CENTRO PREVENZIONE SALUTE MENTALE DONNA

Responsabile: dr. Elvira Reale

 

 

 

 

Storia del Servizio

 CNR, 1982 Malattia mentale e ruolo della donna 

CNR,  1987 Manuale per l'intervento sul disagio psichico della donna   

    CNR, 1988        Seminario Internazionale

    CNR, 1991-97  il progetto FATMA

 

  

 

 

Storia del Servizio

L'esperienza manicomiale               L'esperienza territoriale    

La nascita di un Servizio specifico 

per la salute mentale delle donne

La metodologia del Servizio nella prima fase (1978-82)

L'organizzazione del Servizio negli ultimi anni 1996-2000: 

la nascita del Centro Prevenzione Salute Mentale Donna

 

 

1. L'esperienza manicomiale

Il Servizio donne è nato all'interno del manicomio nel 1977.

L'analisi iniziata nel manicomio ha posto l'obiettivo della creazione di un servizio territoriale di salute mentale gestito da tecnici-donne per sviluppare una specifica situazione di ascolto del disagio femminile. 

Nel manicomio infatti erano apparse evidenti le differenze nelle procedure di ammissione e nel trattamento istituzionale di uomini e donne.

Per quanto riguarda le modalità del ricovero era chiaro nella maggioranza dei casi che il processo di internamento scattava nel momento in cui la sofferenza di una donna metteva in crisi il suo ruolo sociale nella doppia specificità di ruolo sessuale ( rottura della monogamia, vagabondaggio sessuale oppure allontanamento dalla famiglia) e di ruolo lavorativo domestico (incapacità a curare la casa ed i rapporti familiari).

Sul piano del trattamento, là dove i nuovi portati del movimento psichiatrico alternativo si riferivano alla necessità di ridare agli internati spazi di libertà, le donne venivano mantenute in situazione di costrizione, miranti a evitare la promiscuità.

L'esperienza di questi due anni di lavoro in manicomio (77-78) è stata già descritta (Fogli di informazione 54-55  numero monografíco su "Donna e Follia"); ci interessa comunque riportare qui di seguito alcuni elementi di quella pratica, ed alcune riflessioni che riteniamo siano ancora oggi il fondamento dell'attuale pratica di lavoro territoriale.

Alla fine del '77 la situazione del reparto donne nell'Ospedale psichiatrico Frullone di Napoli era tale da farlo considerare a ragione il più arretrato dell'ospedale. Nel mese di maggio del '77 una decisione unitaria dell'équipe ospedaliera aveva reso più difficilmente praticabile la via dell'alternativa per il nostro reparto: veniva cioé deciso di aprire un secondo reparto di donne non su base territoriale (mentre già tutto l'ospedale era stato territorializzato), ma seguendo il criterio della non pericolosità sociale (nella donna il concetto di pericolosità si lega a quello di sessualità attiva). In questo secondo reparto venivano fatte confluire in maggioranza donne anziane, o che comunque non presentavano problemi legati al bisogno di esprimere la propria sessualità.

Nel nostro reparto la pratica delle operatrici si è indirizzata verso la trasformazione in un duplice senso: da un lato nel creare una corrispondenza territoriale, adoperandosi per la costituzione di servizi extra-ospedalieri; dall'altro, nel modificare il tipo di vita all'interno dell'istituzione. Il lavoro di collegamento con il territorio è stato condotto in due direzioni: verso Traiano, Soccavo, Fuorigrotta, Bagnoli e verso il territorio di Giugliano che all'epoca aveva nel reparto un gruppo di pazienti. Sul piano interno si è proceduto ad un lavoro di deistituzionalizzazione legato ad un punto di vista specifico sulla condizione delle donne. «Assumere un tale punto di vista ha comportato come prime conseguenze operative: come primo passo rispetto alla precedente gestione, costituzione di una équipe di donne con un orientamento prioritario verso il trattamento psico-sociale e secondario verso il trattamento medico-farmacologico.

In un'ottica di recupero degli spazi personali da parte delle donne ricoverate si è ristrutturata la gestione del reparto ampliando man mano la possibilità per le donne di autonomia, libera circolazione e libera espressione di sé e dei propri bisogni.

Far esprimere la propria follia a donne ricoverate in un reparto manicomiale, non ha mai significato per il gruppo di operatrici avallare una situazione di emarginazione della donna che è per essa sofferenza: come espressione della propria follia si è sempre inteso al contrario dare voce a questa sofferenza collegandola alle storie individuali di ciascuna donna a partire da quelle contraddizioni che ogni donna vive all'interno del proprio gruppo familiare e sociale.

E parlare di liberazione per la donna ricoverata, nel senso i riappropriazione dei più piccoli spazi decisionali, ha significato imbattersi immediatamente col problema più generale della autonoma gestione della sessualità. Le 80 pazienti del nostro reparto erano, indipendentemente dal tipo di ammissione in Ospedale Psichiatrico (volontario o coatto), sostanzialmente ricoverate in modo coattivo; la consapevolezza che la privazione di libertà di queste donne non era chiaramente funzionale al superamento del loro star male è stato il primo passo che ha determinato la aggregazione delle operatrici e poi delle infermiere intorno ad un lavoro antiistituzionale specifico per le donne.

Da questa consapevolezza è emersa un'analisi dei motivi che sono alla base del ricovero per la donna e il tipo di funzione repressiva specifica che l'istituzione manicomiale esercita su di esse In particolare si è presa coscienza complessivamente dei fatto che dietro ogni ricovero in manicomio c'è una storia di oppressione: le donne colpite da una contraddizione tra ruolo sociale e istituzionale e propri bisogni di autoaffermazione - bisogni cui, per la propria collocazione subordinata, non riescono a dare risposte organizzate in positivo - vi rimangono invischiate fino all'estrema soluzione di un ricovero manicomiale «auto o etero-imposto». 

Ciò che rispetto alla genesi del ricovero manicomiale si è fatto è stato quello di rifiutare un mandato da parte delle famiglie delle ricoverate; di rifiutare cioè la delega alla tutela della sessualità delle pazienti, con il compito di reintegrazione nel ruolo primitivo.

Si è quindi interrotta con forza una pratica medico-psichiatrica custodialistica che identificava il trattamento terapeutico di una paziente nella sorveglianza - regolamentazione della sua sessualità - e, a partire da questo, in una privazione della sua libertà.

L'intervento delle operatrici si è svolto scontrandosi con le regole dell'istituzione manicomiale e di quella familiare in favore dell'affermazione dell'autonomia delle pazienti.

Il processo di autonomizzazione, a partire dal rifiuto della delega a custodire la sessualità delle pazienti, è stato segnato da due tappe fondamentali: una sul piano delle acquisizioni personali e presa di coscienza da parte di ciascuna paziente, l'altra sul piano delle alternative di vita al manicomio.

Per il primo punto si è portato avanti il lavoro di riabilitazione, mirando a far riappropriare le pazienti di tutte le loro funzioni espropriate dal manicomio, restituendo loro tutti gli oggetti e gli strumenti della vita quotidiana da gestire e utilizzare in proprio senza mediazioni. Si è poi aperto il reparto all'esterno estendendo gradualmente il permesso di uscita. In questo modo si è arrivati all'apertura totale del reparto attraverso una fase di mediazione che ha visto in un primo tempo una demarcazione tra pazienti in grado di autogestirsi e uscire da sole, e pazienti non ancora autonomizzate. Successivamente, in direzione di un superamento dell'atteggiamento protettivo nei confronti delle pazienti, e nel corso dell'affermazione di una gestione antiistituzionale si è giunti all'uscita di tutte le pazienti dal reparto, come momento centrale della possibilità di sviluppo per ciascuna, indipendentemente dalle ragioni della loro presenza in manicomio, delle proprie capacità di autonomia e di autodeterminazione.

L'estensione a tutte le pazienti del diritto di uscita dal reparto, e in questo senso la trasformazione sostanziale del reparto manicomiale, ha comportato momenti di incontro-scontro con le famiglie delle ricoverate. Come questo processo di liberalizzazione del reparto abbia avuto significati specifici per ognuna delle pazienti, al di là anche dell'intervento diretto delle operatrici, lo si individua in una serie di episodi in cui le pazienti direttamente hanno gestito le fasi della propria dimissione, trovando con le proprie forze alternative al manicomio.

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2. L'esperienza territoriale

La prima cosa da dire è che l'esperienza sul territorio nasce come continuità storica da quella manicomiale. E' all'interno dei manicomio che ci si è poste, già prima della legge N. 180 del 1978, l'esigenza di creare dei collegamenti con l'esterno. In un primo momento i collegamenti sono stati però realizzati in maniera che si è poi rilevata riduttiva: si partiva dall'esigenza delle ricoverate e si cercava di coinvolgere e portar dentro altre donne. Le donne che entravano in manicomio erano infatti donne sensibilizzate al problema, che vivevano comunque il rapporto con le ricoverate mediato dalla immagine culturale della follia. In effetti il manicomio era il luogo di osservazione meno adatto per cogliere lí, nella follia femminile, gli elementi di abitualità che sostanziano la condizione di sofferenza della donna. 

Il manicomio rendeva quelle donne diverse dalle altre: appare oggi chiaro che questo effetto di estraneità della follia delle ricoverate era un portato dell'ottica deformante dell'istituzione. Anche se il vissuto di estraneità era molto forte si è lo stesso tentato in qualche modo di metterlo tra parentesi nella convinzione, allora ancora oscura o solo di principio, che non vi dovessero essere sostanziali differenze tra donne nel modo di esperire il «disagio psichico». Inoltre si era convinte del fatto che le differenze economiche e culturali potevano essere solo un fattore di maggiore debolezza e svantaggio sociale, soprattutto quando comportavano il ricorso al ricovero manicomiale. Ciò era chiaro anche nelle nostre pazienti: il manicomio rappresentava 1a soluzione più primitiva rispetto al ricorso ai medici, alle cliniche e ai farmaci, e colpiva le classi economicamente meno abbienti.

Su questa linea l'intervento è stato caratterizzato da una focalizzazione dell'impegno sulle condizioni di vita delle donne all'interno del reparto. Poco invece si è operato sulla ricostruzione dì una genesi del disagio, e sulla individuazione di un carico di oppressione specifico che ciascuna donna poteva rivelare in quanto «donna». L'istituzione con i suoi carichi di oppressione generalizzata e aggiuntiva non rendeva possibile questo tipo di analisi.

Ma proprio dal manicomio iniziava la lettura dell'esistenza di un ruolo specifico che teneva la donna - anche nella istituzione - maggiormente assoggettata. L'analisi del ruolo era centrata sugli aspetti della sessualità; e l'oppressione era essenzialmente vista come privazione di una libertà sessuale. Siamo qui ancora in presenza di affermazioni di principio o generiche, mentre è solo sul territorio che inizia un'analisi approfondita e pratica di questa realtà. Anche l'analisi della follia era rispetto a quella odierna imprecisata e maggiormente ideologizzata, ma anche - a volte e per certi aspetti - divergente. La follia, anche se non era considerata espressione di libertà, era però vista come rottura di un ruolo. Non era ancora emersa con chiarezza una posizione che precisasse quanto la follia sia solo potenziale momento di rottura, ma come quasi sempre realizzi in concreto un ulteriore ingabbiamento e perdita di sé per la donna.

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3. La nascita del Servizio specifico per la salute mentale della donna.

Da queste considerazioni si è partite nel corso del 1978 con la creazione sul territorio di un Servizio per la salute mentale delle donne, all'interno del Servizio di Salute Mentale.

La pratica svolta in questo servizio, finalizzato esclusivamente all'ascolto ed all'intervento sul disagio femminile, ha comportato come suo effetto e necessità interna l'elaborazione di un nuovo approccio teorico al disagio femminile.

Dall'ascolto del disagio delle donne utenti si è andata sviluppando una prima riflessione sui dati emergenti; si è visto cioè che la sintomatologia e i problemi delle donne erano collegati a specifiche condizioni di esistenza così individuate:

- condizione lavorativa domestica ed extra-domestica;

- condizione sessuale.

I dati emergenti riguardo la prima condizione evidenziano che i tempi, i modi e i ritmi del lavoro erano tali da configurare un'attività lavorativa di tipo continuo. Il lavoro esterno, quando si è dato in alcuni casi, si configurava come prolungamento della giornata lavorativa domestica (una elevata percentuale di pazienti ha presentato come sintomo l'impossibilità a fare i servizi di casa, a curare i figli, a fare la spesa, ad uscire di casa; oppure l'estrema applicazione al lavoro domestico come inevitabilità di questo).

I dati emergenti riguardo la seconda condizione evidenziavano una restrizione della sfera personale di libertà imposta dall'ambiente, e definita come restrizione in base alle differenze sessuali (una elevata percentuale di pazienti ha presentato come disturbo la non possibilità di uscire da sola di casa, l'abbandono del lavoro esterno dopo il matrimonio, ecc.).

 

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4. la metodologia del Servizio per la salute mentale della donna  nella sua prima fase (1978-1982)

 

L'intervento del Servizio si è mosso secondo due linee complementari:

il tentativo di ricerca da parte dell'utente stessa, soggetto della sua storia, delle radici della propria oppressione come origine dei suo star male: tentativo che non può mai prescindere dalle attuali potenzialità e possibilità concrete di vita della donna;

  • il tentativo di definire lo spazio di una operatività che sia sempre capace di esprimere una posizione tecnica «dalla parte della donna». Il che significa porre la donna come il centro del Servizio, e mantenere fermo, come punto di vista rispetto ad altri elementi relazionali della vita della donna (coppia, famiglia) la situazione di op- pressione della donna che sempre si dà, quali ne siano le rappresentazioni date dall'esterno.

Tutto ciò ha comportato la necessità di 

a.,analizzare la storia della donna come processo di strutturazione di un ruolo precodificato, le cui tappe sono comunque attraversate - nel duplice senso diacronico e sincronico - dalla polarità autonomia - dipendenza;

b. analizzare l'attuale star male come elemento sintomatico di una situazione di insostenibilità, sottolineando il modo e lo spessore di una divaricazione tra il proprio ruolo  - nelle sue varie articolazioni pratiche, vissuto come parte non integrata del sé, ma sempre avente una validità come immagine sociale interiorizzata (dover essere) - e propria condizione di sofferenza. (è tipica la frase: «Dovrei fare i servizi di casa, accudire i figli ecc., ma non ci riesco più, sto male »);

c. porsi, nei confronti di questo vissuto di scollamento che la donna presenta, in modo tale da non dar risposte generiche o ideologizzanti. Ciò che si è individuato come atteggiamento corretto del Servizio Donne  è l'assunzione di una  funzione  di stimolo o di ricerca di una possibilità di trasformazione degli aspetti di oppressione del ruolo  incidenti sulla condizione di malessere della donna.

Il riconoscimento della soggettività della donna risulta quindi essere complessivamente il punto fondamentale dell'intervento; ed il Servizio Donne al suo nascere si è caratterizzato quindi come «spazio della donna per sé».

Riteniamo tale spazio come il punto di partenza del processo di riappropriazione del  benessere individuale: infatti in esso la donna inizia a scoprire la possibilità della esistenza di bisogni e desideri propri, laddove finora tutto questo si era sempre configurato come un suo «essere per o al servizio dei bisogni altrui».