Storia del
Servizio
L'esperienza
manicomiale
L'esperienza territoriale
La
nascita di un Servizio specifico
per
la salute mentale delle donne
La
metodologia del Servizio nella prima fase (1978-82)
L'organizzazione
del Servizio negli ultimi anni 1996-2000:
la
nascita del Centro Prevenzione Salute Mentale Donna
1. L'esperienza manicomiale
Il Servizio donne è nato all'interno del manicomio nel 1977.
L'analisi iniziata nel manicomio ha posto l'obiettivo della
creazione di un servizio territoriale di salute mentale gestito da tecnici-donne
per sviluppare una specifica situazione di ascolto del
disagio femminile.
Nel manicomio infatti erano apparse evidenti le differenze
nelle procedure di ammissione e nel trattamento istituzionale di uomini e donne.
Per quanto riguarda le modalità del ricovero era chiaro
nella maggioranza dei casi che il processo di internamento scattava nel momento
in cui la sofferenza di una donna metteva in crisi il suo ruolo sociale nella
doppia specificità di ruolo sessuale ( rottura della monogamia, vagabondaggio
sessuale oppure allontanamento dalla famiglia) e di ruolo lavorativo domestico
(incapacità a curare la casa ed i rapporti familiari).
Sul piano del trattamento, là dove i nuovi portati del
movimento psichiatrico alternativo si riferivano alla necessità di ridare agli
internati spazi di libertà, le donne venivano mantenute in situazione di
costrizione, miranti a evitare la promiscuità.
L'esperienza di questi due anni di lavoro in manicomio
(77-78) è stata già descritta (Fogli di informazione 54-55 numero
monografíco su "Donna e Follia"); ci interessa comunque riportare qui
di seguito alcuni elementi di quella pratica, ed alcune riflessioni che
riteniamo siano ancora oggi il fondamento dell'attuale pratica di lavoro
territoriale.
Alla fine del '77 la situazione del reparto donne
nell'Ospedale psichiatrico Frullone di Napoli era tale da
farlo considerare a ragione il più arretrato dell'ospedale. Nel mese di maggio
del '77 una decisione unitaria dell'équipe ospedaliera aveva reso più
difficilmente praticabile la via dell'alternativa per il nostro reparto: veniva
cioé deciso di aprire un secondo reparto di donne non su base territoriale
(mentre già tutto l'ospedale era stato territorializzato), ma seguendo il
criterio della non pericolosità sociale (nella donna il concetto di
pericolosità si lega a quello di sessualità attiva). In questo secondo reparto
venivano fatte confluire in maggioranza donne anziane, o che comunque non
presentavano problemi legati al bisogno di esprimere la propria sessualità.
Nel nostro reparto la pratica delle operatrici si è
indirizzata verso la trasformazione in un duplice senso: da un lato nel creare
una corrispondenza territoriale, adoperandosi per la costituzione di servizi
extra-ospedalieri; dall'altro, nel modificare il tipo di vita all'interno
dell'istituzione. Il lavoro di collegamento con il territorio è stato condotto
in due direzioni: verso Traiano, Soccavo, Fuorigrotta, Bagnoli e verso il
territorio di Giugliano che all'epoca aveva nel reparto un gruppo di pazienti.
Sul piano interno si è proceduto ad un lavoro di deistituzionalizzazione legato
ad un punto di vista specifico sulla condizione delle donne. «Assumere un tale
punto di vista ha comportato come prime conseguenze operative: come primo passo
rispetto alla precedente gestione, costituzione di una équipe di donne con un
orientamento prioritario verso il trattamento psico-sociale e secondario verso
il trattamento medico-farmacologico.
In un'ottica di recupero degli spazi personali da parte delle
donne ricoverate si è ristrutturata la gestione del reparto ampliando man mano
la possibilità per le donne di autonomia, libera circolazione e libera
espressione di sé e dei propri bisogni.
Far esprimere la propria follia a donne ricoverate in un
reparto manicomiale, non ha mai significato per il gruppo di operatrici avallare
una situazione di emarginazione della donna che è per essa sofferenza: come
espressione della propria follia si è sempre inteso al contrario dare voce a
questa sofferenza collegandola alle storie individuali di ciascuna donna a
partire da quelle contraddizioni che ogni donna vive all'interno del proprio
gruppo familiare e sociale.
E parlare di liberazione per la donna ricoverata, nel senso i
riappropriazione dei più piccoli spazi decisionali, ha significato imbattersi
immediatamente col problema più generale della autonoma gestione della
sessualità. Le 80 pazienti del nostro reparto erano, indipendentemente dal tipo
di ammissione in Ospedale Psichiatrico (volontario o coatto), sostanzialmente
ricoverate in modo coattivo; la consapevolezza che la privazione di libertà di
queste donne non era chiaramente funzionale al superamento del loro star male è
stato il primo passo che ha determinato la aggregazione delle operatrici e poi
delle infermiere intorno ad un lavoro antiistituzionale specifico per le donne.
Da questa consapevolezza è emersa un'analisi dei motivi che
sono alla base del ricovero per la donna e il tipo di funzione repressiva
specifica che l'istituzione manicomiale esercita su di esse In particolare si è
presa coscienza complessivamente dei fatto che dietro ogni ricovero in manicomio
c'è una storia di oppressione: le donne colpite da una contraddizione tra ruolo
sociale e istituzionale e propri bisogni di autoaffermazione - bisogni cui, per
la propria collocazione subordinata, non riescono a dare risposte organizzate in
positivo - vi rimangono invischiate fino all'estrema soluzione di un ricovero
manicomiale «auto o etero-imposto».
Ciò che rispetto alla genesi del ricovero
manicomiale si è fatto è stato quello di rifiutare un mandato da parte delle
famiglie delle ricoverate; di rifiutare cioè la delega alla tutela della
sessualità delle pazienti, con il compito di reintegrazione nel ruolo
primitivo.
Si è quindi interrotta con forza una pratica
medico-psichiatrica custodialistica che identificava il trattamento terapeutico di
una paziente nella sorveglianza - regolamentazione della sua sessualità - e, a
partire da questo, in una privazione della sua libertà.
L'intervento delle operatrici si è svolto scontrandosi con
le regole dell'istituzione manicomiale e di quella familiare in favore
dell'affermazione dell'autonomia delle pazienti.
Il processo di autonomizzazione, a partire dal rifiuto della
delega a custodire la sessualità delle pazienti, è stato segnato da due tappe
fondamentali: una sul piano delle acquisizioni personali e presa di coscienza da
parte di ciascuna paziente, l'altra sul piano delle alternative di vita al
manicomio.
Per il primo punto si è portato avanti il lavoro di
riabilitazione, mirando a far riappropriare le pazienti di tutte le loro
funzioni espropriate dal manicomio, restituendo loro tutti gli oggetti e gli
strumenti della vita quotidiana da gestire e utilizzare in proprio senza
mediazioni. Si è poi aperto il reparto all'esterno estendendo gradualmente il
permesso di uscita. In questo modo si è arrivati all'apertura totale del
reparto attraverso una fase di mediazione che ha visto in un primo tempo una
demarcazione tra pazienti in grado di autogestirsi e uscire da sole, e pazienti
non ancora autonomizzate. Successivamente, in direzione di un superamento
dell'atteggiamento protettivo nei confronti delle pazienti, e nel corso
dell'affermazione di una gestione antiistituzionale si è giunti all'uscita di
tutte le pazienti dal reparto, come momento centrale della possibilità di
sviluppo per ciascuna, indipendentemente dalle ragioni della loro presenza in
manicomio, delle proprie capacità di autonomia e di autodeterminazione.
L'estensione a tutte le pazienti del diritto di uscita dal
reparto, e in questo senso la trasformazione sostanziale del reparto
manicomiale, ha comportato momenti di incontro-scontro con le famiglie delle
ricoverate. Come questo processo di liberalizzazione del reparto abbia avuto
significati specifici per ognuna delle pazienti, al di là anche dell'intervento
diretto delle operatrici, lo si individua in una serie di episodi in cui le
pazienti direttamente hanno gestito le fasi della propria dimissione, trovando
con le proprie forze alternative al manicomio.
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2. L'esperienza territoriale
La prima cosa da dire è che l'esperienza sul territorio
nasce come continuità storica da quella manicomiale. E' all'interno dei
manicomio che ci si è poste, già prima della legge N. 180 del 1978, l'esigenza
di creare dei collegamenti con l'esterno. In un primo momento i collegamenti
sono stati però realizzati in maniera che si è poi rilevata riduttiva: si
partiva dall'esigenza delle ricoverate e si cercava di coinvolgere e portar
dentro altre donne. Le donne che entravano in manicomio erano infatti donne
sensibilizzate al problema, che vivevano comunque il rapporto con le ricoverate
mediato dalla immagine culturale della follia. In effetti il manicomio era il
luogo di osservazione meno adatto per cogliere lí, nella follia femminile, gli
elementi di abitualità che sostanziano la condizione di sofferenza della
donna.
Il manicomio rendeva quelle donne diverse dalle altre: appare
oggi chiaro che questo effetto di estraneità della follia delle ricoverate era
un portato dell'ottica deformante dell'istituzione. Anche se il vissuto di
estraneità era molto forte si è lo stesso tentato in qualche modo di metterlo
tra parentesi nella convinzione, allora ancora oscura o solo di principio, che
non vi dovessero essere sostanziali differenze tra donne nel modo di esperire il
«disagio psichico». Inoltre si era convinte del fatto che le differenze
economiche e culturali potevano essere solo un fattore di maggiore debolezza e
svantaggio sociale, soprattutto quando comportavano il ricorso al ricovero
manicomiale. Ciò era chiaro anche nelle nostre pazienti: il manicomio
rappresentava 1a soluzione più primitiva rispetto al ricorso ai medici, alle
cliniche e ai farmaci, e colpiva le classi economicamente meno abbienti.
Su questa linea l'intervento è stato caratterizzato da una
focalizzazione dell'impegno sulle condizioni di vita delle donne all'interno del
reparto. Poco invece si è operato sulla ricostruzione dì una genesi del
disagio, e sulla individuazione di un carico di oppressione specifico che
ciascuna donna poteva rivelare in quanto «donna». L'istituzione con i suoi
carichi di oppressione generalizzata e aggiuntiva non rendeva possibile questo
tipo di analisi.
Ma proprio dal manicomio iniziava la lettura dell'esistenza
di un ruolo specifico che teneva la donna - anche nella istituzione -
maggiormente assoggettata. L'analisi del ruolo era centrata sugli aspetti della
sessualità; e l'oppressione era essenzialmente vista come privazione di una
libertà sessuale. Siamo qui ancora in presenza di affermazioni di principio o
generiche, mentre è solo sul territorio che inizia un'analisi approfondita e
pratica di questa realtà. Anche l'analisi della follia era rispetto a quella
odierna imprecisata e maggiormente ideologizzata, ma anche - a volte e per certi
aspetti - divergente. La follia, anche se non era considerata espressione di
libertà, era però vista come rottura di un ruolo. Non era ancora emersa con
chiarezza una posizione che precisasse quanto la follia sia solo potenziale
momento di rottura, ma come quasi sempre realizzi in concreto un ulteriore
ingabbiamento e perdita di sé per la donna.
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3. La nascita del Servizio
specifico per la salute mentale della donna.
Da queste considerazioni si è partite nel corso del 1978 con
la creazione sul territorio di un Servizio per la salute mentale delle donne,
all'interno del Servizio di Salute Mentale.
La pratica svolta in questo servizio, finalizzato
esclusivamente all'ascolto ed all'intervento sul disagio femminile, ha
comportato come suo effetto e necessità interna l'elaborazione di un nuovo
approccio teorico al disagio femminile.
Dall'ascolto del disagio delle donne utenti si è andata
sviluppando una prima riflessione sui dati emergenti; si è visto cioè che la
sintomatologia e i problemi delle donne erano collegati a specifiche condizioni
di esistenza così individuate:
- condizione lavorativa domestica ed extra-domestica;
- condizione sessuale.
I dati emergenti riguardo la prima condizione evidenziano che
i tempi, i modi e i ritmi del lavoro erano tali da configurare un'attività
lavorativa di tipo continuo. Il lavoro esterno, quando si è dato in alcuni
casi, si configurava come prolungamento della giornata lavorativa domestica (una
elevata percentuale di pazienti ha presentato come sintomo l'impossibilità a
fare i servizi di casa, a curare i figli, a fare la spesa, ad uscire di casa;
oppure l'estrema applicazione al lavoro domestico come inevitabilità di questo).
I dati emergenti riguardo la seconda condizione evidenziavano
una restrizione della sfera personale di libertà imposta dall'ambiente, e
definita come restrizione in base alle differenze sessuali (una elevata
percentuale di pazienti ha presentato come disturbo la non possibilità di
uscire da sola di casa, l'abbandono del lavoro esterno dopo il matrimonio,
ecc.).
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4. la metodologia del Servizio
per la salute mentale della donna nella sua prima fase (1978-1982)
L'intervento del Servizio si è mosso secondo due linee
complementari:
il tentativo di ricerca da parte dell'utente
stessa, soggetto della sua storia, delle radici della propria
oppressione come origine dei suo star male: tentativo che non può mai
prescindere dalle attuali potenzialità e possibilità concrete di
vita della donna;
-
il tentativo di definire lo spazio di una
operatività che sia sempre capace di esprimere una posizione tecnica
«dalla parte della donna». Il che significa porre la donna come il
centro del Servizio, e mantenere fermo, come punto di vista rispetto
ad altri elementi relazionali della vita della donna (coppia,
famiglia) la situazione di op- pressione della donna che sempre si
dà, quali ne siano le rappresentazioni date dall'esterno.
Tutto ciò ha comportato la necessità di
a.,analizzare la storia della donna come processo di
strutturazione di un ruolo precodificato, le cui tappe sono comunque
attraversate - nel duplice senso diacronico e sincronico - dalla polarità
autonomia - dipendenza;
b. analizzare l'attuale star male come elemento
sintomatico di una situazione di insostenibilità, sottolineando il modo e
lo spessore di una divaricazione tra il proprio ruolo - nelle sue
varie articolazioni pratiche, vissuto come parte non integrata del sé, ma
sempre avente una validità come immagine sociale interiorizzata (dover
essere) - e propria condizione di sofferenza. (è tipica la frase:
«Dovrei fare i servizi di casa, accudire i figli ecc., ma non ci riesco
più, sto male »);
c. porsi, nei confronti di questo vissuto di
scollamento che la donna presenta, in modo tale da non dar risposte
generiche o ideologizzanti. Ciò che si è individuato come atteggiamento
corretto del Servizio Donne è l'assunzione di una
funzione di stimolo o di ricerca di una possibilità di
trasformazione degli aspetti di oppressione del ruolo incidenti
sulla condizione di malessere della donna.
Il riconoscimento della soggettività della donna risulta
quindi essere complessivamente il punto fondamentale dell'intervento; ed il
Servizio Donne al suo nascere si è caratterizzato quindi come «spazio della
donna per sé».
Riteniamo tale spazio come il punto di partenza del processo
di riappropriazione del benessere individuale: infatti in esso la donna
inizia a scoprire la possibilità della esistenza di bisogni e desideri propri,
laddove finora tutto questo si era sempre configurato come un suo «essere per o
al servizio dei bisogni altrui».