L'esperienza del Centro prevenzione Salute Mentale
in tema di violenza contro le donne
Ecco alcuni
dati del nostro Servizio sul collegamento tra disagio psichico (principalmente
disturbi dello spettro ansia-depressione) ed il fattore violenza.
Abbiamo
per prima cosa rilevato nelle indagini cliniche che la violenza sessuale non è
mai la prima causa per cui una donna chiede un intervento psicologico-clinico.
Se vi è la richiesta di individuazione di un danno relativo alla violenza, vi
è stato in genere un invio al nostro Servizio da un altro servizio o Centro in
rete che per primo ha accolto la denuncia della donna.
In questo
ambito di collaborazione con il Centro antiviolenza del Comune di Napoli i
casi seguiti insieme nel 2000-01 sono stati:
a) 45
casi di maltrattamento familiare,
b)
2 casi di stupri,
c)
2 casi di abuso su minore,
d)
2 casi di molestie sul lavoro,
e)
3 casi di mobbing.
Le attività
svolte in prevalenza su richiesta della donna e del Servizio inviante (sociale o
sanitario o del Centro antiviolenza) sono state:
-
valutazione psico-diagnostica del danno;
-
relazioni clinico-legali;
-
supporto psicologico;
-
psicoterapia
individuale.
La casistica
generale del nostro Centro non si riferisce solo ai casi di violenza
specificamente individuati ma in massima parte a donne che richiedono un
intervento per problemi della sfera psichica senza alcuna cognizione del
collegamento tra disagio ed eventuali condizioni di violenza[1].
Le due tipiche
forme di violenza che riscontriamo nell'anamnesi e nella
storia delle nostre pazienti sono: la violenza sessuale e le molestie; il
maltrattamento familiare, ovvero la violenza domestica.
Il
maltrattamento familiare è presente nella nostra casistica in modo elevato con
caratteristiche di cronicità in donne adulte di età compresa tra 30 e
50 anni: questa condizione di maltrattamento, quando non costituisce
un'attuale causa di malessere, è generalmente riferita ai primi anni di
matrimonio, al periodo della nascita dei figli ed in definitiva al periodo di
assestamento della vita di coppia.
Ciò che si
evince dalla nostra esperienza è che la violenza dei primi anni di matrimonio o
della vita di coppia segna la donna anche per il futuro agendo come potente
svalorizzatore della immagine personale, ed aumentando la tendenza al
sovraccarico nella vita familiare (ad esempio, fare tutto per evitare scenate,
fare tutto e tacere per evitare che i figli possano soffrire, ecc.). Con il
passare degli anni la violenza del primo periodo di matrimonio si trasforma in
stress e malessere psichico: l'assuefazione agli atteggiamenti svalorizzanti, la
tendenza a reprimere le istanze di ribellione, per bloccare
gli atteggiamenti più virulenti del partner, tutto ciò determina una
situazione depressiva di base, su cui facilmente
prendono piede sintomi psichici di vario genere: dagli attacchi di panico
molto frequenti, ai comportamenti ossessivi
e ripetitivi, all'ansia generalizzata, a stati depressivi di rilevanza
clinica.
Con
questa fenomenologia la violenza domestica si è evidenziata nel 60/70%
della nostra casistica - di 1503 donne
trattate per disturbi psichici dal 1996 al 2000 -
con la seguente differenziazione:
- al 75% come violenza psicologica (atteggiamento svalutativo e
denigratorio continuato del partner maschio) accompagnata da occasionali
violenze fisiche;
-
al 25% come violenza fisica continuata (botte, minacce, riduzione della
liberà di movimento, oppressione economica).
In questa
percentuale di casi di maltrattamento è da inserire negli ultimi due anni anche
una specifica condizione che riguarda donne più giovani di età compresa tra i
20-30 anni, nubili con un partner svalorizzante e denigratorio.
Questa
condizione specifica che si caratterizza sul piano clinico come dipendenza
psicologica dal partner è di grande valore euristico in quanto illumina i
meccanismi ed i processi della tolleranza alla violenza da parte della donna ed
i meccanismi di imposizione da
parte del maschio.
Nella scheda
seguente è rappresentata la dinamica di dipendenza dove si inscrive la
tolleranza alla violenza che tipicamente abbiamo riscontrato in queste giovani
donne
(scheda 1).
In
questi casi la dinamica della violenza psicologica esercitata dai maschi è così
caratterizzata:
-
in una prima fase del rapporto, ipervalutare l'altra e nello stesso tempo
sottoporla ad una pressione psicologica veicolata dalla gelosia del possesso
(non fare, non vedere, non uscire, ecc.) ;
-
in una seconda fase, rivendicare
la propria autonomia e mostrare indifferenza ai bisogni dell'altra (che intanto
ha rinunciato ai suoi bisogni, isolandosi dal contesto amicale), sottoponendola
a vessazioni e disconoscimenti di ogni tipo senza però giungere ad una rottura
del rapporto;
-
in una terza fase in cui la giovane donna, da sola o attraverso un aiuto
tecnico esterno, comincia a lavorare su di sè per riconquistare la propria
autonomia dal partner, ecco che l'altro ritorna adorante e bisognoso di amore.
Questa
dinamica è con alcune variazioni simile a quella descritta nel ciclo della
violenza dei coniugi maltrattanti: "botte, svalorizzazioni (ovvero violenze
di ogni tipo) e poi pentimenti".
L'intervento
di un servizio sanitario in queste situazioni non deve ovviamente giungere a
trattamenti farmacologici, considerando questa condizione come patologica, ma al
tempo stesso deve fornire strumenti di lettura e di azione congrui all'uscita
dal circuito della violenza-dipendenza ed al superamento del malessere.
Questi
strumenti nella nostra esperienza possono essere sintetizzati nel modo seguente:
-
disassuefazione dalla dipendenza di coppia e riconoscimento della
violenza esercitata;
-
valutazione della dipendenza come effetto dell'isolamento e quindi come
condizione revocabile e modificabile (e non struttura patologica di personalità);
-
mantenimento della distanza dall'altro per un periodo di tempo, recupero
di altri rapporti amicali e di interessi personali;
-
destrutturazione di modelli di dipendenza genitoriali e rivisitazione
anche del comportamento materno per
acquisire strumenti preventivi adatti a riconoscere ed evitare i rapporti di
oppressione.
Un'altra tipica
situazione della nostra casistica si riferisce a donne adulte che riscoprono un
evento di violenza subita nella loro storia di vita ed in particolare nella fase
infantile-adolescenziale.
La scoperta
dell'abuso e della violenza sessuale
è generalmente un evento legato alla sfera familiare: il padre, il nonno, il
fratello. Nelle donne adulte è un fatto accantonato che viene alla luce in una
riflessione con il tecnico sui
propri modi di tollerare i comportamenti impositivi e violenti degli altri.
L'abuso
infantile e la violenza adolescenziale non riconosciuti
o accantonati sono, nella donna adulta,
fattori di rischio per una relazione coniugale violenta e maltrattante
(aumento della soglia di tolleranza alla violenza)[2];
essi sono anche responsabili della maggiore severità dei sintomi psichici
(depressivi in particolare). Nella nostra casistica di donne che chiedono aiuto
per una sintomatologia psichica nell'età adulta, una percentuale rilevante di
casi (circa il 30%) rivela una condizione pregressa di maltrattamento personale
o abuso; più frequentemente accade che le donne riferiscano come propria
sofferenza infantile e pre-adolescenziale i maltrattamenti subiti dalla madre ad
opera del partner. In questi casi si evince anche un ruolo attivo di supporto o
di difesa giocato dalla parte della madre.
In generale si
è avuto modo di constatare che un impatto precoce con il problema della
violenza (diretta o indiretta) tende ad aumentare la soglia di tolleranza verso
la stessa.
In altri casi,
che riguardano le adolescenti, la violenza sessuale e l'abuso infantile hanno ancora un valore dirompente, perchè
essi sono più vicini temporalmente al
compimento del fatto: mantengono così tutte le caratteristiche psicologiche del
presente. Spesso in questi casi si richiede anche un intervento di tipo legale a
carico degli operatori del servizio.
Il lavoro con
l'adolescente in questo caso è molto delicato perchè l'operatore si trova in
presenza di un segreto, oppure di qualcosa rivelata alla famiglia e da questa
messa sotto silenzio. In qualche caso, è stato necessario vicariare nell'azione
legale i genitori che non volevano procedere con una denuncia contro un loro
congiunto. Ciò che gli operatori devono valutare è il peso che per la ragazza
può avere il silenzio e la mancanza di solidarietà da parte del mondo degli
adulti insieme alla mancanza di una condanna morale e/o penale del fatto. Ancor
più di una donna adulta, la ragazza nella fase dello sviluppo, deve essere
protetta dai sensi di colpa che la possano assalire, inoltre è ancora più
vitale in questa fase "azzerare" le responsabilità di un'adolescente
rispetto a quelle di un adulto autore della violenza. In appendice nella scheda
2 è analizzato il caso di un'adolescente abusata dal nonno fin dall'età di
quattro anni insieme alla prima fase dell'intervento di riconoscimento della
violenza attuato dal nostro servizio. La seconda fase dell'intervento non sarà
discussa in questa sede perchè attiene ad un intervento specialistico e potrà
essere oggetto di discussione in successivi incontri.
Il problema del
riconoscere un ruolo di vittima,
non solo all'adolescente ma anche alla donna adulta, è molto importante e molto dibattuto in varie sedi sia
legali che sanitarie.
Nella nostra
esperienza abbiamo imparato che è fondamentale il riconoscere la donna come
vittima rispetto ad eventi di violenza maschile.
Il
riconoscimento della violenza significa che la donna ha patito una ingiustizia e
questo è sempre vero. L'affermazione di essere vittima è l'affermazione di un
diritto leso, di una ingiustizia patita. Questa percezione deve essere sempre
fortemente sostenuta dagli operatori nell'approccio con la donna anche contro la
stessa percezione della vittima di avere in qualche modo contribuito
all'accadimento. A questo proposito non dimentichiamo che il contesto sociale è
sempre pronto infatti a considerare naturale certe spinte istintive nell'uomo[3],
e per converso a considerare la donna responsabile del proprio comportamento
"provocatorio" rispetto alla violenza maschile, interpretata come
reazione più o meno comprensibile più o meno giustificabile. Nelle aule di
tribunale sono considerate colpe della vittima : il sorriso, l'abito corto,
uscire sola, uscire di sera, il non svolgere con attenzione i propri compiti di
moglie e di madre, ecc.
La percezione di vittima, indispensabile si è detto per sostenere il
vissuto di danno ingiusto e di incolpevolezza, porta con sè un fardello ed un
nuovo peso, di cui l'operatore in una seconda e diversa fase del suo intervento
deve tenere conto.
Nella nostra esperienza abbiamo avuti casi, in cui la donna ha costruito
una identità su questo ruolo di vittima, creando altri tipi di
malessere relativi alla propria (o altrui) libertà di ri-progettarsi e
di fare altre esperienze.
In appendice (scheda 3)
presentiamo il caso di una giovane ragazza imprigionata nel ruolo di colei che
deve svolgere la funzione di "testimone" della violenza subita dalla
sorella per sostenere in quest'ultima l'eterno vissuto di colei che "fu
vittima". In questo caso ciò che determina il profondo malessere di Giulia
è la sua non libertà di scelta, condizionata dal fatto che la sorella le
chiede di essere solidale rispetto ad un presunto grave torto da lei subito.
L'intervento punta a liberare Giulia da questo fardello dando un'altra
interpretazione dell'evento di cui la ragazza dovrebbe essere testimone
(l'evento presentato è la relazione tra fratello e sorella che viene
riconsiderato alla luce dei fatti come incesto e non come più come stupro).
E' necessario, e questo attiene in particolare ai servizi specialistici
psicologici e psichiatrici, attrezzarsi per affrontare successivamente con la
donna un percorso di uscita dalla immagine soggettiva di vittima. Questa
immagine se pur necessaria nel riconoscimento sociale che giudica i fatti di
violenza, va a sua volta superata, per lasciare spazio ad un nuovo progetto ed
al cambiamento.
Questo superamento è bene sottolinearlo, perchè non ingeneri
confusioni nell'operatore sanitario, attiene solo al percorso soggettivo e
psicologico della donna e non al contesto sociale e giuridico per il quale deve
essere sempre ben visibile il criterio distintivo tra vittima, colei che ha
patito una ingiustizia, e l'autore della violenza, colui che ha violato il
diritto di un'altra persona, qulasiasi siano state le circostanze.
L'evento della violenza, cambia la vita di una persona, sapere di aver
subito un torto è importante, che gli altri condividano tale percezione è
importante, ma non è sufficiente nei tempi
lunghi.
La vita può cambiare, si perde o si cambia un legame, un marito, un
genitore; un equilibrio può saltare: occorre aiutare la donna a ricomporre un
altro mosaico della sua vita, per quanto possibile più favorevole del primo al
proprio benessere psico-fisico, o tutto (compresa la sofferenza) sarà stato
inutile. Il tecnico deve essere preparato ad affrontare in via iniziale questo
problema del cambiamento, la gestione del cambiamento poi spetta alla donna e ad
una rete di supporto intorno a lei.
La violenza,
ripetiamo, deve prima essere ridotta ad evento subito di cui non si porta una
responsabilità soggettiva (l'affermazione del ruolo di vittima), poi si deve
trasformare (non disconoscerla) perchè essa divenga l'occasione per un progetto
di miglioramento complessivo della propria condizione di vita .
Sintetizziamo in alcuni punti le linee di un intervento appropriato nella violenza che è sia riconoscitivo del ruolo di vittima della donna, sia promotivo di un cambiamento di vita:
·
affermare
e attestare la violenza sempre come un diritto violato;
·
valutare
tutte le reazioni della vittima come le uniche possibili in quel contesto, non
cercare mai di innestare nella vittima il dubbio, già per altro suo e facente
parte del malessere, che vi sia
stata una qualche partecipazione e condivisione di responsabilità;
·
valutare
la presenza ed il peso dei sensi di colpa nella donna attraverso le reazioni degli altri, le colpevolizzazioni e
l’isolamento;
·
valutare
tutte le connessioni della violenza con il disagio presentato attraverso
l’analisi ad ampio raggio degli effetti sulla vita quotiodiana:
-
l’aggravio delle condizioni di vita (aumento di lavoro e responsabilità,
aumento dei tempi di lavoro, riduzione dei tempi di riposo, riduzione degli
appoggi esterni),
-
la riduzione della stima degli altri, dei giudizi positivi, con un
decremento dell’immagine positiva di sé,
-
la perdita di rapporti affettivi significativi;
·
intervenire
per una modifica di rapporto con il contesto che ha espresso reazioni negative
contro la donna-vittima:
-
ricercare ed attivare risorse interne ed esterne rispetto alla persona
oggetto della violenza,
-
puntare ad un ampliamento del contesto ed ad una modifica dello stile di vita in modo da riuscire a ribaltare
quell’insieme di condizioni negative funzionali alla formazione di un disagio
psichico;
·
supportare
la donna nell’azione e nel percorso della denuncia, ed in tutte le opzioni
pratiche, in collegamento con le altre istituzioni anti-violenza presenti sul
territorio;
· supportare la donna in un nuovo progetto che non neghi la violenza ma che la faccia divenire occasione di un cambiamento di vita più complessivo.
Vogliamo
qui proporre la lettura di due casi di violenza
dai quali è possibile evidenziare sia i due percorsi attuati dal nostro
servizio: a. di solidarietà con la vittima e di riconoscimento della lesione
del diritto subita; b. di promozione del cambiamento nella realtà in cui si è
verificato l'evento della violenza.
Le
caratteristiche di questi due casi
sono:
-
la violenza come evento precisamente individuabile;
-
la prima reazione della vittima di contrasto alla violenza oppure di
negazione della violenza,
-
una reazione disconoscitiva del contesto ed una conseguente
sintomatologia di tipo depressivo (ansia, insicurezza, demotivazione, chiusura,
ecc.).
L'emergere del
disagio come sintomo psichico è collegato in questi casi ad una reazione da
parte del contesto di mancata solidarietà con una successiva valutazione da
parte della donna del proprio comportamento come colpevole e defettuale.
In questi
casi, fallito il tentativo di una risoluzione in proprio del problema, la
violenza subita viene accantonata ed il malessere che segue è percepito non in
relazione all’evento “violenza”. La donna presenta quindi al tecnico un
problema ritenuto soggettivamente come scollegato dalla situazione di violenza.
La violenza è così isolata ed accantonata rispetto alla coscienza del
malessere ed essa è attribuita a qualche altra causa da determinare con
l’aiuto del tecnico (processo di separazione e scissione della violenza dal
contesto dove si è prodotta e attribuzione di responsabilità a se stessa
incapace di reazione attiva, e di fronteggiamento adeguato).
I
casi di Maria e Anna (
schede
4 e 5) si riferiscono agli ambiti della violenza extra-familiare e
lavorativa e delle sue ricadute su un contesto familiare colpevolizzante ed
isolante. Essi saranno affrontati evidenziando:
- da un lato la
storia di violenza così come risulta dall’attenzione che un tecnico dà ai
meccanismi di nascondimento della violenza e alla lettura della storia di vita
quotidiana;
- dall’altro
lato la metodologia di intervento finalizzato al corretto inquadramento dei
nessi disagio-violenza e alla mobilizzazione di risorse e capacità di reazione
che puntano al recupero di energie dalla
sfera del "per altri" alla
sfera del “per sé”.[4]
- Riconoscere
ed attestare la violenza al di là del sentimento di colpa: il comportamento
di Maria è comprensibile data la situazione di partenza; la fantasia è
l'estremo tentativo di non viverla, trasformarla nel suo contrario. Ma tutto ciò
(la cena, il cameratismo, la fantasia, non aver gridato) non cambia di una
virgola la realtà della violenza e della sua posizione di vittima.
- Dare
valore all’azione della denuncia: essa fornisce una chiara
rappresentazione non solo soggettiva ma anche sociale di chi è stata la vittima
e di chi gli autori. Nella denuncia il Servizio
supporta la donna e mette a sua disposizione una relazione (strumento
valido sul piano tecnico-giuridico) in
cui si specifica e si indica il contesto di fiducia e di amicalità come
aggravante della violenza, ed il comportamento della vittima, apparentemente
passivo, come reazione appropriata e finalizzata a non procurarsi ulteriore
danno (fisico nella paura di essere malmenata, psichico nella paura di essere un
oggetto espropriato del proprio
desiderio e della propria volontà).
-
Rileggere
al di là dell’episodio di violenza, il rapporto con il partner abituale
individuando anche lì le violenze di tipo psicologico, fino ad allora non
percepite, e aiutando la donna a vivere l’abbandono e l’isolamento come
prodotto di una idea di possesso già a lungo subita, in nome di un malinteso
rapporto d'amore, e non oltre tollerabile.
- Analizzare
gli effetti della violenza nel contesto di vita della vittima. Isolamento,
perdita di supporti e aggravio di
responsabilità e carichi di lavoro familiari: la non solidarietà dei colleghi
apre il problema di un ulteriore carico di lavoro, in assenza di un partner
cooperante.
-
Rileggere il quotidiano come
sovraccaricante: tutto è sulle spalle
della donna e non le consente spazi per coltivare rapporti amicali ed interessi
al di fuori del contesto di lavoro familiare ed extra-familiare.
-
Collegare il malessere con la
organizzazione della vita quotidiana: dall’isolamento sul lavoro,
all’isolamento in famiglia (lasciata sola con tutte le responsabilità).
-
Ristrutturare un altro tipo di
stile di vita più appropriato ai bisogni di espressione personale: Anna
viene aiutata a ridurre la pressione familiare (minor carichi e diversa
impostazione con il marito, riconoscimento dei limiti delle proprie capacità
senza per questo parlare di fallimento personale) e ad aumentare gli spazi di
socialità alternativi al lavoro e alla casa.
-
Rinforzare il punto di vista
della donna sulla violenza subita nell’ambiente di lavoro in una situazione
personale di minore ricattabilità affettiva (paura della perdita di supporti e
punti di riferimento). il Servizio sostiene
Anna che denuncia il
comportamento del collega violento all'interno della scuola, superando i
“consigli” della preside, e in
conseguenza di ciò, ritrovando una rinnovata stima da parte dei colleghi.
Le schede cliniche di alcuni casi di violenza trattati dal Centro
[1] Ogni anno si rivolgono, per la prima volta al nostro Centro, circa 250-300 donne di età prevalente compresa tra 15-44 anni
[2] Come esemplificazione ci si può riferire anche al caso di Lucia, evidenziato in appendice nella scheda 6.
[3] Non dimentichiamoci della sentenza di Cassazione che riguardava un noto caso di tentato stupro da parte di un professore universitario nei confronti dell'allieva. In quel caso la sentenza parlò di impulso non più frenabile una volta messo in moto in un iniziale rapporto amoroso. Si trattava di una giovane ragazza che in un primo momento, lusingata dalle attenzione del maturo professore, accettò qualche bacio, ma poi mostrò una chiara volontà di non andare oltre, mentre l'altro esercitava a quel punto la violenza fisica per imporre l'atto sessuale.
[4] Reale E. et al., (1988), Manuale di intervento sul disagio psichico della donna, Progetto Finalizzato Medicina Preventiva e Riabilitativa, Consiglio Nazionale delle Ricerche, Roma.