggettivamente alla singola donna o al
singolo rapporto di coppia; ma si può considerare correttamente come
conseguenza dello specialismo dei ruoli nella coppia: da un lato la donna-madre
con la sua competenza esclusiva di tipo educativo- assistenziale- affettivo;
dall'altro l'uomo-lavoratore con le sue competenze pubbliche di relazioni
culturali e socio-economiche.
Un'altra caratteristica del lavoro materno è che esso viene
giudicato stancante dalla maggioranza delle donne senza produrre adeguate
reazioni di alleggerimento della fatica (J. Popay, J. Brannen). La qualità
della fatica e della stanchezza prodotta nel lavoro materno è fortemente
correlata col disagio psichico. Spesso la donna uniformandosi al modello che una
madre "riesce sempre a farcela" sopporta stanchezza e fatica al di là
di quello che sarebbe giusto fare in un'ottica di tutela della propria salute.
La stanchezza è spesso subita e accettata come inevitabile aspetto della
propria condizione di vita: come tale non suscita alcun allarme e non fornisce
alla donna un segnale della necessità di cambiamento. Il non riconoscirnento
della stanchezza come segnale di un corpo sovraffaticato che necessita di
riposo, cambiamento ecc. comporta il primo passo verso una condizione di
malessere in cui la stanchezza stessa (non correlata allo sforzo, alla fatica,
al lavoro) viene vissuta come primo segno di una patologia mentale.
"La
fatica è un elemento estremamente positivo. Essa è un sistema di segnali
precoci dell'organismo, inteso come mente-corpo, che indica come vi siano
elementi e meccanismi all'interno dell'insieme corpo-mente che si stanno
usurando e che ulteriormente sollecitati possono portare al break-down. I
segnali di fatica hanno la funzione di preservare l'integrità ed il benessere
psicofisico. Non sempre la fatica viene riconosciuta come tale; quindi
l'efficienza d'uso di questo sistema di segnali dipende dalle conoscenze che si
hanno. Occorre sempre un modello mentale, un insieme di conoscenze che siano
capaci non solo di rilevare questi segnali ma anche di mettere in atto delle
strategie di gestione della fatica." (S. Bagnara).
Il
modello del lavoro materno non comporta al suo interno la strutturazione di un
modello adeguato di fatica; al contrario il lavoro materno, essendo concepito
come un non-lavoro, esclude da sè ogni riferimento allo sforzo fisico o mentale
e quindi alla stanchezza. Il lavoro materno e il rapporto di servizio in esso
compreso (essere al servizio delle esigenze altrui) si danno in diverse
situazioni: nella condizione matrimoniale con figli, e in quella senza figli;
nelle condizioni di nubilato sia dell'adolescenza che dell'età adulta. La
situazione più ricorrente è senz'altro quella matrimoniale con figli piccoli
perchè in essa il rapporto di servizio raggiunge la sua massima estensione e
generalità. In ogni condizione che abbiamo esemplificato vi è sempre la
possibilità concreta che si instauri un rap-porto di servizio tale che comporti
il sacrificio di più aspetti importanti della realizzazione personale. Questo
rapporto di servizio vale inoltre per le casalinghe a tempo pieno e per quelle a
tempo parziale (la donna che lavora anche all'esterno della famiglia); sia per
la casalinga che per la donna cosiddetta emancipata, il lavoro materno può
creare condizioni di isolamento, compressione delle esigenze personali, mancanza
di supporti amicali, ecc.
In
definitiva, l'analisi del lavoro materno e delle sue caratteristiche
(responsabilità, aspettative, modelli, assenza di fatica, dipendenza dalla
soddisfazione delle esigenze altrui, ecc.) può costituire la riflessione
centrale sui fattori di rischio per le donne. Intorno a tale riflessione va poi
riorganizzato l'analisi di ogni altro aspetto del ruolo, orientando anche
intorno a essa la ricerca sulle differenze culturali ed economiche tra donne e
sul peso che esse hanno nella produzione e modalità di espressione del disagio.
(J.
Popay, M. Bourgon).
2.
La ricerca clinica
Sul
versante della ricerca e della pratica clinica i contributi delle diverse
esperienze hanno avuto un carattere di maggiore omogeneità. I temi dibattuti
sono gli stessi delle più ampie indagini sociologiche: lavoro familiare, doppio
lavoro, dipendenza, autostima, divisione di competenze tra ruoli, ecc.. Questi
temi assumono alla luce dell'esperienza clinica quella unità e concretezza di
espressione che deriva dal rapporto diretto con le storie quotidiane delle
donne. L'esperienza clinica può quindi orientare meglio la ricerca in campo
sociale fornendo un quadro più preciso della struttura organizzativa del ruolo
femminile e del modello di funzionamento dell'interscambio tra esterno
(richieste di ruolo provenienti dal contesto) e interno (modalità di assunzione
di queste richieste).
Ogni
intervento ha posto al centro della propria riflessione uno o più problemi
della pratica clinica in relazione alla necessità di modifica del malessere
femminile. Ognuno di essi ha mostrato una serie di premesse, esplicitate o meno,
che sono risultate omogenee e concordanti nella generalità dei casi.
In
ciascun intervento si legge infatti la critica pratica al modello
medico-psichiatrico e al suo criterio diagnostico-curativo. (C. Saez, Gonzales
de Chavez, C. Gonzalez Noguera, L. Valdueza, V. Sau, J. Colorn, A.M. Daskal, C.
Ravazzola, K. Benuin, T. Anstrop, A. Clasen, B. Haller, B. Frosio, M. Maguire,
V. Sardelli, e altre).
Il
momento diagnostico è sostituito dall'analisi della vita quotidiana e dalla
rilevazione delle difficoltà delle donne nell'espletamento delle funzioni di
ruolo. L'ascolto della sofferenza, nascosta dietro i sintomi, è posta al centro
di ogni intervento.
Sono
stati portati in primo piano tutti gli elementi di cui si compone il disagio
femminile: passività, senso di debolezza ed incapacità, svalutazione, mancanza
di desideri e progettualità, stanchezza, senso di vuoto, confusione, mancanza
di punti di riferimento, ipervalutazione dei modelli di ruolo (casalingato ed
emancipazione).
Si
è messa in luce la sofferenza della donna casalinga (C. Saez, L. Valdueza, C.
Gonzalez, L. Govoni, A.M. Daskal, e altre), e la sofferenza della donna
emancipata (C. Schweizer, C. Haw, T. Anstrop, K. Benum, B. Haller, e altre);
ambedue connotabili in modo omogeneo pur essendo riferiti a contesti sociali,
culturali ed economici differenti.
Dal
lavoro clinico si è avuta una maggiore puntualizzazione del tipo di rischi che
corrono prevalentemente sia le donne casalinghe che quelle emancipate. Ecco una
testimonianza delle ricercatrici norvegesi sui rischi dell'emancipazione:
"Quando l'oppressione strutturale delle donne non è più ovvia, come
succede nella Norvegia moderna, si può solo rimproverare se stesse se le cose
vanno male. Rispetto alle donne in genere il gruppo delle emancipate è spesso
anche più convinto del fatto che ’la colpa è mia, e devo farmi forza"'.
Ed
ancora l'inglese L. Doyal: " Oggi sta diventando chiaro come vi sia
un'ampia probabilità che il lavoro salariale danneggi la salute delle
donne".
Ciò
perchè le donne vivono nel lavoro extrafamiliare la stessa, se non maggiore,
subordinazione sessuale, e perchè le professioni che le donne ricoprono sono in
genere un prolungamento delle attività educativo-assistenziali tipiche del
lavoro femminile. Il lavoro esterno tende a uniformarsi agli stessi criteri di
subordinazione del lavoro familiare: esso si fonda sulla disponibilità
affettiva e sessuale, sul controllo del benessere altrui, sull'essere al
servizio dei bisogni altrui.
L'analisi del ruolo della donna sia casalinga che emancipata illumina i modi specifici di espressione del disagio femminile; questo è messo in relazione, da ogni ricercatrice, con la vita quotidiana e con i modi espressivi del ruolo sessuale. Le categorie diagnostiche risultano per tutte inadeguate ed estranee alla comprensione e rappresentazione del disagio. Solo la categoria della depressione viene comunemente usata dai tecnici-donne: essa però non rappresenta solo un insieme di sintomi specifici (come nei quadri nosografici classici) ma una condizione esistenziale tipica. La depressione costituisce un prolungamento delle caratteristiche normali della vita quotidiana femminile: mancanza di autostima, di progetti, di relazioni, senso di incapacità, ecc.
Dall'altro lato la depressione rappresenta anche un mutamento di prospettiva della donna sulla propria situazione di vita: questa non è più vista come frutto di "rapporti sbagliati", di "vicende sfortunate", ma come dipendente da uno stato patologico soggettivo. Nella situazione di depressione la donna sta male, ma non attribuisce il malessere alle condizioni di vita; spesso non sapendo a chi o a cosa attribuire le sue difficoltà le attribuisce a se stessa.
Oggettivamente
non vi sono grosse differenze di comportamento tra la donna depressa e quella
non definita tale; sul piano soggettivo però la donna depressa attribuisce solo
a se stessa in quanto malata le difficoltà, le chiusure, le mancanze di spazi e
prospettive della propria vita.
All'interno
di questa condizione comune di sofferenza percepita come malattia prendono corpo
i sintomi: prove e attestazioni di questo mutamento fisico e psichico. I
sintomi sono raggruppati secondo le espressioni delle donne - che tendono a
ricalcare le divisioni nosografiche classiche - in corporei: ipocondria,
disturbi psicosomatici, isteria, anoressia e bulimia (B. Frosio, Bleichmar, E.
Costa); fobici-ossessivi: le paure che riguardano tutti gli ambiti della vita
quotidiana (B. Haller); in stati mentali chiusi e raccolti intorno ad
interpretazioni di malessere lontane dalla condizione reale di subordinazione e
oppressione (le depressioni maggiori e le psicosi).
Il
sintomo, in queste nuove pratiche con le donne, viene raccolto e interpretato
come percorso soggettivo all'interno della percezione generale di malattia (de-
pressione) e come verifica e prova della propria salute/malattia, funzionalità/disfunzionalità.
I sintomi che nascono all'interno di una percezione mutata di sé (come persona
malata) hanno le loro radici nella vita quotidiana. Essi sono il segno
dell'adattamento della donna al suo ruolo e della rinuncia al conflitto con il
contesto per l'affermazione di esigenze personali.
"Essi
sono una strategia inadatta alla risoluzione dei problemi" (B. Haller).
Ma
il paradosso del sintomo è proprio questo: una volta risolto il conflitto con
l'adattamento della donna alle richieste del contesto e con la rinuncia al punto
di vista personale, la donna perde ogni energia, interesse, carica vitale. Così
quando ha rinunciato a soddisfare le proprie esigenze non si trova più energie
disponibili per soddisfare le esigenze altrui (gli adempimenti prescritti dal
ruolo).
La donna, nella vita quotidiana, può stare nel ruolo fin
quando riesce a coltivare i propri interessi adottando strategie mediative con
il contesto. Quando invece gli spazi di mediazione si chiudono e la donna deve
rinunciare anche alla minima espressione dei propri interessi ecco che diventano
impraticabili anche i comportamenti di ruolo.
Nella
malattia la donna esprime contemporaneamente l'impossibilità ad essere come
vuole (fuori del ruolo) e l'impossibilità ad essere come deve (dentro il
ruolo).
Il
sintomo è considerato da tutte le intervenute come segnale e spia di un
desiderio di cambiamento di una condizione di vita oppressiva. Ma questo
significato del sintomo è celato alla donna dalla prospettiva della malattia al
cui interno esso viene calato. Perchè le donne recuperino il significato
nascosto del sintomo è necessario ripercorrere con la donna tutte le fasi della
sua vita: in essa infatti si possono trovare le ragioni della necessità di una
interruzione di funzioni divenute intollerabili. Il percorso storico femminile
è guidato dall'analisi delle tappe di formazione del ruolo sessuale:
adolescenza, matrimonio, gravidanza e maternità, menopausa.
In
queste tappe si realizza una concentrazione di richieste di ruolo che
sovraccaricano la donna e possono far esplodere il conflitto "tra ciò che
gli altri vogliono che io sia e ciò che desidero essere"; conflitto che la
donna percepisce e valuta come intrapsichico tra ciò che è bene fare, devo
fare, (modello perfetto di ruolo femminile) e tutto quello che non riesco a
fare". Si iscrivono qui gli interventi di P. Cavallero e Fiorella Monti
sulla gravidanza; di Bianca Iaccarino sulla tappa adolescenziale; di Katherine
Scheweizer ed Eugenia Omodei sul periodo dopo il parto e la menopausa; di Adele
Nunziante Cesaro sulla menopausa; di Julia Brannen sul ritorno al lavoro dopo il
parto.
In
ciascun intervento rileggiamo le tappe della vita femminile e le difficoltà che
in esse si evidenziano: esse non sono interpretate come mutamenti ormonali,
secondo la tradizione psichiatrica, ma come mutamenti delle strategie di
adattamento della donna al ruolo, in concomitanza di un sovraccarico di
prescrizioni e richieste.
Tra
queste tappe quella della maternità è la più densa di rischi. Dalla ricerca
clinica emerge con chiarezza questa correlazione significativa tra disagio
psichico e
ruolo materno. Il comportamento materno si apprende poi nella relazione
preferenziale tra madre e figlia. In questo rapporto, anch'esso denso di rischi
per la salute mentale, si strutturano concretamente i modelli di ruolo della
perfezione e del sacrificio personale.
La
madre reale è spesso assunta come modello di riferimento su cui misurare le
proprie incapacità di adattamento al ruolo. (A. Gonzalez de Chavez, M. Maguire).
Spesso
il ruolo di figlia si carica di pesi eccessivi; ciò succede quando
nell'adolescenza la figlia è chiamata a rivestire un ruolo di sostituto o di
supporto alla madre. Spesso ancora la figlia viene investita dalla madre del
compito di soddisfare progetti e desideri personali mai realizzati: in questo
caso la figlia è chiamata dalla madre a svolgere un ruolo di prolungamento
della propria vita nel tentativo di realizzare progetti sospesi o falliti. La
necessità di far rivestire alla donna un determinato ruolo di servizio induce
spesso il contesto a far uso della violenza come strumento di pressione. Si
tratti di violenza fisica, di maltrattamenti, ma anche e soprattutto violenze
psicologiche. (V. Sau, J. Colom, M. Giancane, R. Lentini, A. Delphine, C.
Steinke).
La
violenza costituisce un elemento importante nel processo di costruzione della
malattia, ma una volta che la malattia si è prodotta, essa non è più
riconosciuta dalla donna come causa del proprio malessere.
La violenza espressa dalle donne è indagata da Sheilagh
Hodgins: si sottolinea in questa ricerca il percorso specifico della violenza
femminile. Essa ha come oggetto preferenziale se stessa e i figli, questi ultimi
sono vissuti, anche secondo i dettami del ruolo, come prolungamento della
propria vita.
L'intervento
terapeutico segue linee comuni per tutte le relatrici: si tratta di un
intervento specificamente rivolto alle donne e condotto da donne che hanno fatto
un percorso personale di presa di coscienza dei meccanismi della subordinazione;
è un intervento da donna a donna ove "ambedue sono esperte: la terapista
è esperta sul modo come avvengono i cambiamenti, mentre la cliente è esperta
sul contenuto del cambiamento". (T. Anstrop, K. Benum, A.
Kari-Clasen).
Le
modalità di svolgimento della terapia rispondono ad una o più fasi in cui si
ascolta la sofferenza così come la donna la rappresenta attraverso i sintomi;
si collegano i sintomi alla storia personale operando e facendo operare un
riconoscimento dell'oppressione, della violenza, della limitazione, della
chiusura agita dall'esterno (contesto di vita) in nome del richiamo a modelli di
ruolo legittimi e perfetti; si individuano dietro i sintomi le strategie di
adattamento alle prescrizioni di ruolo.
Dopo l'ascolto dei sintomi ed il loro collegamento,
l'intervento procede per realizzare le modifiche di comportamento e di
atteggiamenti disfunzionali all'espressione delle esigenze femminili: si ribalta
la percezione svalutata di sé; si destrutturano le false dipendenze (R.
D'Amico); si modifica l'atteggiamento della disponibilità verso gli altri; si
rafforzano, si recuperano (dalla storia personale) o si scoprono esigenze e
desideri personali; si supporta la donna nei cambiamenti pratici che riguardano
l'organizzazione della vita quotidiana (riorganizzazione del lavoro domestico,
redistribuzione delle competenze, deleghe di alcuni compiti, ecc.).
Il
rapporto terapeutico può essere individuale e/o di gruppo: in ciascun caso si
tratterà sempre di riconoscere nel proprio disagio individuale una situazione
collettiva di oppressione, e nel ricostruire una identità femminile meno
oppressa da compiti e doveri di ruolo (C. Saez, M. Bourgon, L. Valdueza, V. Sau,
K. Benum, T. Anstrop, A. Kari-Clasen, 0. Bertarini, M. Monti, L. Govoni, E.
Reale, V. Sardelli, H. Hunt, E. Costa, A. Gonzalez de Chavez, B. Frosio, M.
Maguire, B. Iaccarino, e altre).
Infine
la terapia da donna a donna si fonda su criteri della solidarietà e
dell'autosostegno: " Consideriamo la terapia come un processo di
individuazione delle donne che significa essere consapevoli delle proprie
capacità, trovare la propria forza, la propria aggressività, prendere
coscienza del proprio corpo e dare valore a se stessa e alle altre donne.
Riflettiamo in modo critico sul rapporto tra cliente e terapista, soprattutto
circa le differenze di autorità e potere; per questo i nostri metodi devono
essere visibili a tutti e non devono contenere alcun processo di
etichettatura" (B. Haller).
Dall'approccio clinico così delineato nasce il problema della
costruzione di una nuova identità femminile che possa in definitiva modificare
alla "radice" le condizioni che producono il disagio. Una nuova
identità non può essere cercata a tavolino, nè la si può definire una volta
per tutte: è ben presente nella coscienza di tutte le donne intervenute al
Seminario il rischio di sostituire ai vecchi, nuovi e più sofisticati modelli
di comportamento.
Così
nessun intervento ha preteso di poter fornire modelli alternativi di benessere
codificati alla stessa maniera dei precedenti. La ricerca di un maggior
benessere avviene attualmente per ciascuna donna all'interno della propria
storia di disagio e va nel senso di un alleggerimento quotidiano dei carichi di
responsabilità e nel senso di una liberazione di energie che possano occupare
ed estendersi in più campi e ambiti (G. Lo Cascio, M. Marino, G. Badolato, P.
Collodi, il Gruppo di Belgrado).
Nel
dibattito è stata data un'ampia attenzione al problema della riproposizione di
strategie di subordinazione anche tra le donne (L. Govoni, G. Fiore, R. Rocca e
altre).
3.
Conclusioni
Le
numerose ricerche sociologiche e cliniche sono la testimonianza dell'interesse
crescente delle donne nel campo della salute mentale. Questo settore della
ricerca è oggi portato avanti dallo sforzo e dalla volontà delle donne di
trasformare criteri e prassi ulteriormente oppressive e svantaggiose.
L'interessamento delle istituzioni pubbliche della Cultura e della Sanità è
ancora iniziale e soprattutto, anche là dove data da più anni, é
sottodimensionato rispetto alle reali necessità di progressione e sviluppo del
sapere femminile. Ecco le istituzioni presenti al Seminario attraverso le donne
intervenute dai vari paesi: il Ministero della Cultura spagnolo; il Consiglio
Nazionale delle Ricerche italiano; l'Istituto Nazionale per la Salute e la
Ricerca Medicale francese; l'Istituto Nazionale per la Ricerca norvegese; la
Comunità Europea; l'Organizzazione Mondiale della Sanità; il Ministero della
Sanità canadese; le Associazioni di Utenti Inglesi.
Questo
interessamento delle istituzioni pubbliche è oggi solo iniziale per molti
paesi; per altri invece, come il Quebec è una esperienza che dura da 10 anni.
Ci sembra comunque necessario sottolineare l'importanza che l'interesse delle
istituzioni cresca sotto la pressione e le richieste delle donne. Possiamo
quindi, alla chiusura del Seminario, porci un primo obiettivo comune: di.far
pesare, a partire da oggi, in ciascun paese e presso le varie istituzioni di
riferimento la nostra presenza di donne professioniste, ricercatrici ed utenti e
la nostra volontà di costruire un terreno omogeneo di esperienze e riflessioni
sulla salute delle donne.
Se
nell'Introduzione avevamo auspicato la possibilità di lavorare in sintonia e
connessione, mantenendo ciascuna l'appartenenza a realtà geografiche e
culturali diverse, a conclusione di queste giornate sembra che un tale obiettivo
sia concretamente raggiungibile. 1 temi dibattuti, le proposte avanzate
costituiscono l'ossatura di un primo lavoro da svolgere coralmente e da proporre
poi come oggetto del dibattito nel prossimo incontro che si è già stabilito
avvenga ad Oslo fra due anni (1990).
E’ risultato di grande interesse l'intreccio tra ricerca
sociologica e ricerca clinica: questo intreccio va mantenuto vivo organizzando
in modo più efficace l'interscambio tra i due campi. Ambedue i saperi (sociale
e clinico) in un confronto sistematico possono operare meglio nella direzione di
una critica alle prassi e alle teorie tradizionali. Oggetto di una riflessione
comune ai due settori della ricerca deve poter essere: il dato sociale della
oppressione e subordinazione femminile, presente nella strutturazione di ambedue
i ruoli femminili (casalinga ed emancipata), le sue modalità di radicamento e
di nascondimento nelle singole storie di vita quotidiana femminile, la sua
trasformazione nel dato soggettivo della malattia e del disagio.
E
’necessario definire le coordinate di una tale riflessione; queste non possono
che essere fornite da:
a.
lo studio dell'organizzazione sociale con la definizione in ciascuna
realtà della precisa posizione di subalternità occupata dalle donne;
b.
l'ascolto del disagio attraverso l'individuazione di situazioni
specifiche in cui ciascuna donna ha limitato le proprie capacità, i propri
interessi, le proprie risorse in nome di una richiesta di servizio - contenuta
nel modello materno - a vantaggio di altri e in funzione del soddisfacimento dei
bisogni altrui. Una volta definita l'unità di una condizione di disagio è
opportuno che la ricerca affronti il terna delle differenze di razza, classe,
cultura presenti tra le donne. Esse non vanno affrontate per separare in
categorie diverse le donne, ma per avere la possibilità di attuare interventi
più efficaci. (M. Bourgon, J. Popay, L. Doyal).
La
ricerca inoltre non deve essere solo finalizzata allo studio delle attuali
condizioni di malessere, o alla rimozione del malessere individuale (approccio
clinico tradizionale); essa deve poter anche prospettare, in accordo con
movimenti più ampi rappresentativi di complessive esigenze delle donne,
soluzioni socio-politiche di rimozione delle condizioni generali del disagio
(denuncia e lotta alla oppressione del genere femminile dovunque e comunque si
manifesti).
Nella ricerca su nuove modalità di trattamento del disagio
femminile non va dimenticata la continua analisi critica delle tecniche e delle
teorie psichiatriche. "Dobbiamo mettere in questione tutto quella che
abbiamo appreso dalla psichiatria: diagnosi, trattamento riabilitazione,
cura". (C. Saez).
Alla
denuncia del trattamento psichiatrico bisogna far seguire la ricerca di ipotesi
che siano rigorose destrutturazioni del sapere medico sul disagio. La ricerca
clinica sulle modalità di espressione del disagio femminile deve raccogliere
anche dati sistematici - da opporre a quelli tradizionali - sulle condizioni di
vita delle donne, sui sintomi legati agli adempimenti di ruolo, sui percorsi
soggettivi che conducono alla rappresentazione di sé come persona inalata,
sulle situazioni e sui contesti socioeconomici di appartenenza.
Anche le nuove teorie e le nuove pratiche devono essere suscettibili di critica e di modifica: "non bisogna dimenticare che anche la critica fa parte di un contesto culturale dominante prevalentemente maschile e che nessuna di noi è esente ed immune dall'influenza di questo tipo di cultura" (C. Saez). Ed ancora: " un nuovo sapere delle donne non deve costituire uno strumento di potere e di oppressione nelle mani di alcune (i nuovi tecnici della salute); esso deve trovare il modo di circolare tra tutte le donne come sapere collettivo". (C. Saez).
Esaminiamo in conclusione le proposte operative contenute in numerosi interventi.
Iniziamo con la proposta generale di trasformare i luoghi, i terreni, le metodiche della scienza in modo che diano ragione della differenza sessuale. "Come prima cosa dobbiamo pretendere che la ricerca pubblica, pagata anche dalle donne, raccolga e ordini i dati in modo sessualmente connotato e presenti i risultati in modo disaggregato per appartenenza sessuale". (L. Menapace).
La ricerca sociale deve quindi adempiere alla sua funzione di distinguere sempre l'oggetto di cui parla in maschile e femminile. E’ emerso dal Seminario stesso come la ricerca arrivi a conclusioni contrastanti e diversificate quando non si fornisce di strumenti di raccolta dati idonei ed esprimere in modo significativo le differenze di sesso.
Sul piano dei contenuti la ricerca sul femminile ed in particolare sul disagio deve studiare attentamente la vita quotidiana con le sue relazioni di subordinazione che sono apparse, anche alla luce del lavoro clinico, come le più implicate nell'esperienza del disagio.
Entro questa linea si muove il programma dell'OMS di promozione della salute della donna. L'OMS ha previsto l'inserimento di progetti specifici per la salute mentale delle donne in 38 obiettivi che riguarda-no il potenziamento della salute collettiva e il miglioramento delle condizioni ambientali e degli stili di vita collegati alla salute e all'assistenza sanitaria. (M. Kastrup).
Il tipo di ricerca che appare più funzionale alla conoscenza del disagio e alla promozione della salute si orienta oggi verso la costruzione di una rete, di un intreccio di fatti e relazioni ordinati secondo parametri di rilevanza sessuale: decade l'interesse verso una ricerca che rincorra fatti ed eventi della vita quotidiana isolati e separati e non posti in una relazione di dipendenza significativa (si pensi al fatto/esperienza/modello della maternità che orienta e ordina intorno a sé ogni altra esperienza della vita quoti- diana femminile). Il progetto presentato da Rebecca Furher prevede lo studio del rapporto tra disagio psichico e lavoro esterno filtrato attraverso la lettura della rilevanza del lavoro domestico e del ruolo di casalinga. Diversamente dagli studi sul disagio maschile, ove il lavoro salariato è direttamente messo in relazione con il disagio psichico, in questa ricerca, che riguarda le donne, l'analisi del lavoro esterno e delle sue possibilità di indurre disagio sarà mediata dall'analisi e dal rapporto con la vita familiare. " Noi proponiamo di studiare un modello multifattoriale le cui variabili rappresentano alcuni aspetti del contesto professionale e domestico e le caratteristiche personali, che possono influenzare la comparsa di disturbi psichici nelle donne" (Rebecca Furher).
Un altro progetto di ricerca presentato (P. Leonardi ed altre) riguarda lo sviluppo della depressione come modello della sofferenza femminile. In questa ricerca è posto al centro dell'indagine l'analisi degli aspetti compositi del quotidiano femminile: il lavoro, la famiglia (attuale e di origine), il sé, il tempo libero. Per ciascun ambito si procederà all'analisi di comportamenti, atteggiamenti, vissuti. I gruppi campione dell'indagine saranno tre: le utenti dei servizi, un gruppo di donne tratto dalla stessa popolazione cui appartengono le utenti, ed infine un gruppo di donne "consapevoli" dei meccanismi della subordinazione (testimoni privilegiate). Anche in questo programma di ricerca si può cogliere l'intento di superare metodologie che separano uno dall'altro aspetti fondamentali e interrelati della vita delle donne e forniscono quadri confusi o distorti del malessere e delle sue cause.
Che la ricerca sviluppi l'analisi di dati in connessione è anche l'auspicio delle ricercatrici inglesi (J. Popay e altre).
La ricerca sulle connessioni tra malattia e ruoli sociali deve svolgersi su più piani in paralleli: lavoro, responsabilità, aspettative di ruolo, possibilità concrete di adempiere agli obblighi di ruolo, vantaggi ricavabili, ideologie di riferimento collegate al genere, classe sociale e gruppo etnico.
Anche la ricerca sulla dipendenza porta il segno di un mutamento di prospettiva. La dipendenza femminile non è più indagata come struttura caratteriale o psicologica, ma è vista come relazione economica e sociale oltre che affettiva. La dipendenza diviene l'espressione di un rapporto di servizio in cui bisogna definire scopi, risorse, strumenti, obiettivi. La dipendenza si definisce come complessa situazione in cui da un lato la donna viene privata di risorse per raggiungere i propri scopi ed obiettivi (questa mancanza di risorse proprie è giustificata dalla modalità di rapporto che la società ha con la donna: quella di tutela); dall'altro viene posta in una relazione di servizio per cui deve mettere le proprie risorse a disposizione dello sviluppo delle risorse altrui.
Ed ora passiamo ad analizzare le proposte che riguardano l'organizzazione dei Servizi per le donne.
Le proposte sono essenzialmente di due tipi:
- Servizi specialistici per quelle donne che hanno già imboccato la strada della malattia, della costruzione del sintomo, che hanno avuto un percorso psichiatrico;
-
Servizi di base, per donne
con problemi specifici che non hanno sviluppato un'idea ed una pratica di
malattia.
Per il primo tipo di Servizi occorre che le donne sappiano assolvere a tutti i compiti richiesti dall'organizzazione sanitaria del loro paese, cambiando alla radice l'intervento di tipo medico: da restrittivo-normalizzatore a promotivo della ricerca di una più libera identità femminile. E’importante quindi che la ricerca che si svolge nei luoghi tradizionali della psichiatria si leghi sempre di più alla vita quotidiana per sviluppare metodologie di approccio al disagio che individuino nella " crisi psichiatrica " il momento e il luogo di un cambiamento (di atteggiamento, stile di vita, ecc.).
"Al convegno scozzese sulla salute delle donne nel 1983 le donne hanno chiesto servizi specializzati che offrano un aiuto pratico e il sostegno necessario per stabilire delle alternative all'ospedale e alle cure psichiatriche. Le donne chiedono di poter capire il perchè della loro crisi psichica in un ambiente si- curo al quale ci si può appoggiare". (S. Dunbar).
Un accenno al rapporto tra questi Servizi e l'organizzazione attuale dei Servizi di salute mentale in Italia. Essi devono essere costituiti da personale femminile in condizione professionale senza una prevalenza di figure mediche. Dovrebbero essere inseriti nell'ambito delle Unità Sanitarie Locali e dovrebbero accogliere tutta la richiesta di salute delle donne; si dovrebbe trattare quindi di Servizi abilitati all'ascolto della domanda e a fornire le prime risposte di impostazione del problema presentato.
Questi
Servizi dovrebbero essere capaci di effettuare una presa in carico complessiva
dell'utenza femminile, senza delegare ad altri aspetti del trattamento. Servizi
infine che pur gestiti da donne non ripropongano
una sorta di maternalismo: una presa in carico passivizzante in cui la
donna se pur sostenuta non sperimenti le proprie possibilità di crescita ed
autonomia. Servizi, al contrario, che diano la possibilità di riconoscere in un
rapporto donna-donna (utente-donna tecnico) capacità e competenze al femminile,
che abitualmente sono
sconfermate e negate.
In un diverso ambito (non psichiatrico) vanno contemporaneamente sviluppati Servizi di base. Sono Servizi di base quelli che non hanno come specifico obiettivo la cura della malattia ma che si propongono, con lo sviluppo di conoscenze, capacità, interessi e competenze al femminile, di allontanare i rischi di malattia.
Gli interventi hanno proposto un ampliamento di questo tipo di Servizi, che pur facendo parte di una programmazione sanitaria, si rapportano direttamente ai problemi della vita quotidiana delle donne. Heather Hunt che lavora nell'assistenza primaria (primo punto di contatto che la gente ha con il Servizio Sanitario Nazionale) in Inghilterra, ha portato avanti una esperienza di un corso sull'autostima e sull'autoaffermazione per donne con bambini piccoli. In molte esperienze si fa riferimento a gruppi di auto- sostegno che sono promossi dalle donne intorno a specifici problemi: organizzazione del lavoro domestico, organizzazione del lavoro esterno, difficoltà delle relazioni sociali, difficoltà nello sviluppo di capacità e competenze.
Si sono organizzati (Bruxelles) dei corsi di formazione per donne che hanno abbandonato il lavoro esterno in relazione al periodo della maternità e dei figli piccoli. In questi corsi le donne possono riscoprire attitudini, desideri, interessi, accantonati o rnisconosciuti a causa degli impegni assunti in relazione al lavoro familiare.
Gruppi
ed iniziative di sostegno per donne maltrattate: si tratta dell'istituzione di
rifugi per donne che hanno subito
una violenza fisica, sessuale o anche psicologica. In questi luoghi le donne
ricostruiscono la loro identità e
formano una maggiore conoscenza dei meccanismi della violenza in modo da poter
sviluppare migliori strategie di difesa. (Collectif
pour les femmes battues; Liegi, Bruxelles).
E ancora gruppi di sostegno per donne alcooliste: "Molti studi hanno fatto notare che le donne e gli uomini bevono in modo diverso e per motivi diversi, che le conseguenze psicologiche del bere sono diverse e che la società reagisce diversamente dall'alcoolisino maschile e femminile. (L. Doyal)
E gruppi di auto-aiuto " relativi a fasi di transizione della vita della donna o a situazioni specifiche di disagio. I programmi sulla salute per le donne svolti da gruppi volontari in Cile (G. Charnes) prevedono la istituzione di corsi, seminari, gruppi di discussione sui seguenti obiettivi: a. aumentare la capacità di espressione affettiva e di comunicazione delle donne; b. aumentare la capacità di analizzare le situazioni di vita, c. migliorare la propria autoimmagine, d. ridurre il rischio di sintomi e patologie psichi- che.
L'organizzazione di programmi preventivi sulla salute deve tener conto dei rischi frequentemente presenti nella istituzionalizzazione di iniziative delle donne. A questo proposito, l'esperienza del Quebec (M. Bourgon) può essere illuminante: "Accanto ad effetti positivi (la circolazione formale entro le lobbies del potere di un discorso in difesa delle donne che ha portato un certo finanziamento, (sebbene a tutt'oggi insufficiente) si rilevano due effetti negativi nella istituzionalizzazione dell'intervento femminista nel campo della salute mentale. Il proliferare dello specialismo nell'affrontare i problemi e le difficoltà della vita quotidiana in ottemperanza alla programmazione annuale dei finanziamento che prevede per ogni anno un tema centrale di interesse (l'anno della donna picchiata, dell'alcoolista, della de- pressa, ecc.).
Altro effetto è l'uso silenziatore che viene fatto di questo intervento dello stato: "Non vi manca più niente, non potete pretendere altro (voi donne) "; ecc. Così si corre il rischio di proporre una visione frammentata della vita della donna, divisa in parti artificiali; e di giungere a tecniche di intervento molto puntuali (come agire con la donna depressa, picchiata, ecc.) perdendo così di vista i temi generali della subordinazione e dell'oppressione".
Per evitare i rischi di uno specialismo e tecnicismo al femminile è necessario che alle iniziative precedenti dei Servizi specialisti e di base si affianchi un terzo tipo di iniziativa rivolta alle donne. Quest'altra iniziativa è stata portata avanti - nel dibattito - da parte di coloro che si occupano in Italia dei centri di documentazione e associazioni culturali delle donne. (T. Battaglino, S. Conte, N. Crocella, e altre). L'iniziativa dei Centri culturali e di documentazione dovrebbe a nostro avviso affiancare le altre due e viaggiare su binari in cui sia sempre possibile la circolazione e l'interscambio di esperienze. Molto rimane da fare nel campo dell'informazione: è necessario infatti che siano svolti programmi di informazione per le donne nei vari luoghi istituzionali: scuola, posto di lavoro, ecc.; e ancora programmi di informazione che prendano in esame la nocività di funzioni, rapporti, luoghi e rischi relativi a fasce di età, tappe di vita, ecc.
Chiudiamo questa sintesi degli interventi e del dibattito avanzando la proposta di mettere in piedi due programmi comuni su cui verificarsi nel prossimo appuntamento di Oslo:
-
un programma di seminari di formazione e addestramento del personale sanitario
(di base e specialistico) sui temi della differenza sessuale nel campo della
salute mentale e su metodologie di approccio
al disagio.
-
un programma di ricerca sovranazionale e policentrico che abbracci molti dei
temi dibattuti in questi giorni.
Per ciascuno di questi programmi, ogni intervenuta (o gruppo) può stendere
delle proposte concrete o articolare già modalità, campi, strumenti. Per ogni
proposta sarà opportuno che ciascuna prenda collegamenti con i propri Enti
Nazionali per definire possibilità concrete di attuazione dei programmi.
Comunemente questi programmi potranno essere presentati ad organismi anche sovranazionali come I'OMS, la CEE sia per un allargamento delle proposte che per un ampliamento delle partecipazioni.